da Uniriot.org

Istituzioni del comune o dismissione dell'università: quando la riforma va in onda

3 / 11 / 2008

Il ruolo centrale dei saperi lo avevamo individuato da tempo. Cristallino il nostro metodo: nessuna nostalgia per il passato, ma aggredire la crisi dell’università. Passare dalle lotte contro l’esclusione ai conflitti sull’inclusione differenziale, il problema che ci siamo posti. L’emergenza di una nuova figura dello studente, non più forza lavoro in formazione ma a tutto tondo lavoratore cognitivo, questa la composizione soggettiva emergente. Trasformare la difesa dell’università pubblica in organizzazione delle istituzioni del comune, e tutto il potere all’autoformazione: ecco le nostre “tesi d’aprile”. Ora, lo straordinario movimento che sta scuotendo alle radici non solo il sistema formativo ma tutto il governo Berlusconi, non lo abbiamo previsto in queste forme. Lasciamo ogni paranoica idea deterministica e oggettivistica a una cultura di sinistra finalmente in via di dissoluzione.

Abbiamo fatto molto di più: abbiamo cercato di organizzarlo, di organizzarci al suo interno. Sì, perché individuare la tendenza significa organizzarne gli elementi di forza, rovesciarne i punti di blocco, costruire direzione strategica dentro l’aleatorietà del rapporto tra composizione sociale e congiuntura dell’insorgenza. La ricerca, se è pratica politica e non esercizio accademico, è allora immediatamente spazio costituente e produzione del comune.

In queste settimane la ricerca politica degli ultimi anni si è dunque fatta carne, condensandosi in quello slogan – “noi la crisi non la paghiamo” – geniale come solo le parole d’ordine dei movimenti sanno essere. Come fu “più soldi e meno lavoro” per il ciclo di lotta dell’operaio-massa. Non si sa chi l’abbia inventato, non ha nessuna importanza. È all’opera, in questi casi, una sorta di “mano invisibile”, quell’intelligenza collettiva che guida i cortei selvaggi laddove la metropoli è più vulnerabile, che rende l’onda imprevedibile e inafferrabile, che ha trasformato le occupazioni delle facoltà in conquista dell’autogestione di massa nella produzione dei saperi.

È duplice la crisi che studenti e precari rifiutano di pagare: la crisi dell’università e la crisi finanziaria globale. Crisi intrecciate, se per finanziarizzazione intendiamo la forma reale e concreta dell’economia capitalistica in un sistema di accumulazione che deve mettere a valore ciò che non può più misurare, ovvero catturare la produzione del comune. La crisi dell’università non ha a che fare semplicemente con il definanziamento pubblico e l’investimento privato (in Italia peraltro del tutto assente) nel settore dell’istruzione superiore: è la stessa dialettica tra pubblico e privato a frantumarsi. Qualsiasi appello allo Stato contro le imprese non ha oggi, se mai l’ha avuto in passato, alcun senso. Nel mondo anglosassone lo Stato, cioè il pubblico, è oggi garante dell’aziendalizzazione, si scioglie addirittura al suo interno. In Italia, poi, la strategia non è nemmeno la privatizzazione, come vorrebbero gli ideologi nostrani di un liberalismo in assenza di mercato, quanto piuttosto – da destra a sinistra – l’abbandono del sistema universitario alla sua inerziale dismissione.

Tutto ciò stride con il mantra dietro cui, disperati, il ministro Gelmini e il governo Berlusconi si trincerano: la necessità del cambiamento. E allora tutti a puntare il dito sui corrotti e sugli scandali del malcostume accademico, con l’unico obiettivo di salvare il sistema che genera corruzione, perché questa non è nient’altro che la condizione di sviluppo dello Stato e del mercato, oltre che del loro rapporto. Non è un caso che gli unici alleati che il governo ha nel mondo della formazione siano proprio i baroni, dalla Crui al rettore della Sapienza, il famigerato Frati. Sono tutti dalla stessa parte, quella che invoca il cambiamento per giustificare la conservazione, che accusa i corrotti per mantenere la corruzione.

