La germanica Trento e i bambini. L'invenzione della tradizione sale in cattedra.

19 / 4 / 2018

Riprendiamo dalla pagina facebook del collettivo Nicoletta Bourbaki un approfondimento relativo all’uso strumentale della storia nei processi di costruzione delle tradizioni identitarie. Lo scritto parte da un recente episodio di cronaca politica avvenuto in Trentino, dove gli schützen, strenui difensori della germanicità trentina, incontreranno alcune classi della scuola elementare «Regina Elena» di Rovereto per illustrare loro «i costumi tipici».

L'11 aprile il «Trentino» dava notizia che gli schützen della compagnia Vallarsa-Trambileno incontreranno alcune classi della scuola elementare «Regina Elena» di Rovereto per illustrare loro «i costumi tipici»: «indossando la “Tracht” ovvero, “il vestito tipico dei paesi germanici (Germania, Austria, Svizzera, Alto Adige, Trentino) che portavano i nostri antenati”».
Secondo Francisco Dallasega, presidente della consulta dei genitori di Rovereto Est ed esponente della Schützenkompanie Vallarsa Trambileno quei costumi «li portavano con orgoglio i nostri nonni e bisnonni e poi passavano di padre in figlio e di madre in figlia».
Di fronte a questa notizia sorgono spontanee alcune domande: innanzitutto il Trentino e Rovereto da quando fanno parte dei “paesi germanici”? Certo la regione di cui fa parte è una terra abitata da popoli con lingue e culture diverse, che convivendo sullo stesso territorio si sono meticciati dando vita ad usi e costumi simili, ma inserire il Trentino, abitato in grandissima maggioranza da una popolazione di lingua italiana da secoli, tra i “paesi germanici” significa riprendere pari pari la propaganda pan-germanista di fine XIX secolo-inizio XX, che descriveva i trentini come una popolazione di «razza germanica» che aveva dimenticato la propria lingua. Un propaganda aggressiva e guerrafondaia esattamente come quella del nazionalismo italiano che voleva invece i trentini tout-court «figli di Roma». 
D’altronde da almeno un secolo in Trentino-Alto Adige Südtirol si affrontano e si affiancano due destre: quella «italianissima» e quella «pantirolese», che hanno una cosa in comune: il rifiuto della complessità, delle sfumature e delle commistioni tipiche delle terre di frontiera. Un rifiuto che li porta a quella che Eric J.Hobsbawm chiamava «l’invenzione della tradizione».
Chi certifica infatti che i costumi degli schützen siano davvero quelli dei «nostri antenati»? Sono stati ricostruiti da qualche studioso? Da qualche istituzione museale? Gli schützen dicono che quei costumi erano portati con orgoglio dai loro padri e dalle loro madri, peccato che ne manchino le prove fotografiche o filmiche. Quei costumi in Trentino, almeno nell’ultimo secolo, nessuno li ha mai indossati prima della fondazione delle compagnie schützen negli anni Ottanta del Novecento.
Discorso completamente diverso naturalmente vale per l’Alto Adige Südtirol, come per il vicino Tirolo austriaco, dove gli schützen hanno avuto un ruolo importante lungo tutto il corso del’900. Furono infatti compromessi con il nazismo e poi negli anni Sessanta e Settanta appoggiarono l’indipendentismo sud-tirolese anche nelle sue frange più estreme e violente. La loro filiazione trentina è invece assai più recente. Infatti solo a partire dagli anni Ottanta iniziarono ad organizzarsi e a mostrare i loro costumi «passati di padre in figlio e di madre in figlia».
