La liberazione animale nell’era neoliberista

30 / 4 / 2019

Il 28 aprile è, per il movimento di liberazione animale italiano, una giornata particolare. In tale data, infatti, nel 2012, un evento imprevisto segna uno spartiacque nella celebre campagna contro l’allevamento di cani da laboratorio “Green Hill” di Montichiari. Durante un corteo di protesta nei pressi dell’azienda, vengono liberati oltre 60 cani da manifestanti che agiscono a volto scoperto. Si tratta di un’azione diretta che, oltre a costituire la salvezza per le future cavie e ad imprimere nuovo slancio alla campagna, suscita simpatia e consenso quasi unanime.

Una simpatia “bipartisan” attribuibile a diversi fattori, fra cui la natura spontanea e non violenta dell’atto, la specie degli animali liberati (tra le tante specie usate nella ricerca, indubbiamente i cani – e in particolare i beagle – sono il più immediato oggetto di empatia), ma anche una serie di ambiguità politiche che già permeavano questo movimento. Se, infatti, la campagna nasce da un gruppo con un posizionamento apertamente critico verso l’animalismo trasversale o legato alle destre – il “Coordinamento Fermare Green Hill” –, il corteo in questione è indetto da un gruppo costituitosi più tardi – “Occupy Green Hill” – che non fa mistero dei suoi legami con Michela Vittoria Brambilla, l’ex ministra berlusconiana che non perde occasione per sostenere gli animalisti in cambio di visibilità politica.

Non ci soffermiamo su una critica dello pseudo-animalismo ipocrita o contraddittorio che si diffonde in tali ambiti, preferendo invece prestare attenzione alla più generale, semplicistica, assimilazione del cosiddetto “movimento animalista” a fenomeni mediatici e pietistici come quelli incoraggiati dalla pasionaria brianzola.

Riteniamo che le responsabilità siano da spartirsi fra la medesima galassia animalista (che spesso presta il fianco a queste letture pressapochiste), e il mondo esterno ad essa – anche e soprattutto quello “di sinistra” – che spesso sovra-enfatizza simili derive per liquidare in modo frettoloso una battaglia che invece potrebbe e dovrebbe rientrare nel solco anticapitalista di opposizione all’egemonia neo-liberista. Così facendo, una proposta di sovversione e critica radicale viene ridotta a macchietta. I primi a rimetterci sono gli/le antispecisti/e, laddove con questo termine si intende (si dovrebbe intendere) coloro che non riducono la questione animale a faccenda empatica, ma la inquadrano all’interno di dinamiche di sfruttamento più estese. In realtà gli antispecisti sono i secondi a rimetterci; i primi sono quegli altri animali (mucche, polli, maiali, pesci…) che non vengono considerati degni di lotta tanto quanto il cagnolino da laboratorio.

Ci pare utile fornire qui una breve panoramica del nostro punto di vista, quello che ritiene la “questione animale” come parte integrante di una critica al dominio generalizzato sui corpi e le biografie individuali, esercitato dalle politiche e dalla visione del mondo di quel sistema socio-economico chiamato capitalismo. Si tratta, appunto, di una sintesi: tale posizione è articolata in un volume di recente uscita dal titolo esplicito quanto didascalico: “Smontare la gabbia. Anticapitalismo e movimento di liberazione animale” (Mimesis, 2019). Come scriviamo nell’introduzione del libro, riteniamo infatti che sia necessario «un effettivo smontaggio dei meccanismi e dei presupposti che danno vita alle gabbie che tengono prigionieri milioni di animali non umani, ma anche un numero sterminato di umani: ex-colonizzati, donne, disabili, migranti, individui variamente esulanti dal binarismo cis-gender, solo per citare alcune categorie di sfruttati/e». E riteniamo che ciò possa avvenire soltanto a partire da un approccio intersezionale, l’unico in grado di smontare davvero le gabbie costruite da un assetto sociale pervasivo come quello capitalista.

Nel libro in questione vengono affrontati diversi temi specifici, inquadrati in una prospettiva critica nei confronti dell’Occidente contemporaneo (e dell’Italia in modo particolare), partendo da “questioni animali”, ma allargandole ad altri aspetti di critica all’esistente. Per questo, si parla ad esempio di veganismo e della sua frequente deriva modaiola/salutista/mainstream, in abdicazione all’approccio etico spesso trasformato in consumo diet-etico; della necessità di intersezioni a 360 gradi, soprattutto coi movimenti anticapitalisti, transfemministi e queer; dei tentativi di infiltrazione da parte delle destre, sia quelle “moderate” sia quelle estremiste; o ancora della rilevanza (ma anche delle criticità) assunte dall’attivismo online, che notoriamente vede l’universo animalista al centro di notevoli polemiche. Ma nel libro si affrontano anche fenomeni meno conosciuti, come quello degli animali ribelli che fuggono da allevamenti e altre forme di costrizione; quello della cosiddetta “carne felice”, caso tipico di green-washing adottato dal mercato neo-liberista, ma anche esempio di biopolitica in senso foucaultiano; oppure quello dei rifugi per animali “da reddito” quali eterotopie di convivenza inter-specifica e anti-sistemica. Infine una nota particolare merita il capitolo finale, relativo alla questione del randagismo, tema solitamente appannaggio degli approcci protezionisti e paternalisti, ma sviluppato in modo originale a partire dal bel documentario “No Pet” e da una ricostruzione del modo in cui il cane è stato letteralmente costruito dall’essere umano nel corso dei secoli, al fine di far emergere forme di dominio e sfruttamento forse meno violente e visibili ma altrettanto rilevanti.

