Narrazione dell’attuale fase della lotta dei disoccupati organizzati napoletani

La città dei disoccupati

di Antonio Musella

23 / 7 / 2010

“Da dove veniamo noi disoccupati? Noi veniamo da molto lontano, nella storia italiana abbiamo il privilegio di aver riempito molte pagine, la storia ci cita come il deficit della nazione, siamo lo specchio dove si riflettono tutte le immagini più  brutte della vita, come la miseria, l’ignoranza, la malnutrizione e l’esasperazione, tutti attributi negativi per un paese dove si parla di progresso e di democrazia. […]
Dove siamo nati? A Napoli, città canora e capitale morale della miseria, madre adottiva dei disoccupati; essa ci ha tenuti a battesimo da Ferdinando II a Lauro fino alla famiglia Gava…”.


Da “Ci dicevano analfabeti” il movimento dei disoccupati organizzati di Fabrizia Ramondino, edizioni Argo 1977

La leggenda narra che il primo comitato dei disoccupati organizzati nacque a Napoli in vico Cinquesanti, in uno dei vicoli del centro, zona San Lorenzo, in onore ai 5 santi e proprio 5 erano i componenti del primo comitato dei disoccupati organizzati.
Era l’autunno del 1974.
Il movimento di lotta dei disoccupati organizzati farà una parte importante della storia delle lotte sociali a Napoli.
Un modello.

In termini di radicamento territoriale: decine di comitati in quartieri diversi della città; in termini di produzione di soggettività: capaci di strutturare esperienze di alcune liste in grado di affrontare una lotta politica complessiva; in termini di radicalità della lotta (basta una semplice ricerca via web), nei termini dello sforzo ricompositivo di classe, come quando nel 1975 bloccarono gli straordinari all’Alfa di Pomigliano.
Lo sono stati nei termini della capacità di vittoria, nell’esercizio dei rapporti di forza con le istituzioni, che hanno portato al lavoro, quasi sempre nella pubblica amministrazione, migliaia di disoccupati lungo gli anni ’70,’80,’90.

Il penultimo ciclo di lotta, quello che formò gli LSU – lavoratori socialmente utili, è arrivato a conclusione in questi anni con l’assorbimento di gran parte di quel bacino, creato negli anni novanta, nelle aziende municipalizzate e nella pubblica amministrazione.
L’ultimo ciclo, quello cominciato con la piattaforma programmatica di lotta stabilita  in un’affollata assemblea al Politecnico di Napoli nel 1997 è ancora nelle piazze.
Eppure quella centralità avuta per anni nel conflitto sociale dal movimento dei disoccupati è andata via via scemando fino alla situazione drammatica di oggi.
In pochi nel mondo dei disoccupati organizzati hanno saputo attraversare i movimenti degli ultimi dieci anni, da quello noglobal fino a quello dei beni comuni. Ed anche quella capacità di legarsi agli altri segmenti sociali in lotta come gli studenti, che riusciva bene negli anni novanta, si è completamente annullata nei cicli di lotta successivi.
I disoccupati.
Protagonisti di una eterna vertenza verso le istituzioni per “il lavoro stabile e sicuro”. E chissenefrega della ristrutturazione del mercato del lavoro! Fame, miseria ed emigrazione attanagliano le nostre terre da quarant’anni in egual misura, ed i disoccupati non fanno altro che organizzare la rabbia e provare a darle una dignità politica sul piano rivendicativo e sociale. Invece le fasi si sono inesorabilmente succedute, i processi di ristrutturazione capitalista sono andati avanti inesorabili, la frammentazione sociale è diventata lotta di un segmento contro un altro, e soprattutto il lavoro è diventato una cosa assai diversa da quello che era alcuni decenni fa. Di pari passo la perdita della lungimiranza politica di costruire un intreccio di lotte sociali intorno alla vicenda dei disoccupati ha portato sempre più questo fenomeno tutt’ora enorme di conflitto sociale verso la marginalità.
Migliaia di persone capaci di seminare il panico in una delle più grandi metropoli del paese, capaci di ore ed ore di guerriglia urbana tra i vicoli del centro, capaci di paralizzare completamente i flussi commerciali – se a proposito qualcuno volesse sapere chi ha inventato i blocchi metropolitani chieda ai disoccupati!
Ma anche la capacità di aggiornare e reinterpretare le pratiche, come il blocco del porto di Napoli direttamente a mare, oppure come il blocco degli accessi ai grandi centri commerciali.
Eppure incapaci di fare opinione pubblica, incapaci di incidere, poi, nelle dinamiche di pressione sociale in grado di rafforzare la qualità della loro vertenza.
Non è stato solo questo.
Alcuni pezzi di questo movimento che oggi conta circa una quindicina di liste diverse per un totale di alcune migliaia di iscritti in un bacino complessivo di circa 4.500 persone, ha comunque provato a mantenere un’interlocuzione con il resto dei movimenti. Lo hanno fatto ad esempio a partire dalle esperienze di lotta sui beni comuni, intrecciando la loro battaglia per il lavoro con la definizione di un piano rifiuti fondato sulla raccolta differenziata.