Di che messaggio sono oggi portatori gli schützen? Basta dare un'occhiata ai loro siti come ad esempio quello della Federazione Schützen del Welschtirol per accorgersi che essi si pongono come continuatori della storia di un reparto militare, di cui decantano «l'eroismo» e la «fedeltà». Quel modo di raccontare la storia dei conflitti in termini inaccettabili che per decenni ci ha propinato il nazionalismo italiano addobbandosi con il cappello degli alpini lo ritroviamo eguale e contrario negli schützen. Lo stesso militarismo, la stessa esaltazione delle guerre di aggressione (nella grande guerra tutti erano aggressori, indossassero una divisa italiana o austroungarica), la stessa retorica per nascondere la realtà di carneficine immani per difendere gli interessi di pochi. Perché se gli alpini morirono sulle montagne del Trentino e del Carso per gli interessi degli industriali e dei banchieri italiani, i kaiserjager morirono nelle pianure della Galizia (in Ucraina) per gli interessi dei banchieri e degli industriali austriaci.
A spingere gli schützen a cercare di entrare nelle scuole è molto probabilmente un evento legato proprio al centenario della grande guerra. A metà maggio si terrà a Trento l’Adunata nazionale Ana (Associazione nazionale alpini). Questa iniziativa ha già dato la stura al nazionalismo italiano, tant’è che la città è pavesata di tricolori ad ogni lampione e anche le pubblicità della birra esposte nei supermercati sfoggiano sui loro manifesti cappelli con penna nera. Inevitabilmente tutto ciò non poteva che attivare anche il nazionalismo eguale e contrario: quello pan-tirolese che evidentemente cerca di marchiare il territorio entrando nelle scuole.
Un altro elemento che i cantori dell’identità tirolese hanno in comune con i peggiori nazionalisti italiani sono le discutibili amicizie con un sottobosco cattolico-integralista e antisemita. Come ad esempio con l'associazione «La Torre» di Volano. Il 26 settembre 2010 la Schützenkompanie roveretana e «La Torre» (con tanto di patrocinio di comune e provincia) svolsero insieme una serie di iniziative intitolate «insorgenti per la fede», in occasione della posa di un cippo a ricordo della «battaglia di Volano» del 1809 tra insorti tirolesi e truppe napoleoniche. Peccato che l'associazione «La Torre» abbia riportato per anni sul proprio sito articoli ispirati al peggiore antigiudaismo cattolico pre-Concilio Vaticano II che incolpavano gli ebrei per la morte del piccolo Simone da Trento (per secoli noto come San Simonino).
Per carità, magari è stata una svista, ma prima di farli entrare a scuola sarebbe interessante chiedere ai signori coi costumi tradizionali ereditati non si sa ben da chi, cosa ne pensano ad esempio del caso di San Simonino e della tradizione di intolleranza religiosa ad esso connesso. Così tanto per sapere, anche perché vista la varietà di provenienze culturali e religiose presenti nelle scuole sarebbe bene sincerarsi che chi vi svolge attività didattiche condivida valori costituzionali come la libertà religiosa e di pensiero.
Queste domande devono esser venute in mente anche ai genitori che mandano i figli alla scuola che ospiterà gli schützen, tant'è che due classi su quattro hanno deciso di annullare l'attività. 
L'11 aprile «Il Corriere del Trentino» riportava le parole dell'ex-preside del liceo Da Vinci Alberto Tomasi che vedeva nella presenza degli schützen a scuola una forma di «propaganda spicciola» e poneva il problema di quale sia la preparazione pedagogica, didattica e storica che possono vantare per permettersi di presentarsi nelle scuole.
Da parte sua lo storico Quinto Antonelli (forse lo storico trentino più noto e stimato anche a livello nazionale) ha avanzato forti perplessità, domandandosi se è legittimo «portare in una scuola elementare un apparato discorsivo e rappresentativo tanto parziale». Anche perché, ricordava sempre Antonelli, basta farsi un giro sui social network per cogliere quale sia il linguaggio che gli aderenti all'associazione in questione riservano a chi non condivide le loro posizioni e soprattutto il loro disprezzo per la ricerca storica, le istituzioni culturali e scolastiche.