Senza alcuna pretesa di esaustività, il libro dà voce a piccole e grandi esperienze di attivisti/e e studiosi/e che da anni si occupano della “questione animale” con uno sguardo (auto)critico, provando a restituire il senso di un dibattito complesso e, probabilmente, più articolato di quanto dall’“esterno” si possa percepire. Un dibattito in cui alcune categorie mutuate da altri ambiti di ricerca e di lotta si fanno strada per illuminare la riflessione sull’animalità, una riflessione che a ben guardare riguarda molto da vicino lo stesso animale umano, se si pensa, ad esempio, che uno dei meccanismi centrali nella marginalizzazione e nella normalizzazione della violenza sul più debole è proprio l’animalizzazione (dei/lle migranti, delle donne, dei soggetti che contestano il regime eterosessuale, e non solo). Fra questi strumenti, giocano un ruolo particolarmente rilevante le categorie del pensiero queer – performatività (di specie?), pinkwashing, critica al binarismo (di specie?) – e quelle del pensiero decoloniale – se si pensa che il “subalterno” non è necessariamente appartenente alla nostra specie, e che questo semplice fatto pone in maniera piuttosto problematica la questione di chi possa prendere parola e in che modo.

Tornando sulla ricorrenza del 28 aprile con cui abbiamo aperto l’articolo, nel capitolo che noi curatori abbiamo firmato all’interno di “Smontare la gabbia” ci riferiamo alle derive qualunquiste e destrorse dell’animalismo. Sono noti gli endorsement berlusconiani e la rilevanza mediatica assunta da Michela Vittoria Brambilla come “simbolo” del mondo animalista presso il pubblico mainstream.

Probabilmente meno conosciuti sono i tentativi di appropriazione da parte delle destre neo-fasciste, il notevole interessamento (spesso contraddittorio) del Movimento 5 Stelle e persino l’improbabile avvicinamento di alcuni esponenti leghisti che goffamente cercano di utilizzare argomenti zoofili spesso in chiave xenofoba: il caso “classico” è quello dei cinesi che mangiano carne di cane, o quello della macellazione rituale, in grado di scatenare le paranoie islamofobiche latenti in una significativa porzione degli “amanti degli animali”; ma basti pensare alla denunciata “invasione” (tanto per cambiare) dei kebabbari, e del loro possibile impatto sulle tradizioni culinarie italiane (a base carnea).

Il contesto in cui alcune retoriche attecchiscono, del resto, sembra essere quello di un interesse per la condizione di un soggetto sfruttato (il non umano) da parte di attori convinti di poter “isolare” la questione dal contesto politico e sociale generale, muovendo dall’adagio secondo cui “agli animali non interessa la politica” e, dunque, l’opposizione alla violenza nei loro confronti sarebbe una questione di buona coscienza – “né di destra né di sinistra”.

Riportiamo pertanto un estratto del capitolo in quanto riassuntivo del nostro punto di vista, ma anche dell’intera prospettiva alla base del libro: «L’antispecismo è, secondo queste letture superficiali, politicamente trasversale: se Brambilla e Berlusconi prendono le difese degli animali, sono ben accetti, poiché comunque contribuiranno in qualche modo alla loro ‘salvezza’. Per questi motivi rivendicare la natura ‘di sinistra’, il carattere di contestazione all’ordine neo-liberale e la genealogia antagonista dell’antispecismo, non è un esercizio di stile o un vezzo passatista, ma il necessario (e, ci viene da dire, scontato) baluardo da cui partire per non dimenticare da dove veniamo ma anche e soprattutto dove vogliamo andare. Non si tratta dunque né di nostalgia né di onanismo, ma soltanto di un convinto rifiuto di prospettive machiavelliche che giustifichino i più svariati mezzi per giungere a un fine considerato auspicabile».

Il libro sta avendo un’ottima diffusione presso alcuni settori dei “movimenti animalisti”, quelli più politici, anticapitalisti e vicini ad altre istanze di liberazione umana. Ce lo aspettavamo. Quello che però speriamo davvero è che possa raggiungere un pubblico extra-animalista, ma anticapitalista secondo varie forme e declinazioni. Così come il pensiero e le prassi antispeciste iniziano ad acquisire consapevolezza del fatto che i corpi animali non possono – letteralmente – liberarsi dal giogo secolare che li opprime senza considerare altri assi di distribuzione della vulnerabilità e del potere (come il genere, la razza, la classe, l’abilità, ecc.) e senza la sovversione dell’attuale modo di produzione, siamo convinti che sia giunto il momento di considerare seriamente l’ipotesi per cui tutti i privilegi devono essere messi in discussione, ivi compreso quello di appartenere alla specie dominante, e che ci si debba confrontare sull’apporto che la contestazione dello sfruttamento animale può dare alle lotte antagoniste, non foss’altro perché l’attuale sistema di produzione si fonda anche sulla messa a valore di miliardi di corpi non umani per la produzione intensiva di merci.

Niccolò Bertuzzi è assegnista di ricerca presso la Scuola Normale di Pisa e membro di Cosmos (Centre on social movement studies). Si occupa di movimenti sociali, sociologia politica e sociologia dei consumi.

Marco Reggio è un attivista antispecista. Si interessa di antispecismo, teoria queer, animal agency. Ha curato diversi volumi e pubblicato articoli su rivista su questi temi