La governance europea tra politiche monetarie e piano Junker

Quantitative Easing, Piano Junker e TTIP, intervista ad Andrea Baranes

16 / 1 / 2015

Il governatore Mario Draghi porterà al prossimo consiglio direttivo della Banca Centrale Europea un piano d'acquisto di titoli di Stato che ammonterà ad almeno 500 miliardi di euro. Una manovra, promossa dalla Corte Ue, sembra avere diversi detrattori, sia tra gli oppositori di Draghi, in primis l’ultraliberista Jens Weidmann (presidente della Deutsche Bundesbank), il quale ha più volte negato la validità economica del Quantitative Easing, sia tra gli operatori finanziari, che si aspettavano un intervento di almeno 1.000 miliardi. Cosa si nasconde realmente dietro queste prese di posizione?

Il Quantitative Easing, ovvero l'immissione di liquidità della Banca Centrale per acquistare titoli di Stato, è criticato dai falchi dell'austerità che vedono il rischio di un rilassamento delle politiche imposte negli ultimi anni: se un Paese riceve l'aiuto della BCE potrebbe essere spinto a “non fare i compiti”, tagliare la spesa pubblica e ridurre il rapporto debito/PIL. Nella realtà dei fatti, è sempre più evidente che tali politiche siano state un disastro non solo da un punto di vista sociale e dell'occupazione, ma persino macroeconomico. In tutti i Paesi passati dalle forche caudine dell'austerità, a causa del crollo dei consumi e dei tagli alle spese e agli investimenti pubblici, il crollo del PIL ha portato a un aumento del famigerato rapporto debito/PIL che si intendeva diminuire.

Ciò detto, gli interventi prospettati dalla BCE non sembrano potere cambiano la situazione. Il Quantitativa Easing è mirato a tamponare una realtà sempre più insostenibile, ma l'immissione di nuova liquidità, senza misure fiscali espansive difficilmente porterà a un rilancio dell'economia. “Puoi portare un cavallo al fiume ma non puoi obbligarlo a bere” è una metafora usata per descrivere la cosiddetta trappola della liquidità: in una fase di difficoltà e sfiducia, un aumento della massa monetaria non porterà a una ripresa di consumi, investimenti e occupazione, ma a un aumento del risparmio, se non della speculazione. In altri termini, il rischio concreto di un'ulteriore espansione di una finanza ipertrofica e un suo sempre più netto distacco da un'economia in perdurante crisi: la definizione stessa di una nuova bolla finanziaria.

Sono diversi gli indicatori che ci dicono che stiamo andando in questa direzione. In Italia come in altri Paesi europei le banche prestano sempre di meno a famiglie e imprese, è il cosiddetto credit crunch. Dall'altra parte, proprio in questi giorni si è saputo che in Europa il sistema finanziario, tra cui le stesse banche, ha investito qualcosa come 1.200 miliardi di euro in titoli a rendimento negativo. C'è una montagna di soldi alla disperata ricerca di qualsiasi possibile investimento, mentre dall'altra parte fette sempre più ampie della società sono escluse dall'accesso al credito. E' un macroscopico fallimento della finanza, se questa deve essere vista come uno strumento al servizio dell'economia e non come un fine in sé stesso per fare soldi dai soldi.

Difficile immaginare che immettendo ancora più liquidità in questo sistema si riesca a cambiare le cose. Al contrario, servirebbero delle regole certe per riportare la finanza a essere uno strumento al servizio dell'economia. Per fare solo un esempio, è urgente quanto necessaria la completa separazione tra banche commerciali e banche di investimento. Una proposta in discussione da anni in Europa ma che - come minimo - non sembra una priorità dei burocrati dell'UE.

Diversi economisti “mainstream” pensano che a beneficiare di queste manovre espansive siano i mercati finanziari più che la cosiddetta economia reale. Un recente articolo di Fabio Pavesi sul Sole 24 ore ammonisce sul fatto che quando si produce immissione forzosa di liquidità le banche fanno incetta di titoli pubblici per trasformarli in tesorerie finanziarie. Il problema è solo di natura tecnica oppure è un indice del fatto che la governance finanziaria si nutre della crisi per riprodurre se stessa?

