La Lega è sempre la Lega

Salvini rinuncia alla candidatura in Campania per puntare su Zaia in Veneto

15 / 4 / 2015

La stampa prova a decolorare e proporre solo come tatticismo elettorale la rinuncia di Matteo Salvini a una lista autonoma e a un proprio candidato in Campania. Certamente la posta in gioco è Zaia in Veneto, la storica roccaforte del carroccio che non può essere messa sotto scacco dai due candidati diversi del centro-destra. In quest’ottica l’accordo con Berlusconi vuole un unico candidato in Veneto e un unico in Campania. Letta così sembrerebbe semplicemente la solita partita di scambio interna alla destra italiana che spartisce i territori sulla base delle relazioni con le lobby e con i mediatori locali. Una partita che negli anni Berlusconi ha giocato sui tavoli più criminali che la stessa Campania ha conosciuto, costruendo una roccaforte di potere che lega a doppia mandata il capitalismo legale ed illegale alla politica. In questo quadro la Campania è l’unica speranza concreta per Berlusconi di governare almeno una regione. Eppure non è tutto. Stavolta fotografare la rinuncia di Salvini alla lista autonoma nella regione della più importante metropoli meridionale vuol dire di fatti una messa in discussione profonda di quel progetto di “ripulitura” nazionale che la Lega ha tentato in questi mesi.

Quando il dato elettorale delle europee aveva fatto intendere che ovunque fosse assente l’opzione radicale di una sinistra rinnovata ed in grado di guardare ai movimenti sociali, si aprivano autostrade di consenso per populismi a trazione nazionalista, antieuropeista e xenofoba, Salvini decise di prendere la palla al balzo e di provarci. Ne seguì il patto di sangue con Marie Le Pen ed il frettoloso e goffo tentativo di rimozione dalla storia leghista del separatismo e del razzismo anti-meridionale a vantaggio di un’opzione anti-europeista, razzista sì, ma solo con i migranti.  Il leader del carroccio tuttavia non aveva fatto i conti con alcune imprevedibili variabili legate alle spinte sociali dei territori, sia quelle dell’elettorato del settentrione abituato alla lega di “Senti che puzza” e non così disposto a mediare una pace con il sud Italia, sia quelle dei  meridionali, che hanno dimostrato in questi mesi di non voler condonare nulla ai pagliacci razzisti della Lega Nord. Nelle maggiori città del Sud, ad ogni tentativo di comizio le contestazioni sono state tante ed eclatanti. A Napoli a dirla tutta non è riuscito mai a mettere piede per più di qualche ora se non rapidamente ed in semi-clandestinità. Gli alleati scelti poi per l’escalation alla “Nazione” hanno mostrato il loro volto migliore a Roma il 28 Febbraio, quando attorno al leader leghista a Piazza del Popolo si è riunita l’estrema destra italiana in un tripudio di svastiche, celtiche e striscioni inneggianti all’odio razziale. Attorno a quella amalgama di nero e nostalgia, che ha creato malumori interni anche allo stesso carroccio, parallelamente proprio a Roma sfilava un corteo  immenso, che sovrastava nei numeri la piazza leghista; un corteo colorato  che rispondeva alla presenza di quel mix terrificante con le parole d’ordine della giustizia sociale, della passione per le differenze e del rifiuto assoluto dei confini e delle frontiere. Il 28 febbraio ha segnato una disfatta clamorosa per l’opzione nazionale di Salvini ed innegabilmente un abbassamento del tiro in vista delle regionali. I buoni vecchi accordi tra partiti sono tornati a decidere degli schieramenti ed hanno soppiantato le megalomanie del leader Leghista.

Insomma, quello che appare evidente e che è d’altronde ratificato dall’assenza della candidatura in Campania, è che Salvini ha giocato una partita troppo grossa per una forza politica che, forte proprio del radicamento sociale in alcune zone del paese, non può rinunciare ad un dna che la rende di fatti ostile al meridione e di conseguenza rende il meridione ostile alle sue proposte elettorali.

Non era scontato. Salvini ha spaventato e spaventa perché le sue posizioni populiste agiscono senza scrupoli sui nervi sensibili di un paese che si impoverisce materialmente e culturalmente sempre di più. La guerra al più povero e l’imposizione della competizione spietata tra subalterni è un paradigma etico che avvolge le forme di vita e ne determina passioni e convinzioni. La paura e la disperazione sociale scompaginano il senso di  giustizia e provano a rompere qualunque legame di solidarietà tra chi condivide una condizione di colonialismo economico e di sfruttamento feroce. Chi parte in autobus da  Agrigento verso la Germania, per lavare i piatti in un qualunque ristorante italiano, è portato dall’etica dominante a sentire meno familiarità con chi arriva dalla Libia su una barca nella notte di Lampedusa,  che con un giovane impiegato milanese che gode di un tenore di vita che supera di più di  tre volte quello medio delle città del sud. Ricostruire i legami di solidarietà tra subalterni e rompere il paradigma barbaro della guerra tra poveri sono di fatti l’unica garanzia contro il contagio delle destre e dei populismi nelle zone più povere del paese. Diciamoci però anche che da qualche parte degli anticorpi sociali esistono e che la memoria collettiva è assai più lunga di quella che credono i leader delle forze politiche quando si siedono a tavola e decidono delle geometrie elettorali. In Campania Berlusconi avrà sicuramente spinto per essere garantito e per giocare la partita senza avversari interni, ma Salvini sapeva e sa troppo bene che tanta Napolifobia e tanto sentimento anti-meridionale costruiti a tavolino in questi anni per guadagnare consenso al nord, generano una reazione uguale e contraria. Quella reazione è un anticorpo. Non una certezza, né un assunto, ma un ottimo anticorpo da cui muovere un discorso reattivo e rivendicativo che risponda definitivamente alla retorica coloniale del parassitismo.