La misura dello sciopero

Brevi considerazioni in vista dell'assemblea del 25 marzo e dello sciopero del 6 maggio

22 / 3 / 2011

Attorno allo sciopero generale convocato dalla Cgil per il prossimo 6 maggio si stanno addensando in rete prese di posizione alquanto bizzarre. L’impressione che si ha è quantomeno straniante: chi prende parola si inserisce nel dibattito politico attraverso un puro giudizio sulla adeguatezza dei tempi e dei modi di quella scadenza. Si rincorrono le definizioni: sciopericchio, scioperuncolo…c'è chi, addirittura, lo ritiene misura di contenimento dell'imminente insurrezione italiana, conseguenza naturale del “vento del Sud” (a proposito, ma come si inserisce in questo quadro la vicenda libica? ma non sarà tutto un po' più complesso?). Questo è il gioco: più si accentuano i caratteri di debolezza e inadeguatezza della scadenza, più, di converso, si vede accresciuta la propria radicalità e messa in sicurezza la propria posizione. Si riconosce, di sfuggita, che lo sciopero è stato il frutto di pressioni provenienti dal basso e dalla stagione dei conflitti autunnali, ma si chiude poi subito il discorso.

Domanda: siamo proprio sicuri che il problema per i movimenti sociali sia, oggi, quello di stabilire un’unità di misura nei confronti dello sciopero generale del 6 maggio? Che la dirigenza della Cgil sia stata «costretta» a convocarlo e lo abbia fatto, controvoglia, a causa di una spinta tanto esterna quanto interna, che questa pressione si sia confrontata quindi con una volontà politica tutta improntata al contenimento degli elementi conflittuali, della portata rivendicativa, è un fatto evidente su cui nessuno deve essere ulteriormente convinto. Il rischio, però, è quello di confondere le (ovvie) premesse del discorso, con il discorso stesso.

È forse più utile ribaltare il problema. Che il sindacato italiano più importante e numeroso abbia convocato uno sciopero generale è un dato molto importante ma, ad oggi, secondario. È primario, invece, comprendere come su questa base (modesta nelle modalità e misera nelle pretese politiche) si costruisce un processo che sposti e ridefinisca la stessa soggettività che agisce e pratica quella scadenza di lotta. Se è vero che il processo di precarizzazione del lavoro è la base materiale su cui studenti, migranti, operai, lavoratori autonomi e tradizionali riconoscono il proprio destino e il proprio presente, è necessario che questi stessi soggetti rivendichino non solo il proprio protagonismo ma la titolarità nella costruzione del discorso e della pratica del 6 maggio. Questo il punto. Invece di dimenarsi nella misurazione delle altrui volontà, occorre ingegnarsi su come il processo politico e sociale che si inserisce dentro quella convocazione ecceda in lungo e in largo la misura che gli è stata imposta. È in vista di questa posta in gioco che, casomai, è necessario condividere dei criteri valutativi che superino l’inutile logica dell’adesione o della delusione. C’è il rischio, altrimenti, che il «fallimento» dello sciopero generale diventi una sorta di profezia che si auto-avvera. Esito, nel caso, utile solo alle logiche d'identità (sindacale), non di certo al futuro del conflitto in questo Paese.

Detto questo, occorre procedere nel ragionamento senza sottovalutare un punto essenziale: l’ansia e il timore da parte della segreteria del sindacato di contenere la dinamica conflittuale e di non farsi sfuggire di mano le iniziative di lotta è direttamente proporzionale alla natura non simbolica che uno sciopero generale può, in questo momento, assumere.

È la crisi istituzionale in cui versa questo paese che sgretola ‒ a differenza di quanto vorrebbe il Partito di Repubblica ‒ il confine tra l’economico e il politico, è la crisi finanziaria e occupazionale che tende a ricomporre la rivendicazione per un reddito garantito con quella della garanzia del salario, è l’assenza di spazi di mediazione e di contrattazione a spingerci verso un’ibridazione di forme di lotta più tradizionali con quelle che interessano il tessuto metropolitano. Questione democratica e “istanze di classe” sono segnate, ormai, da una relazione costitutiva, così come le nuove forme di valorizzazione capitalistica hanno progressivamente reciso il legame privilegiato con le istituzioni politiche democratiche. I tumulti autunnali, londinesi e romani, così come le straordinarie rivolte del mediterraneo, dalla Tunisia all'Egitto, hanno con forza fatto emergere questa novità: il conflitto studentesco e giovanile contro il declassamento e il blocco della mobilità sociale ha da subito assunto la veste di una radicale democratizzazione della società, contro la corruzione e il carattere parassitario del potere e delle oligarchie, espressione, sul terreno politico, del dominio incontrastato della rendita finanziaria, su quello economico.

In questo contesto anche la questione della precarietà non è più la stessa che abbiamo conosciuto negli ultimi tempi. Sarebbe un peccato veder richiudere il campo aperto dalle lotte dei precari in questi anni nell’angusto spazio dell’«identità precaria», proprio nel momento in cui questa si presenta per quello che i movimenti sociali hanno, in solitudine, predetto: essere, cioè, carattere trasversale ed egemone della composizione sociale del lavoro contemporaneo.

Se l’obiettivo è quello di ricodificare lo sciopero attraverso la sua generalizzazione, è necessario dotarsi degli strumenti e delle forme adeguate. A questo deve servire l’assemblea di Uniti per lo sciopero del prossimo 25 marzo all’università La Sapienza. Costruire una carta rivendicativa che sappia spostare in avanti le pretese di chi vede la propria base di diritti acquisiti sgretolarsi o chi quella base non l’ha mai neanche conosciuta. Sperimentare cosa vuol dire bloccare la produzione e la circolazione, non solo astenendosi dal proprio lavoro, ma assumendo il territorio metropolitano come uno spazio interconnesso sul cui corpo il capitale si valorizza. L’estensione metropolitana dello sciopero non è un dato acquisito né scontato, non solo perché difficile, ma perché va conquistata e difesa. Su questo le mobilitazioni studentesche e migranti hanno cominciato un discorso che va ripreso ed esteso alle altre componenti dell’arcipelago del lavoro. Lo sciopero generale deve essere l’occasione per rendere visibili i luoghi dove lo sfruttamento non siamo abituati a pensarlo, per praticare forme di lotta anche per coloro che non possono esercitarle, o perché soli, perché lavorano in proprio, o perché un lavoro non ce l’hanno. Ma soprattutto per rompere quel manto patriottico o velleitario che copre l’opposizione politica italiana. In Italia, è vero, siamo in presenza di una crisi che mette in gioco le basi costituzionali. Questa crisi però non affonda le proprie radici nella spregiudicatezza del tiranno, ma nella materialità di un potere che agisce sulla vita di ognuno travalicando gli argini del patto sociale postbellico. Questa esondazione i precari la conoscono da almeno trent’anni. Oggi rischia di travolgere tutti. È nella riattivazione dei luoghi e dei soggetti che vivono questa materialità che bisogna vedere l’occasione principale della generalizzazione dello sciopero. Che questa sia una scommessa difficile e tutta da verificare, non c’è dubbio alcuno. Che sia invece una partita già chiusa dalla natura della convocazione, è solo un modo per non misurarsi con una sfida che, per fortuna, è più grande di noi.

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