Quello stesso disprezzo a cui il giorno successivo ha dato voce il Presidente della Provincia Autonoma di Trento, che ha maggiori poteri rispetto ad un presidente di regione ordinaria, Ugo Rossi (del Partito Autonomista Trentino Tirolese, il PATT, alleato del Centro-sinistra), definendo le posizioni di Tomasi e Antonelli «censure da intellettualoidi»: «trovo veramente poco illuminato il loro ergersi a intellettuali illuminati che si sentono in diritto di giudicare tutto». Rossi ha difeso l'iniziativa degli schützen «come farei se a scuola venissero l'Anpi o gli Alpini».
Non sono mancati altri storici come il docente universitario Gustavo Corni e Vincenzo Calì che hanno sostenuto le posizioni di Antonelli e Tomasi, mentre non vi è nessuno studioso che abbia preso parola per affermare il valore didattico e culturale dei contenuti che i signori in “tracht” dovrebbero portare all'interno delle aule scolastiche. Ma tanto questo a chi importa?
Evidentemente tutti possono entrare nella scuola a portarvi le proprie memorie, la propria lettura del passato, in una specie di spartizione da Manuale Cencelli di spazi che dovrebbero essere invece riservati ad imparare la storia, quella basata sui fatti e le fonti, indagata dagli studiosi. Tutti possono dire la loro tranne gli storici, tranne chi ha studiato realmente la storia del Trentino, quelli devono tacere altrimenti il potere provinciale (quello che poi tiene i cordoni della borsa) li “rimette a posto”.
Tutto questo avviene in un preciso contesto politico: il 4 marzo per la prima volta dalla fine della Democrazia Cristiana tutti e sei i collegi trentini sono andati ad un centro-destra egemonizzato dalla Lega. Dal giorno delle elezioni in poi Ugo Rossi ed il PATT non hanno fatto altro che rincorrere l’elettorato più conservatore: prima hanno negato il patrocinio della Provincia Autonoma al Dolomiti Pride (il Gay Pride che dovrebbe svolgersi a Trento a giugno), poi hanno negato ai giornalisti del mensile «Questo Trentino» il permesso di poter visitare il campo per richiedenti asilo di Marco (Rovereto), dove da quasi due anni circa duecento migranti vivono in 14 per container, una situazione che aveva provocato le proteste degli ospiti della struttura a gennaio, la mobilitazione della società civile e persino la visita al campo del Vescovo di Trento. Evidentemente nel nuovo Trentino che Rossi vuole prospettare al suo elettorato non vi è posto per gli omosessuali, per i migranti e per gli intellettuali. Il tutto con la complicità o al massimo il balbettio del PD.
Il segnale dato con la vicenda degli schützen è chiaro: il racconto del passato viene sottratto agli storici e diventa monopolio del potere politico e delle associazioni ad esso legate. 
Associazioni tra le quali c'è purtroppo anche l'Anpi, o almeno la sua dirigenza provinciale, che dice di non avere nessuna contrarietà rispetto alla presenza degli schützen a scuola. Una posizione (guarda caso!) identica a quella dell'assessore alla cultura Sara Ferrari (PD). 
Mario Cossali, presidente dell'Anpi del Trentino, a «Il Corriere del Trentino» del 13 aprile 2018 ha affermato di non «scorgere criticità» se gli schützen «parlano nelle scuole della loro passione etno-culturale, basta che si fermino lì e non portino ideologie o visioni parziali». Quindi c'è posto per loro come per l'Anpi che nelle scuole ci va spesso «per parlare della Resistenza, della memoria storica del '900 e soprattutto della Costituzione».
Dunque per l’Anpi del Trentino conoscere i costumi tipici ereditati non si sa da chi è importante quanto conoscere la costituzione.
Inoltre evidentemente Cossali non si rende conto che le memorie e i gruppi che vi si identificano sono sempre ideologici e parziali. Per questo a parlare di usi e costumi, della storia del '900 e della costituzione davanti ad una classe delle elementari non ci dovrebbero andare né schützen, né gli alpini, né l'Anpi, ma piuttosto chi lavora nelle istituzioni culturali e museali. 
