La guerra a Vicenza

Fallito il tentativo del governo di annientare la protesta

5 / 7 / 2009

Quella appena vissuta a Vicenza è stata una giornata difficile, ma straordinariamente importante. 

Difficile perché il popolo del No Dal Molin, e con esso tutte le realtà sociali che hanno risposto all'appello e sono giunte da ogni parte d'Italia, si è trovato a fare i conti con lo stato d'eccezione. La guerra, quella che diviene unica legge sopra ogni diritto o garanzia democratica, oggi secondo i piani del Ministero degli Interni guidato dal leghista Maroni ( quello di "paroni a casa nostra" ) e del governo, doveva prevalere su tutto. E in questo stato d'eccezione imposto a Vicenza, attraverso una vera e propria occupazione militare della città, si possono scorgere le caratteristiche fondamentali del rapporto tra governanti e governati che si vorrebbe instaurare in questa epoca. Lo stato di eccezione, la sospensione della costituzione, un tempo si intendeva come "tempo intermedio", tra un momento e l'altro, a significare l'eccezione appunto, che conferma la regola di un rapporto sociale basato su ben altri parametri.

Oggi invece, ed è a Genova, nel 2001 che le basi di questo nuovo modello sono state gettate, lo stato d'eccezione è permanente e a geometria variabile. La guerra c'è sempre, e cambia l'intensità. I carabinieri del Tuscania, con i blindati antisommossa con le scritte in arabo, perchè sono gli stessi impiegati in Iraq, in Afghanistan o appunto in una delle nostre città, o i reparti della polizia o della finanza, presidiavano con uno schieramento mai visto, delle reti che circondano un pezzo di terra completamente vuoto. Di base americana, per fortuna certo, non c'è nemmeno l'ombra al Dal Molin.

Ma quei militari non erano lì per proteggere niente. La loro presenza così invasiva, ostentata, arrogante e anche scandalosa, aveva solo funzioni di attacco. Dovevano occupare e annientare qualsiasi spazio dialettico che, in anni di lotte della realtà del Presidio No Dal Molin, si è costruito. Una dialettica reale, che contrappone ogni visione armonica e lineare dei processi sociali, alla materialità della conquista, passo dopo passo, dei propri spazi di democrazia, di agibilità, costituenti di qualcos'altro da quello che è dato ed è frutto dell'intero sistema, dal governo all'opposizione, dal parlamento alle istituzioni. La guerra quindi, utilizzata come dispositivo liquido, in grado di riempire ogni striatura provocata da una resistenza che diviene progetto di un altro modo di vivere, di decidere, di un altro "comune" come dicono i vicentini.

Difficile quindi oggi trovare la maniera di non permettere che questa melma fluida, armata fino ai denti, non penetrasse in maniera distruttiva negli spazi vitali che hanno fatto dell'indipendenza la propria ragione di esistere. Ma il No Dal Molin e le migliaia che sono scesi in piazza ci sono riusciti. Quel "Yes We Can" dello striscione che apriva il corteo, innanzitutto oggi parla a noi. Si Può fare, anche se c'è la guerra. La determinazione e l'indignazione non hanno mai ceduto il posto oggi alla rassegnazione. L'aver costruito un meccanismo di partecipazione che prevedeva anche ruoli e funzioni diverse all'interno di un unico corpo, dalla testa, piena di giovani di Vicenza e di tante città, che in maniera autodifesa  ha permesso di "aprire" le strade al corteo, alla gestione continua dal palco della comunicazione, al Presidio da cui non se ne è andato via nessuno, per riprendere e finalmente manifestare dopo gli scontri avvenuti con i carabinieri e la polizia, è risultato vincente. Ed è qui che una prima riflessione sul futuro può nascere utilizzando ciò che si è imparato a Vicenza. La guerra, questa forma di guerra contro la democrazia che nasce dal basso, ce la troveremo difronte ancora.

Ma quando come oggi fallisce i suoi obiettivi, che beninteso possono essere raggiunti anche con un massacro come a Genova, rafforza il contropotere che gli si oppone. Ed esso può chiamarsi tale solo se riesce, anche nei momenti di resistenza o di assedio, a proporsi come progetto, ad articolare le sue modalità e le sue funzioni. Oggi quelli del No Dal Molin sono andati fino in fondo. Hanno assunto il dato che l'unica maniera pacifica di opporsi alle imposizioni, è quella che difende la sua gente in uno stato d'eccezione permanente. E' quella dunque che non sui rassegna, perchè questo equivarrebbe a tornare tutti a casa, ma pensa a come mantenere aperti quegli spazi e a impedire che vengano riempiti dalla guerra fluida, normalmente terribile. Ha perso oggi Maroni, il leghista che comanda le truppe di stato. Hanno perso anche quelli che proiettano sui movimenti un'immagine ipocrita e distorta secondo la quale bastano le sfilate e le petizioni ( o i voti ) per cambiare il mondo. Quello del No Dal Molin è un nuovo modo di procedere, che definisce in modo originale come attraversare la guerra senza che essa ti invada.

Questo è il vero significato della parola "pace". Non quello che aveva assunto in questi anni, dove essere pacifisti in sostanza significava non opporsi mai, permettendo tutto alla guerra.