Ma qual è oggi lo stato dell’arte della vertenza dei disoccupati napoletani ?
I primi ad avere una responsabilità nella incomunicabilità delle lotte dei disoccupati sono proprio quei compagn*, quegli attivist*, come chi scrive, che troppo spesso avviluppati intorno alla pesantezza della marginalità in termini di produzione di opinione pubblica della vicenda disoccupati, non riescono a dare quel necessario contributo qualitativo ad una lotta che sconta, nella incapacità di comunicazione e nella incapacità di produrre opinione pubblica, il suo drammatico limite.
Spesso si ha una estrema difficoltà a raccontare delle vicende dei disoccupati con quasi il terrore di dover scrivere “l’enciclopedia della vertenza” oppure “la telenovela della frammentazione del movimento” e con questo non si racconta neanche il livello di radicalità del conflitto che invece quella esperienza produce.
Dopo un percorso di corsi di orientamento al lavoro e successivamente corsi di formazione finanziati dalla Provincia di Napoli e dalla Regione Campania si è formato un bacino di 4.500 disoccupati di lunga durata che da quel percorso sono stati proiettati dapprima nel progetto finanziato da governo e Regione Campania denominato I.SO.LA (inserimento socio lavorativo), corsi e stage con enti di formazione su settori diversi, dall’ambiente al turismo. Poi, in seguito, con il progetto BROS, continuazione del percorso di I.SO.LA. Questi due ultimi progetti ideati dalla Regione Campania e finanziati, grazie alla mobilitazione, anche dal governo hanno significato per 4.500 persone, da alcuni anni, un sostegno al reddito di circa 590 euro mensili.
Ecco, in dieci righe abbiamo sintetizzato tredici anni di lotta…su per giù…
Lavoro precario, corsi di formazione, stage, tirocini, tanto da modificare la natura stessa del movimento che oggi non si chiama più dei “disoccupati organizzati”, ma dei “precari Bros organizzati”.
La nuova giunta di centro destra ha intenzione di cancellare questo percorso lasciando senza sostegno al reddito 4.500 famiglie. Per questo negli ultimi giorni a Napoli si vivono scene durissime. Dagli scontri al porto del 15 luglio, all’occupazione del Duomo, dall’occupazione del tetto del Comune e di quello della Regione fino agli arresti del 21 luglio dopo un’ennesima giornata di lotta, con i disoccupati in mare a bloccare la partenza dei traghetti dal porto.
Una situazione drammatica che può avere un impatto devastante sulle economie dell’area metropolitana partenopea in tempo di crisi. Per questo si vivono giorni di fuoco già da alcuni mesi ed ora, dopo troppe ambiguità da parte del governo nazionale e della Regione Campania, Napoli è una polveriera che può esplodere da un momento all’altro.
La risposta repressiva è durissima. Gino Monteleone e Franco Rescigno, due portavoce dei movimenti dei disoccupati, sono in carcere a Poggioreale con l’accusa di essere i promotori del blocco del porto del 21 luglio scorso. Il numero imprecisato e francamente incalcolabile di denuncie e procedimenti penali a carico dei disoccupati risulta di una mole così enorme da contribuire all’ingolfamento della macchina della giustizia a Napoli. Una produzione giudiziaria così gigantesca che nessuno oggi, nemmeno il collegio legale dei movimenti di lotta, sa dire con esattezza quanti procedimenti penali pendano sugli iscritti alle liste di lotta.      