Con uno slogan, si potrebbe dire che la crisi non è dovuta al fatto che non ci sono soldi, ma che ce ne sono troppi. Il problema è che sono tutti dalla parte sbagliata. Come accennato una finanza ipertrofica e staccata dalla realtà che ha causato la crisi continua a essere inondata di “soldi facili”, mentre Stati e cittadini, che la stessa crisi l'hanno subita, sono strangolati dai piani di austerità.

Dopo lo scoppio della crisi nel 2007-2008, ogni vertice interazionale, dal G20 in giù, si è chiuso con roboanti dichiarazioni sulla necessità e l'urgenza di chiudere una volta per tutte il casinò finanziario. Da allora poco o nulla è stato fatto, mentre si costruiva un immaginario che vedeva la crisi come un problema della finanza pubblica. Ancora peggio, seguendo il mantra secondo il quale deve essere il privato a trascinare la presunta ripresa, oggi le lobby finanziarie segnalano che una regolamentazione “eccessiva” potrebbe frenare l'economia.

Il problema di fondo è che l'attuale sistema finanziario non sostiene e accompagna i processi economici, ma li danneggia. Per non collassare e mantenere i tassi di profitto inseguiti dagli speculatori, da un lato la finanza estrae ricchezza dall'economia a un ritmo crescente, dall'altro deve creare delle bolle di dimensione sempre maggiore, scaricandone il costo allo scoppio su cittadini e Stati.

Peggio ancora, l'instabilità e la volatilità non sono degli spiacevoli effetti collaterali, ma la base stessa del gioco. Se compro un titolo per 100 euro e dopo un anno vale 101 ho realizzato una speculazione, ma il margine di profitto è bassissimo. Se invece il titolo è in preda a forti oscillazioni e i prezzi sono instabili, si possono realizzare maggiori profitti. In una spirale perversa la stessa speculazione è oggi in grado di generare le oscillazioni su cui poi andrà a guadagnare: più scommesse girano su un dato titolo, più i prezzi rischiano di impazzire e più crescono le possibilità di profitti a breve, attirando nuovi squali. Dalle materie prime ai titoli di Stato, tutto passa oggi dal tritacarne della speculazione. D'altra parte la finanziarizzazione di ogni attività umana è funzionale ad alimentare questa continua estrazione di ricchezza, trasformando in mercati persino i servizi essenziali o i beni comuni.

A fronte di tale situazione, l'unica soluzione che sembra provenire dai burocrati europei è quella di inondare di ulteriore liquidità il sistema. Lanciati verso un baratro, ci chiedono di accelerare. Al culmine del paradosso, sotto la spada di Damocle di spread, sanzioni e debito eccessivo, dobbiamo stringere la cinghia e accettare i piani di austerità perché dobbiamo “restituire fiducia” ai mercati. A questi mercati finanziari.

Secondo Mario Draghi il Quantitative Easing che si appresta ad essere varato il prossimo 22 gennaio favorirà la ripresa soprattutto dei Paesi dell’Europa mediterranea. Il ministro Padoan vede infatti con molta fiducia il prossimo consiglio della Bce e per l’ennesima volta ha parlato di un’Italia che sarebbe ad un passo dall’uscita dalla recessione. Nello stesso tempo all’Eurotower si parlerà anche delle elezioni greche e di un possibile “effetto Syriza” sui mercati ed in generale sull’economia europea. Che scenario, sia in termini economici che politici, può aprire un’eventuale vittoria di Tsipras alle presidenziali greche?

E' difficile dire quali conseguenze potrà avere un'eventuale vittoria di Syriza alle elezioni greche, sia da un punto di vista finanziario ed economico sia politico. Sul primo versante, le proposte di ridiscussione del debito pubblico e dei suoi interessi potrebbero avere un peso relativamente limitato, soprattutto considerando che i precedenti interventi dell'UE al Paese ellenico sono serviti soprattutto a rimborsare le banche, e in primo luogo quelle dei Paesi “virtuosi” come Francia e Germania: gli aiuti arrivati alla Grecia tra maggio 2010 e giugno 2013 sono andati al 77% al settore finanziario e non ai cittadini. Questo significa che eventuali default sul debito greco potrebbero avere ripercussioni limitate sul sistema finanziario europeo e internazionale.

D'altra parte la rimessa in discussione del debito potrebbe portare al blocco di qualsiasi intervento o aiuto ulteriore da parte europea, il che con ogni probabilità significherebbe una crisi di liquidità in Grecia e quindi l'uscita dall'euro, con conseguenze difficili da immaginare per la moneta unica.