Non perché possa esistere qualcuno di «imparziale» ma perché queste istituzioni devono mettere in campo una professionalità, un approccio deontologico, che riguarda la storia, i fatti, non la memoria. Inoltre è una discreta offesa ai tanti professionisti ricchi di competenze che in quelle istituzioni ci lavorano (magari precari) pensare di sostituirli con i volontari delle varie associazioni il cui principale merito è la fedeltà a questo o quell’ assunto ideologico. Perché un conto è portare in una scuola un testimone: un sopravvissuto alla Shoah, un reduce della ritirata di Russia o della resistenza, altra cosa è che qualcuno (che per ovvi motivi anagrafici al tempo dei fatti che racconta non poteva esserci) voglia parlare di un argomento che può aver conosciuto solo indirettamente, attraverso i libri, le testimonianze ed i documenti. In quest'ultimo caso non si tratta di una testimonianza, ma solo di qualcuno che sta sottraendo lavoro e reddito a chi fa un determinato mestiere. 
Senza dubbio in molte parti d’Italia i volontari dell’Anpi fanno nelle scuole un lavoro preziosissimo, ma questo non cambia i termini della questione, che riguarda il più vasto tema del lavoro gratuito e del de-potenziamento dei servizi pubblici inerenti l'istruzione. Anziché supplire le mancanze del sistema scolastico e culturale italiano con il lavoro gratuito, l’Anpi dovrebbe piuttosto battersi perché chi racconta con competenza e passione la storia del Novecento possa farlo dietro un giusto compenso dopo essere stato assunto da un’istituzione culturale. Così invece non fa altro che contribuire alla svalorizzazione del lavoro didattico e culturale.
Quella del «non ci vogliamo certo sostituire ai docenti o agli studiosi» da tutti ripetuto è poi una favoletta che fa torto all'intelligenza di chi la pronuncia, le ore scolastiche non sono infinite. Ogni ora dedicata ad incontrare gli schützen, gli alpini, o l'Anpi, è un'ora sottratta ai docenti per svolgere o approfondire il programma scolastico o alla possibilità di visitare un museo o un'istituzione culturale.
Se le varie associazioni vogliono entrare nelle scuole, vadano alle superiori, cioè laddove gli alunni e le alunne sono abbastanza cresciuti da poter avere almeno un po' di spirito critico; e non ci vadano durante le ore di lezione, ma nei momenti appositamente dedicati al dibattito, al confronto tra visioni diverse, ovvero le assemblee d'istituto, quando cioè studenti e studentesse potranno liberamente decidere se ascoltarli o meno, se applaudirli o contestarli. 
Il fatto che tutte le associazioni che si occupano di memoria sono ideologiche e parziali, non deve essere la scusa per dare spazi a chi è portatore di parzialità inaccettabili, ai fascisti e ai razzisti di vario tipo; ma deve impedire che il passato venga trasmesso a ragazzi e bambini attraverso quelle che Furio Jesi chiamava «idee senza parole», concetti espressi sempre con la maiuscola, inesplicabili razionalmente ma ai quali si pretende devozione cieca: la Patria, la Tradizione, la Legalità, ecc.
Aver trasformato la resistenza in qualcosa di simile a queste «idee senza parole», aver messo loro la maiuscola, aver trasformato la memoria di quelli che erano giovani ribelli nella foglia di fico per vecchi politicanti, aver smesso di essere «ideologici e parziali» sono le più gravi colpe dell'antifascismo istituzionale, prigioniero del suo legame con il potere politico e soprattutto della sua voglia di «piacere a tutti». Il fatto di «andare nelle scuole» non è affatto la soluzione ai problemi di questo tipo di antifascismo, ma è piuttosto la loro conferma definitiva.