Je suis Rojava

Contributo a cura di Rojava Calling

13 / 1 / 2015

Preparando il nostro primo arrivo al confine turco-siriano avevamo già intuito e scritto che la resistenza delle popolazioni della Rojava stava rappresentando, sul confine di quell’Europa fondata sulla politica ferrea delle frontiere e delle alleanze economiche strumentali, un baluardo non solo simbolico di difesa delle libertà e della democrazia contro l’oscurantismo a vocazione fascista di Daesh, l'autoproclamatosi Stato Islamico.

Per questo motivo abbiamo scelto di andarci in tanti e tante, nella forma di una staffetta, durata oltre tre mesi, che ha innanzitutto lavorato per costruire relazioni stabili e durature con i partigiani e le partigiane, e poi, forte delle stesse, ha provato a contribuire concretamente alla difesa della resistenza e alla sicurezza dei profughi, portando aiuti materiali, medici, progetti socio-educativi basati sullo sport per i bambini dei campi e non solo.

L’intento era ed è innanzitutto quello di provare a squarciare il velo di silenzio mediatico che la resistenza subisce a causa dell’ipocrisia colpevole della Turchia di Erdogan. Proprio la chiusura unilaterale di quella frontiera, da una parte non permette ai curdi di raggiungere in numero adeguato i compagni e le compagne che combattono a Kobane, dall’altra, invece, permette a Daesh di entrare ed uscire in piena libertà e di rifornirsi continuamente di armi, cibo e medicinali. Questa ci è parsa fin dall’inizio l’espressione dell’ipocrisia occidentale al cospetto di questo nuovo e inquietante fenomeno, nato, cresciuto ed alimentato nel ventre della guerra globale. Non abbiamo dimenticato che questi nuovi nemici neri e dai tratti diabolici fino a poco tempo fa erano sostenuti e appoggiati dall'Occidente come i ribelli al nemico Assad.

Con il procedere spedito della staffetta non abbiamo mai smesso di mettere l’accento sulla portata inedita del fenomeno che ha generato la formazione e la diffusione di Daesh. Abbiamo sottolineato costantemente quanti e quali livelli di coinvolgimento e di relazione - certo stratificati e disomogenei - esistono oggi tra le periferie europee ed il califfato. L’anomalia di questa formazione, paradossalmente meticcia e post-statuale, ma che inneggia ad una reazionaria teocrazia globale, sta nella diffusione capillare tra territori diversi, che hanno subito la barbarie dell'invasione coloniale occidentale, e nell’enorme lavoro di propaganda, rivolto a quelle popolazioni ed al mondo intero, chiaramente nel senso dell’odio cieco, della barbarie e della violenza fascista.

In questo quadro si spiega l’attentato parigino alla redazione di Charlie Hebdo, una situazione in cui le consuete categorie che l’Occidente utilizza per spiegare il terrorismo islamico – l’altro che invade dall’esterno – mostrano tutta la loro insufficienza. Un contesto di cui non neghiamo la complessità e che però ci impone di prendere parola come esperienza di appoggio alla resistenza dei popoli della Rojava, proprio perché siamo convinti che nel mare in tempesta in cui naviga oggi la vecchia Europa, l’unico porto che resta al riparo da compromissioni, razzismi e strumentalizzazioni è il Rojava, dove Daesh viene combattuto sul campo. Basti pensare a quanta lungimiranza c’era nei primi appelli che da Kobane i partigiani e le partigiane facevano al mondo.

Questa, dicevano, non è la resistenza solo della Rojava, bensì una resistenza per l’umanità. Un appello che abbiamo sempre interpretato in due sensi, entrambi particolarmente utili in questi giorni di paura e tribolazione.

In un primo senso in Rojava si sono messe al centro le libertà e i diritti delle diverse culture che abitano i Cantoni, pur trovandosi geograficamente sul confine di un conflitto basato solo sugli interessi economici del capitalismo di guerra. Un’esperienza di autogoverno che, tra i paesi dell’Impero in decadenza e le petrol-monarchie, ha scelto una terza via dal volto umano, nella quale possono riconoscersi tutte le donne e gli uomini che hanno a cuore la libertà e la giustizia sociale e che si oppongono tanto al capitalismo predatorio, quanto all'“islamonazismo” di Daesh.

In secondo luogo l'appello di Kobane è rivolto alle donne e agli uomini che in quella resistenza riconoscono un modello potenzialmente universale per rifiutare il paradigma della guerra, che non passa per l’evocazione retorica del pacifismo, ma per una pratica conflittuale di autodifesa del Kurdistan siriano oggi sotto attacco.

Essere dalla parte della resistenza curda attraverso strategie multiple di supporto – aiuto diretto sul territorio, smascheramento costante del sostegno che il governo turco fornisce a Daesh, campagna politica europea per imporre la cancellazione del Pkk dalle liste del terrorismo internazionale – è l’unico modo per essere contro Daesh senza doversi schierare con il cordone che in maniera ipocrita domenica si trovava ad aprire la marcia di Parigi in un tentativo grottesco di pacificazione della storia.

Un cordone nel quale figuravano stretti l’uno all’altro i capi di Stato di cinquanta paesi, tra cui Israele e Turchia, a voler simboleggiare l’unità di intenti nella lotta a questo nuovo nemico che ha colpito l’Occidente al cuore.

Come se con una giornata di lacrime e cordoglio si potessero cancellare le responsabilità che le politiche di quegli stessi governi hanno nella nascita del fondamentalismo “islamonazista”. Come se la potenza iconografica di quell'immagine potesse assolvere tutti quei governi dai crimini perpetuati in casa propria, o addirittura il Presidente Netanyahu che quest'estate a Gaza ha trucidato migliaia di palestinesi innocenti, mascherando un conflitto coloniale sotto il vessillo di un'altra guerra di religione.

Continuiamo a difendere Kobane per essere Kobane, per imparare da chi attraverso l’utopia ha costruito un laboratorio reale di democrazia, e sta combattendo Daesh sul campo, non per tatticismo politico, ma per amore della libertà e dell'autogoverno.