Dal punto di vista politico, invece, la vittoria di Syriza potrebbe significare una reale breccia nel muro delle attuali politiche europee, e il primo passo per la necessaria inversione di rotta. Sarà però necessario capire i margini di questa eventuale vittoria e quanto il muro dell'austerità rimarrà impenetrabile, a dispetto sia dei pessimi risultati degli ultimi anni sia delle crescenti critiche.

Oltre alla questione monetaria tiene banco un’altra discussione in campo economico, che riguarda il Piano Junker, presentato a Bruxelles lo scorso 26 novembre. Il piano prevede un finanziamento di 315 miliardi per investimenti in infrastrutture nei paesi dell’Ue, senza creare nuovo debito pubblico. In poche parole una crescita economica basata sul finanziamento pubblico di investimenti privati e sulla costruzione di grandi opere progettate da anni e bloccate per effetto della crisi. In Italia sono 110 i progetti infrastrutturali di maggiori dimensioni che il piano Junker andrebbe a sbloccare definitivamente; tra questi, oltre alla Tav Torino-Lione per cui il governo italiano chiede i 700 milioni che dovrebbero consentire di chiudere il piano dei finanziamenti, ci sono il tunnel del Brennero, la Napoli-Bari, la Messina-Catania, l'alta velocità Brescia-Padova, tutti ancora alla ricerca di una quadratura definitiva dei piani delle risorse. Quali sono i limiti economici, oltre che sociali ed ambientali, di questa operazione?

Dal punto di vista economico, il famigerato piano di investimenti da 315 miliardi che dovrebbe rilanciare la crescita in Europa rischia di essere una scatola vuota. I soldi messi realmente a disposizione dovrebbero essere una ventina di miliardi, tra l'altro per metà provenienti da altri programmi, come le nuove tecnologie o la ricerca. Seguendo la visione secondo la quale il privato è la soluzione, per questi 20 miliardi dovrebbe poi realizzarsi un miracoloso moltiplicatore di 15 a 1 di investimenti privati per portare il totale sopra i 300. Un moltiplicatore del genere sarebbe inimmaginabile anche in una fase di fiducia ed espansione dell'economia, figuriamoci in un periodo di recessione e deflazione come l'attuale.

Oltre che nella forma, i problemi sono però anche nella sostanza. Un piano di investimenti sarebbe assolutamente necessario, ma in una direzione diametralmente opposta a quella oggi incentrata su grandi opere e ulteriore cementificazione del territorio. Parliamo di investimenti in settori a maggiore creazione di posti di lavoro, nel welfare, nella ricerca, nella riconversione ecologica dell'economia. Chiaramente un tale piano di investimenti necessiterebbe di un forte indirizzo pubblico, tanto su scala europea quanto a livello dei singoli governi. Difficile, per non dire di peggio, che nel momento in cui privati interessati unicamente al massimo ritorno sugli investimenti devono mettere la quasi totalità dei soldi, si possa poi ipotizzare un tale indirizzo.

L'anno passato è stato caratterizzato dalle dichiarazioni di tutti i premier europei che hanno messo in discussione le politiche di austerity. Di fatto però l'austerity continua ad essere modello politico dominante in Europa o quantomeno un filo conduttore all’interno del quale si sdoganano politiche di demolizione di Welfare, di sottrazione di diritti e di distribuzione della ricchezza verso l’alto. E’ possibile in questo momento, grazie alle spinte dei movimenti sociali, un cambio di rotta radicale rispetto a questo modello?

L'austerità è figlia della visione mercantilista che domina l'Europa. Una visione secondo la quale il problema non è nelle diseguaglianze o nel crollo dei consumi e della domanda, ma nella necessità di aumentare e migliorare l'offerta. Tagliamo la spesa pubblica, le tasse, i salari e i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, in modo da rendere le imprese più competitive. Questo porterà da un lato ad attrarre più investimenti, dall'altro ad esportare di più, il che successivamente porterà a crescita del PIL e infine dell'occupazione. Competitività significa vincere la concorrenza internazionale e uscire così dall'attuale stagnazione.

