La costruzione della distruzione: l’antieroismo di cui abbiamo bisogno

23 / 6 / 2020

Quanto una statua può valere più di una vita umana? Quanto è importante la storia del futuro? Quanto potere hanno le immagini nella nostra società ed esiste un modo giusto di reagire a esse?

Sono tante le domande che mi sono posta negli ultimi giorni di fronte ai diffusi contributi di chi non ha perso un attimo per manifestare la propria preoccupazione, spesso mascherata intellettuale, per il destino dei monumenti abbattuti sotto la rabbia di giovani rivoluzionari Black Lives Matter etichettati come talebani, ignoranti, senza cultura, senza istruzione. Atti di iconoclastia moderna o atti di vandalismo? Atti sensati o atti spregiudicati? Mi pare che le idee siano abbastanza confuse quindi prima di tutto provo a mettere in ordine le mie.

Inizialmente di fronte a questi commenti, alcuni più pensati e altri meno, il sentimento è di uno stupore che va in diverse direzioni e genera molte altre domande, sempre di più. Mi chiedo da dove sia nata questa improvvisa apprensione per qualcosa che sta andando distrutto e non capisco perché non si sia ancora manifestata in maniera così fertile e diffusa anche di fronte alla secolare distruzione del pianeta terra per mano dell’uomo (prevalentemente bianco e occidentale) o a tutte quelle vite umane innocenti che continuamente perdono la vita per politiche assassine. Ogni giorno ci vediamo distruggere davanti agli occhi diritti sociali, economici e ambientali e di fronte all’esigenza di un cambiamento di rotta fondamentale la preoccupazione primaria è quella di vedere attaccati i simboli di una società malata come la nostra. Sembra quasi che, in un mondo in cui ogni giorno si vive con l’ansia della famosa “seconda ondata” di Covid-19 (di cui, ricordiamo, siamo noi esseri umani la causa), la volontà sia di salvare il passato piuttosto che assicurarci un futuro. Mi chiedo, poi, chi è che, dietro agli schermi e ai giornali, sta manifestando questa critica preoccupazione e credo che la risposta sia unanime: uomini e donne privilegiati, probabilmente gli stessi che lamentano che in questo Paese la cultura non riesca a trovare un’occasione di valorizzazione vera. Penso parimenti che quando la causa stessa di questa diffusa polemica sta nella condizione privilegiata e nazionalistica con cui guardiamo al nostro patrimonio, ecco che si svelano gli altarini: sacro e intoccabile quando i simboli della “nostra Patria” sono minacciati da altri, sacrificabile e marginale quando dovrebbe prendersene cura lo Stato.

Non nego sicuramente l’importanza di mantenere vivi degli strumenti che ci permettano di leggere la storia ma penso che ai giorni nostri sperare davvero che attraverso questi la società odierna e futura possa imparare dai propri sbagli ed evitare di commetterli ancora sia estremamente incoerente. Ne sono convinta, soprattutto, per il fatto che di fronte a dei giovani neri, stanchi di vivere un’oppressione secolare e volenterosi di evitare che il passato violento e razzista possa continuare a riproporsi nel futuro, molti bianchi privilegiati non si sono tirati indietro dal criticare i loro metodi rivoluzionari perché considerati eccessivamente spinti e incontrollati. Penso quindi che ciò che sta smuovendo tutta questa preoccupazione non sia tanto la volontà di assicurarsi un domani libero da ingiustizie passate ma più che altro la sensazione che stia giungendo un’onda di cambiamento vero, un’onda che può travolgerci da un momento all’altro, che può destabilizzare la nostra normalità e spostare gli assi irremovibili della società odierna. Di fronte a questa situazione d’instabilità non mi stupisco che possa nascere in maniera quasi istintiva la volontà di proteggere i nostri spazi di tranquillità e di gloria, rappresentati da un’arte occidentale che racconta una storia occidentale.

È questa stessa storia eurocentrica che ci può far ricordare il tipo di distruzione su cui l’uomo bianco ha basato la sua supremazia, quando i conquistatori del Nuovo Mondo distruggevano le opere e i monumenti simbolo del “primitivismo” indigeno dei colonizzati per dare spazio alla crescita di una società bianca e “civilizzata”. Troppo spesso dall’alto del nostro privilegio ci dimentichiamo che sono stati proprio gli occidentali “i più grandi distruttori della storia” e il vandalismo, termine di cui oggi ci si riempie la bocca e i post in maniera indistinta, è stato il loro modo di comunicare con i popoli conquistati ritenuti non civilizzati, arcaici. Fa molto pensare che in queste ultime settimane quello stesso Nuovo Mondo stia ponendo le radici di un mondo nuovo.