Questo è, in fondo, anche il leit motiv di un recente libro ormai culto buono per ogni retorica,L’università truccata di Roberto Perotti. In assenza di fondi (pubblici o privati) che garantiscano l’imprenditorializzaizone dell’università, la sua ricetta è semplice: scaricare la crisi sugli studenti. Ridotti a capitale umano, dovrebbero pagare più tasse per investire nel proprio futuro, ovvero su ciò che nei mercati finanziari si chiamafuture. Non si tratta di un ritorno all’esclusione: siccome il bisogno formativo è incomprimibile, i prestiti d’onore (cioè la forma italiana del debito) consentono di utilizzare un welfare privatizzato. Si tratta di una devalorizzazione della forza lavoro e un preventivo attacco a un salario che ancora non c’è. Da qui deriva il tema dell’assenza di futuro, che torna spesso tra gli studenti. O meglio, uno schiacciamento del futuro sul presente che assume oggi i tratti inquietanti della precarietà, dell’incertezza del reddito e delle tutele, oppure del lavoro non pagato di stage e tirocini. E tuttavia, attenzione: il futuro ha storicamente avuto un ruolo normativo, teso a controllare i comportamenti sociali offrendo la speranzosa attesa di un domani radioso, che assumeva le speculari forme del sol dell’avvenire o del regno dei cieli. L’estinzione del futuro è allora genealogicamente segnato anche dalle lotte e dai movimenti: dobbiamo ora rovesciarla in pienezza del presente. In pratica di riappropriazione di quella ricchezza sociale che quotidianamente viene prodotta in comune. Cominciando già, per intanto, a farci pagare il lavoro gratuito, dagli stage alle attività dei ricercatori precari sfruttati dal potere feudale.

Governo disperato, dicevamo. Allo sbando. In crisi, perché noi siamo la loro crisi. Provano a mostrare rachitici muscoli con dichiarazioni la cui ferocia è inversamente proporzionale all’efficacia. Perdono addirittura sul loro terreno, quello dei sondaggi: meno 20% in sole due settimane di onda. Ritirano fuori la questione della minoranza. Certo, noi siamo una minoranza forte e centrale. Loro sono una maggioranza minoritaria. Spaccata al suo interno, per giunta, come dimostra la loro prima dichiarata sconfitta, cioè la retromarcia sull’annunciato decreto di riforma dell’università. Si dicono pronti al dialogo. Qua bisogna essere chiari: ribadire che chi va a trattare col governo fingendo di rappresentare il movimento (dai sindacati, studenteschi e no, alla sedicente opposizione, ombra di se stessa) non rappresenta nessuno, è importante e doveroso, ma assolutamente evidente. L’irrappresentabilità della nuova composizione del lavoro cognitivo non è infatti un obiettivo, ma un elemento costitutivo, di partenza. Urge un passo oltre: se vogliono dialogare, lo facciano con il movimento in quantoistituzione del comune, ossia produzione di nuove norme, organizzazione della potenza del sapere vivo, assorbimento delle funzioni della mediazione politica. Siamo qua, pronti a configgere e trattare, perché siamo forti e stiamo vincendo, perché siamo inafferrabili anche quando ci sediamo a un tavolo di discussione.

Se nel 2005 le mobilitazioni scrissero la propria «autoriforma dell’università», ora si tratta di renderla progetto complessivo. Non chiamiamola “dal basso”, perché lì lasciamo chi tenta di catturare la ricchezza sociale che produciamo. Questa è l’unica riforma possibile, in quanto non ha nulla da conservare. Una riforma che sedimenta autonomia nell’esercizio di potere collettivo. È una riforma, soprattutto, attraverso cui ripensare la costruzione dello spazio europeo dopo il fallimento del Bologna Process, perché europea – dalla Francia alla Grecia, dalla Spagna alla Danimarca – è la composizione sociale che innerva i movimenti del lavoro cognitivo. Istituzioni del comune o dismissione dell’università: ecco cosa significa agire all’altezza della crisi.

Continuare a rendere ingestibile la metropoli, consolidare le istituzioni dell’università autonoma, generalizzare le lotte sulla formazione all’intera composizione del lavoro. Qui si gioca la partita. La posta in palio, se si vuole, è ripensare in termini materialistici il tema della libertà, tanto evocata nelle forme del lavoro e nelle riforme universitarie, quanto sistematicamente ingabbiata dalla precarietà e dai programmi formativi. Se intesa in senso classico, in quanto libertà di opinione, essa non solo non è negata, ma anzi è richiesta dal nuovo regime di accumulazione. È indispensabile risorsa produttiva e fonte di identità per il “creativo” e ilknowledge worker. Non è questo ciò che ci interessa. La nostra libertà parla la lingua della potenza della cooperazione sociale e del sapere vivo, è critica radicale dei rapporti di sfruttamento e dell’università del binomio pubblico-privato. È una libertà selvaggia perché irrappresentabile. È una libertà comune perché di parte. È la libertà che hanno le onde che si organizzano.