Un primo problema è che se tutti adottano la stessa teoria per cui chi esporta di più vince, essendo la Terra di dimensioni finite, o qualcuno trova il modo di esportare su Marte o evidentemente se qualcuno “vince” altri devono “perdere”. Secondo, la stessa questione si ripete su scala europea: gran parte del commercio nell'UE è tra Paesi europei, il che vuol dire che se qualcuno esporta di più, altri devono importare di più o lanciarsi nella stessa gara. Viene meno la stessa idea di “Unione” Europea, sostituita da una “Competizione Europea” in cui ogni Paese cerca di superare il vicino. Terzo, ma è l'elemento più preoccupante, questa competizione è di fatto una corsa verso il fondo: chi è più bravo a smantellare i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori vince, almeno finché un altro Paese non abbassa le leggi a tutela dell'ambiente per produrre a un costo inferiore, finché un altro non si trasforma in un paradiso fiscale pur di attrarre capitali, e via discorrendo. Una corsa verso il fondo in materia sociale, ambientale, fiscale, monetaria.

In altri termini, l'intero peso di una crisi causata dal collasso del gigantesco casinò finanziario privato è scaricato su lavoratrici e lavoratori e sulle classi sociali più deboli. I primi pagano sia in termini di smantellamento dei diritti e tutele sia in termini di minori stipendi, entrambi sacrificati al dio della competitività. Le fasce più deboli della popolazione subiscono i tagli e la privatizzazione del welfare, dalla sanità all'istruzione, dalle pensioni ai servizi idrici ad altri ancora, ovvero una diminuzione netta del proprio reddito indiretto. Chi non ha alcuna responsabilità per lo scoppio della crisi ma anzi ne ha già pagato il prezzo più alto si trova una volta di più con il cerino in mano.

Tagli alle spese pubbliche, piani di austerità, competitività per rilanciare l'export, privatizzazioni in questo senso sono tutte facce di un'unica medaglia e di un'unica visione: la finanza pubblica è il problema, quella privata la soluzione, l'unico faro è la competitività. E' esattamente l'opposto: è il collasso della finanza privata ad averci trascinato in questa situazione. Troppo spesso anche nelle forze di sinistra e di opposizione, il dibattito si concentra sulla finanza pubblica: pagare o meno il debito, uscire o no dall'euro, l'austerità e via discorrendo. Pensiamo al ritornello sulla “casta”, anzi la “kasta”, che porta direttamente all'affermazione di un pubblico per definizione inefficiente. Bisogna fare un passo indietro, partendo dal fatto che il problema non è tanto - o per lo meno non solo - cambiare le singole politiche economiche, ma ricostruire l'immaginario della crisi e l'intero paradigma imposto negli ultimi anni.

Tra i principali passaggi della governance globale neoliberale uno dei più preoccupanti è rappresentato dal TTIP, l’accordo commerciale di libero scambio tra l’Unione europea e gli Stati Uniti d’America. Quali sono i suoi effetti immediati e le sue ripercussioni nel lungo periodo? Come può essere contrastato?

Il TTIP si iscrive nella logica della competitività e della corsa verso il fondo: un unico mercato globale cucito su misura per le imprese di maggiore dimensione. Secondo i promotori tale accordo dovrebbe portare occupazione e crescita economica sulle due sponde dell'Atlantico, in particolare grazie all'abbattimento di dazi e tariffe sull'import-export di beni e servizi e alla conseguente crescita degli scambi commerciali e degli investimenti. Più che sui dazi, solitamente già molto bassi tra USA e UE, la vera posta in gioco con il TTIP riguarda però le barriere non tariffarie. Con tale espressione si indicano tutte le legislazioni e normative che pongono dei limiti all'ingresso in un Paese di taluni prodotti o servizi. Barriere non tariffarie sono ad esempio i limiti posti dall'UE alla coltivazione e commercializzazione di OGM; il divieto di vendita di carni trattate con ormoni; legislazioni sui diritti e le tutele per lavoratrici e lavoratori. Con la firma del TTIP, ogni legge o vincolo ambientale, sulla sicurezza e tutela dei consumatori, sui diritti del lavoro o in qualsivoglia altro ambito potrebbe essere considerato una barriera ingiustificata al libero commercio. Lo Stato che ha promosso una normativa “eccessiva” dovrebbe rimuoverla o pagare pesanti sanzioni. Verrebbe di fatto distrutto il principio precauzionale che vige oggi in Europa e secondo il quale non è possibile mettere in commercio un prodotto finché non si dimostri la sua non-pericolosità o tossicità.