Sorge poi il dubbio che, nonostante questo improvviso senso di protezione nei confronti dell’arte, non abbiamo ancora ben compreso la potenza che le immagini possono avere nelle nostre società. Nel processo di costruzione di una linea storica artistica, oltre che storica, unica e occidentalizzata abbiamo tentato di porre anche le reazioni all’opera d’arte dentro delle categorie che presentassero l’utente occidentale come una figura razionale e civilizzata, abbiamo nascosto con riluttanza tutte quelle reazioni alle opere che potessero presentarsi come poco appropriate, “primitive” e testimoni di una classe bassa. 

Come dice David Freedberg ne Il potere delle immagini “buona parte dei nostri discorsi sofisticati sull’arte sono solo un’elusione di altri problemi”, un’affermazione che sento di appoggiare pienamente soprattutto alla luce di quanto sta succedendo in questi giorni durante i quali social e canali notiziari si sono riempiti di polemiche basate, appunto, su discorsi che svelano la preoccupazione di doverci confrontare con reazioni considerate distanti dal comportamento civilizzato dell’uomo occidentale. Viviamo in una società che sopprime l’idea che le immagini possano letteralmente aggredire un essere umano e non consideriamo abbastanza il fatto che è perché determinate immagini sono usate per esprimere, imporre e legittimare un potere che esse stesse sono riutilizzate per sfidare, rigettare e delegittimare questo potere. Gli atti di iconoclastia che hanno animato varie piazze americane ed europee di Black Lives Matter ci fanno capire, tra le molte cose, che queste rivolte sono mosse dalla volontà di rimarginare ferite secolari che trovano alimento nei simboli odierni di una società oppressiva, ferite figurate che possono raggiungere la stessa cruenza e profondità di una ferita reale (che neppure manca).

La discussione si pone dunque su un confine non immediatamente definibile, un confine costruito che segna inoltre la differenza tra costruzione e distruzione. L’inizio del XXI secolo è legato a filo doppio al secondo dopoguerra, un periodo e una situazione sociale che nel mondo dell’arte si è rispecchiato in un netto cambiamento di linguaggio non privo di conseguenze sulla società e caratterizzato da un tentativo di superamento di qualsiasi convenzione e stilema prestabilito. 

La produzione artistica che si è aperta soprattutto a partire dagli anni ‘60 ci parla della volontà di colpire alla radice un sistema capitalistico basato su quel binarismo per cui c’è sempre una parte cattiva e una parte buona o una parte che domina e una che subisce. In particolare l’arte della post produzione si concentra sul superamento di questo meccanismo e cerca di far riflettere la società sulla relatività del concetto di uso dell’opera d’arte, sul necessario tentativo di sradicamento della tradizionale distinzione capitalistica tra produzione e consumo. È sancita una sorta di comunismo formale che possa ridare forma a ciò che sta scomparendo ai nostri occhi e restituirci il mondo come esperienza da vivere e non da consumare.

Ecco che allora queste azioni di attacco culturale non dovrebbero essere considerate fini a se stesse e frutto di una negazione ignorante della storia ma, al contrario, implicano una sorta di dialogo con le opere danneggiate, ridestandole dallo stato di morte apparente cui la loro esposizione a decorazioni cittadine le aveva costrette, oppure estendendo le loro possibilità espressive in nuove direzioni. Come ci fa notare Giancarlo Politi, azioni “vandaliche” di questo tipo, anche se non consapevolmente legate al mondo dell’arte, dimostrano un’energia pulsante che “opera la respirazione bocca a bocca a un’opera morta, quale è ogni opera dell’arte e della cultura sedimentata nella nostra memoria, nelle nostre coscienze e dentro i nostri libri”.

In una società dell’iconoclastia al contrario, della distruzione della potenza dell’immagine per un suo eccessivo utilizzo e della fabbricazione di immagini dove non c’è niente da vedere, queste azioni accendono la consapevolezza sull’esistenza di valori superiori, di possibilità che vanno oltre ai limiti delle convenzioni correnti, aprono una primavera che genera sogni temerari e volenterosi di una perfetta uguaglianza mai raggiunta. Le rivolte americane ci parlano di una lotta che cerca di sfidare il concetto di eroismo, di superarlo e trasformarlo in un anti-eroismo che non si limiti a imparare dagli errori della storia ma che provi anche a correggerli.

** Pic Credit: J. Ernst/Reuters