Eppure.
Eppure succede che tutto il paese si indigna – e fa bene -  per quello che avviene ai 5.000 operai della Fiat di Pomigliano d’Arco. Uno spaccato residuale del mondo del lavoro legato alla fabbrica fordista, che senza dubbio risulta marginale rispetto ad una ristrutturazione del mercato del lavoro che vede nella precarietà diffusa e nel cognitariato una fetta sempre più maggioritaria della composizione tecnica del lavoro. Eppure a Pomigliano – ed è grave – si gioca il cambio delle relazioni sindacali nel paese, mentre pezzi sempre maggioritari di mondo del lavoro sono ancora non sindacalizzabili perché senza diritti.
Ai disoccupati napoletani, o meglio ai precari in continua formazione descolarizzati e con una fascia d’età che gli dà tranquillamente la qualifica di “espulsi” dal mercato del lavoro nessuno dice nulla. Infondo non vivono una situazione così diversa dagli operai di Pomigliano. Se a Pomigliano si provano a riscrivere le regole sindacali e a confondere schiavitù con lavoro, a Napoli con i disoccupati e con l’atteggiamento del governo matura una idea di welfare in cui gli espulsi dal mercato del lavoro non hanno diritto a nessun tipo di sostegno. Né sostegno al reddito con le politiche di inserimento al lavoro, né tantomeno di sostegno al reddito diretto, visto l’annullamento del reddito di cittadinanza da parte della nuova giunta regionale. Una idea di welfare dove non c’e’ spazio per gli ultimi, non esiste nessun tipo di garanzia per l’anello più debole della moltitudine. Entrambi gli ambiti vivono la stessa residualità, ma al tempo stesso, la stessa drammaticità sociale. Vivono anche nei numeri una similitudine: 5.000 operai a Pomigliano, 4.500 i disoccupati del progetto Bros. Le vittime della crisi che pagano il prezzo più alto.
In una dinamica in cui ben si comprende che oggi i termini dello scontro coinvolgono anche il mondo del non lavoro. Uno scontro capitale/lavoro/non lavoro in cui oltre all’ultimazione della ristrutturazione del mercato del lavoro si comincia a mettere mano ad una idea di welfare che trova i suoi assertori pienamente inseriti nel solco nella scuola di Chicago di Milton Friedman.
Molto spesso ci interroghiamo intorno al tema dei conflitti, del loro andamento sinusoidale, della radicalità delle pratiche, delle forme della disobbedienza.
A volte capisci di avere una fenomenologia davanti agli occhi ed essere incapace di costruirne una narrazione.
Altre volte ti accorgi che quella che ti sembra una differenza incolmabile in termini di composizione sociale e politica tra realtà di lotta così diverse, non può in nessun modo significare l’assenza di un principio di sussidiarietà tra pezzi della moltitudine organizzata.
Per questo oggi vogliamo raccontare la lotta dei disoccupati organizzati come patrimonio comune delle lotte sociali della nostra città.
Perché la crisi…qua a Sud si paga… qui e adesso….

A’ n’zerta (c.f.r. la serra) è un famoso canto di lotta del movimento dei disoccupati organizzati napoletani che si tramanda da decenni, da movimento in movimento subendo adattamenti al tema a seconda delle esigenze vertenziali.

Molti della mia generazione la ricordano come un passaggio importantissimo della propria esperienza militante. L’affrontare la galassia del movimento dei disoccupati.

Su quelle strofe, quelle che raccontano che “ si si disoccupato fatica o nun fatica t‘spett nu salario garantito…” /  se sei disoccupato lavoro o non lavoro ti spetta un salario garantito.”,  si era mantenuta una particolare capacità di narrazione di questa esperienza di lotta fatta di canti e autobus incendiati.

Metaforicamente riprendere A’ n’zerta oggi significa riprendere quella capacità di comunicazione con la città, quello sforzo di ricomposizione sociale nei conflitti a cui dobbiamo tendere.