La Cassazione nell'ambito del processo
su “Mafia Capitale” ha sancito che il cosiddetto “Mondo di
mezzo” non era un'associazione di stampo mafioso. L'accusa, mossa
dalla procura di Roma, ruotava attorno alla costituzione di una
"nuova" mafia, che aveva negli appalti della Capitale il
maggior centro di interesse.
I due principali attori, Salvatore
Buzzi e Massimo Carminati non avevano messo in piedi, secondo la
Cassazione, un unico gruppo criminale ma due associazioni che poco o
nulla avevano a che vedere l'una con l'altra. Da un lato la
cooperativa sociale 29 giugno e dall'altra i “neri” di
Carminati.
Per l'ex Nar e per il presidente della cooperativa 29
giugno, nonchè per altri imputati che si erano visti contestare
l'associazione di stampo mafioso, ci sarà un processo d'appello bis
per il ricalcolo delle pene alla luce della declassazione del reato
in associazione a delinquere semplice.
Secondo la Cassazione a
Roma non c'era la mafia, ma soltanto corruzione. Il processo ruotava
intorno al 416bis, l’articolo del codice che disciplina
l’associazione a delinquere di stampo mafioso.
In Italia il
reato di associazione mafiosa è stato introdotto nel Codice penale
con la celebre legge Rognoni-La Torre del 1982. Il delitto di
associazione mafiosa costituisce ancor oggi un caposaldo della
repressione penale delle forme considerate più temibili della
criminalità organizzata. Se, infatti, nei primi trent'anni di vita
ha consentito di contrastare giudiziariamente le “mafie storiche”
(“cosa nostra” siciliana, “’ndrangheta” calabrese e
“camorra” napoletana) nei loro territori d’origine come mai era
accaduto nell'Italia repubblicana, negli ultimi anni il reato si è
rivelato utile anche alla repressione di fenomeni criminali
considerati di più recente comparsa.
L'associazione è di tipo
mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di
intimidazione del vincolo associativo e della condizione di
assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti,
per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il
controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni,
appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi
ingiusti per sé o per altri, ovvero al fine di impedire od
ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o
ad altri in occasione di consultazioni elettorali.
La pubblica accusa chiedeva la conferma per diciassette imputati. La sentenza di Appello dell'11 settembre 2018 aveva ribaltato il primo grado che non aveva riconosciuto le accuse di mafia. A Carminati, Buzzi e al resto del gruppo erano stati riconosciuti colpevoli di reati di mafia anche se per alcuni erano stati diminuiti gli anni di detenzione L'imprenditore delle cooperative è stato condannato a 18 anni e quattro mesi, l'ex Nar a 14 anni e mezzo, l'ammontare complessivo delle pene per i 43 imputati, otto dei quali assolti, aveva raggiunto quasi i 200 anni di carcere. Nella requisitoria, il pg Luigi Birritteri aveva sottolineato come il gruppo dell'ex Nar e del re delle cooperative romane aveva "tutte le caratteristiche dell'associazione mafiosa e rientri perfettamente nel paradigma del 416 bis".
Sono
tantissime le intercettazioni, meno le testimonianze che mettono in
evidenza le modalità con cui Buzzi e Carminati portavano avanti i
propri affari.
Uno dei pochi ad aver messo a verbale il calvario
durato anni è stato l'imprenditore Riccardo Manattini. Agli
inquirenti disse di aver conosciuto Carminati e due dei suoi fidati
colonnelli, nella famosa stazione di servizio dove Carminati
incontrava gli uomini con cui faceva affari. Manattini disse: «Mi
sono stati descritti nel 2012 come quelli che comandavano tutta Roma.
Ero in difficoltà economiche, mi sono rivolto a loro». Nell'agosto
2014 arriva l’avvertimento: «Carminati
si è avvicinato ed ha
puntato l’indice della mano destra contro la mia faccia. Mi ha dato
un colpo sul naso e poi ha detto “Non nominare più il mio nome in
giro sennò ti taglio in due”. Poi si è girato e si è allontanato
senza darmi modo di rispondere. Il gestore del distributore, Roberto
Lacopo, per impaurirmi mi ha detto che Carminati e Brugia avevano
percosso con un cacciavite un imprenditore, procurandogli ferite al
torace, solo perché aveva speso in giro il nome
di Carminati per
i propri affari».
Questa testimonianza sottolinea quanto
Carminati e i suoi uomini utilizzasse in maniera sistematica
l'intimidazione e l'assoggettamento degli individui.
La Suprema Corte ha riconosciuto l'esistenza di associazioni, nei termini affermati dalla sentenza di primo grado. Non un'associazione di stampo mafioso, ma due associazioni a delinquere che erano state capaci di infiltrare in profondità la macchina amministrativa e politica di Roma. Da un lato quindi si conferma che c'erano due associazioni criminali che in qualche modo contaminavano la città, dall'altra però decadendo il reato di associazione mafiosa diminuiscono le pene.
A Roma, la storia recente ha sempre parlato
di intrecci tra criminalità (o mafia?), politica e gruppi di estrema
destra. Fu lo stesso Carminati, durante un'intercettazione, ad
utilizzare la parola mafia, dicendo che a Roma, grazie a lui, si era
creata grazie una “pax mafiosa”.
L'omicidio di Fabrizio
Piscitelli – capo ultras della lazio, fascista, amico,
collaboratore di Carminati – ha rotto quella pax.
Qualche
giorno dopo Fabio Gaudenzi, anche lui vicino all'eversione di estrema
destra capitolina e condannato in primo grado nel processo di mafia
capitale, con una pantomima caricata su youtube ha dichiarato il suo
essere fascista e non mafioso: «Vorrei essere processato e
condannato per banda armata – ha dichiarato Gaudenzi, anche lui
condannato, a 2 anni e 8 mesi, nel maxi processo Mafia capitale ma
con rito abbreviato e senza l'aggravante mafiosa - come dovrebbero
esserlo Carminati e Brugia.»
La pantomima messa in scena da
Gaudenzi che riconosce e rivela l'esistenza di un gruppo di fascisti
organizzati a Roma Nord, capeggiati da Carminati e Brugia, e
soprattutto riconosce la loro leadership, conferma l'esistenza da
decenni di un gruppo organizzato, che si nutre del metodo mafioso,
della forza di intimidazione che proviene proprio dalla loro
formazione fascista in particolare dai Nuclei armati rivoluzionari.
La Cassazione ha sottolineato la mancanza di metodo mafioso, ma
la messa in scena di Gaudenzi ci lascia due aspetti: gli uomini di
Carminati sono ancora in possesso di armi da guerra e soprattutto i
modi e i toni che utilizzano sono criminali.
Un’altra questione
da rimarcare riguarda l’ambiguità del concetto di mafia nella
dimensione giuridico-penale. Senza entrare nel merito, ci preme
sottolineare lo iato esistente tra l’ambito strettamente giuridico
e i contesti socio-politici entro i quali i reati in questione
continuano a produrre effetti.