Uno degli aspetti più controversi, ma non certo l'unico, del TTIP è la creazione di un organo di risoluzione delle dispute o in inglese Investor-State Dispute Settlement – ISDS. Tale organo dovrebbe dirimere le controversie tra un investitore che pensi che i propri “diritti” siano minacciati da una legislazione esistente in uno Stato. Tra le altre cose, non si capisce perché un'impresa multinazionale che pensasse di avere subito un danno non dovrebbe rivolgersi alla giustizia ordinaria. Questo a maggior ragione nel momento in cui per le imprese nazionali è precluso il ricorso agli ISDS, ponendo più di qualche dubbio sul principio “la legge è uguale per tutti”. Tali organi si riuniscono a porte chiuse nel nome della “confidenzialità commerciale”, anche quando ci sono in gioco normative che interessano l'insieme dei cittadini, come quelle sull'ambiente o sul lavoro, con totale mancanza di trasparenza. Se uno Stato pensa di avere subito un torto, non può ricorrere agli ISDS. Una “giustizia” a senso unico: un'impresa che danneggia, inquina o viola i diritti del lavoro non è attaccabile tramite organismi che permettono al privato di chiedere una compensazione a volte miliardaria per una Legge democraticamente approvata in uno Stato sovrano.

L'accordo mina le fondamenta della democrazia. Riguardo il potere giudiziario, tre esperti di commercio decidono in luogo dei tribunali, a porte chiuse e con sentenze vincolanti per Stati ed Enti Locali; c'è poi un attacco al potere legislativo, con la possibilità che una singola impresa privata arrivi a fare abrogare Leggi e normative di uno Stato sovrano. L'attacco è persino al potere esecutivo, visto che in molti casi non è nemmeno necessario arrivare a giudizio: la semplice minaccia di una disputa basta a modificare le decisioni dei governi. In parte per il costo di tali procedimenti, in parte per il rischio di dovere poi pagare multe che possono arrivare a miliardi di euro, ma anche per un altro aspetto: un governo che dovesse incorrere in diverse dispute dimostrerebbe di essere poco incline agli investimenti internazionali. In un mondo che ha fatto della competitività il proprio faro e che si è lanciato in una corsa verso il fondo in materia ambientale, sociale, fiscale, sui diritti del lavoro pur di attrarre i capitali esteri, l'introduzione di leggi “eccessive” e l'essere citato in giudizio in un ISDS diventano macchie inaccettabili.

Contrastare una tale follia significa prima di tutto parlarne e farne conoscere i contenuti. Diversi tentativi analoghi - a partire dal famigerato MAI discusso in sede OCSE oltre 10 anni fa - sono falliti in passato, grazie alla pressione dal basso dell'opinione pubblica. Oggi l'impegno deve essere in primo luogo per bloccare il TTIP, un obiettivo necessario ma non sufficiente. Non si può unicamente giocare in difesa, ma occorre avere la forza di costruire e proporre un modello radicalmente differente. Un compito al quale i movimenti sociali dovranno dare un contributo fondamentale.

Biografia:

Andrea Baranes è presidente della Fondazione Culturale Responsabilità Etica, della rete di Banca Etica. E' portavoce della coalizione Sbilanciamoci! (www.sbilanciamoci.org) ed è stato portavoce della campagna 005 per l'introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie (zerozerocinque.it). E' membro del Comitato Etico di Etica Sgr e del Consiglio Nazionale del WWF Italia. E' stato responsabile delle campagne su istituzioni finanziarie private presso la CRBM e membro del Direttivo della rete internazionale BankTrack. E' autore di diversi libri sui temi della finanza e dell'economia, tra i quali "Con i nostri soldi" e "Finanza per Indignati" (Ponte Alle Grazie), "Dobbiamo restituire fiducia ai mercati - Falso!" (Laterza), “Come depredare il Sud del mondo” e “Il grande gioco della fame”  (Altreconomia) e “Per qualche dollaro in più - come la finanza casinò si sta giocando il pianeta” (Datanews). Collabora con riviste specializzate nel settore economico e della sostenibilità, quali “Valori” e “Altreconomia” e con i siti “Sbilanciamoci.info” e "nonconimieisoldi.org"