Interventi nel flusso globale della rabbia: un’intervista con Werner Bonefeld, Ana Cecilia Dinerstein e John Holloway

28 / 10 / 2019

Tra poche settimane, Pluto Press pubblicherà il volume collettaneo Open Marxism 4: Against a Closing World a cura di Ana Cecilia Dinerstein, Alfonso García Vela, Edith González e John Holloway. In questa intervista, fatta da Lorenzo Feltrin per la rubrica di approfondimento teorico “Il pensiero alla radice”, i curatori Ana Cecilia Dinerstein e John Holloway e l’autore della prefazione Werner Bonefeld commentano alcuni sviluppi politici degli ultimi decenni.

Werner Bonefeld è professore alla University of York, autore di Critical Theory and the Critique of Political Economy e The Strong State and the Free Economy e tra i curatori del SAGE Handbook of Frankfurt School Critical Theory. Ana Cecilia Dinerstein insegna sociologia alla University of Bath. Tra le sue pubblicazioni ci sono The Labour Debate (curato insieme a Mike Neary), The Politics of Autonomy in Latin America: The Art of Organising Hope e Social Sciences for an Other Politics: Women Theorising without Parachutes. Ana sta lavorando a un programma di ricerca chiamato “politica globale della speranza”, che si propone di collegare la teoria critica con le pratiche autonome dei movimenti sociali. John Holloway è professore in sociologia alla Benemérita Universidad Autónoma de Puebla, Messico. I suoi libri più noti sono Cambiare il mondo senza prendere il poteree Crack Capitalism.

Non tutti i punti di vista espressi nell’intervista riflettono quello della redazione di Globalproject.info, in particolare per quanto riguarda le valutazioni sul reddito universale. Traduzione a cura di Lorenzo Feltrin.

1. Tra il 1995 – anno di pubblicazione di Open Marxism Vol. 3 – e il 2019, abbiamo visto una grande varietà di eventi segnanti e trasformazioni sociali, in particolare la parabola del movimento per la giustizia globale e l’affermarsi della ribellione zapatista come ispirazione per i gruppi anticapitalisti antiautoritari di tutto il mondo. Poi, con la crisi finanziaria iniziata nel 2007-08, si è manifestata una nuova ondata di contestazione – dalla Primavera araba a Occupy, ecc. Come interpretate questi movimenti autonomi? Sono fonte di cambiamento e in che modo?

Werner: Non posso rispondere direttamente a questa domanda con alcun grado di certezza. Essa presuppone la veracità di un movimento per la giustizia globale, seguito da un’ondata di contestazione nelle forme della Primavera araba e Occupy. Ci si chiede poi se ci sia stato alcun cambiamento in conseguenza dell’audacia di questi movimenti e, domandandone il tipo, si presuppone che il cambiamento ci sia stato, che sia stato un cambiamento reale, identificabile e misurabile. Questo mi fa venire in mente uno slogan dell’ex Repubblica democratica tedesca. Essa, per legittimarsi, si descriveva non solo come “socialista” ma anche come “reale”. Lo slogan “socialismo reale” sottintendeva che, nel proclamare la sua esistenza, uno faticasse comunque a crederci. Era necessario darsi un pizzicotto per la meraviglia: esiste davvero!

Ora, i movimenti in questione sono effettivamente esistiti e, nei nostri tempi bui, sembra che anche in questo caso ci si debba dare un pizzicotto per ricordarsene. Salvini, un demagogo di destra che specula su gente che annega per trarne vantaggi politici e che sotto tutti i punti di vista lo fa con grande successo, è il simbolo reale della sottocorrente nazionalista del movimento no global culminato a Genova nel 2001. Tale sottocorrente era inizialmente poco visibile ma si è affermata sempre di più a partire dalla crisi finanziaria del 2008. Prima gli italiani. America first. Prima il Messico. Prima la Germania. Brexit è Brexit. E via dicendo. Se inserissimo la critica dell’élite cosmopolita articolata da Steve Bannon nel contesto dei tardi anni ’90 e dei primi 2000, sembrerebbe che anche lui stesse portando avanti importanti istanze dei movimenti per la giustizia globale che vedevano nello stato nazionale un baluardo contro la globalizzazione. Ricordo di aver letto in quel periodo il libro di un famoso filosofo marxista tedesco che sosteneva che il capitale si ritirasse laddove lo stato (nazionale) riuscisse a imporsi. Salvini e Bannon non sono importanti. Ciò che importa è il contesto della nostra condizione attuale, che li rende importanti, gli dà visibilità e, nel caso di Salvini, gli permette di aumentare i propri consensi ogni volta che il cadavere di un migrante galleggia nel Mar Mediterraneo.

Torniamo però al movimento per la giustizia di un tempo apparentemente passato. La premessa di una richiesta di giustizia è l’ingiustizia. Che cosa significa davvero ottenere giustizia in un mondo ingiusto? Il mio discorso non intende sminuire i movimenti in questione. Essi sono emersi dal coraggio di persone che si sono battute per la giustizia, qualunque cosa significhi questo concetto. Che cosa sono una giusta paga e una giusta giornata lavorativa? Che cosa significa lottare contro la finanza, resistere ai movimenti della moneta, combattere gli andamenti dei tassi d’interesse, far fronte alla povertà in un modo di riproduzione sociale che implica “il povero” nella propria concezione di benessere?

Ciò di cui abbiamo bisogno è una prassi che non faccia il gioco dell’economia politica, una prassi che non faccia il gioco dello scandalo moralista e che non si ammanti in una sciccheria autocompiaciuta. Non c’è più tempo, né per gli eroi né per le celebrità normative. C’è però tempo per una prassi che politicizzi esperimenti in relazioni sociali nuove, ovvero nuove forme di riproduzione sociale che chiamiamo beni comuni (commons). Abbiamo bisogno di una prassi di politicizzazione dei beni comuni. Se questo ci porterà da qualche parte, non possiamo saperlo con certezza. Senz’altro, l’incertezza è l’essenza stessa di una pratica che tenda a istituire una nuova umanità di individui comunisti, un’umanità in cui il benessere non consista di denaro ma di tempo, tempo da usarsi a piacimento.

Nella fredda società della necessità economica, le catene d’oro sono da preferirsi alle catene arrugginite e l’alleviamento della povertà è un dovere. Tuttavia, anche se le catene d’oro fanno una certa differenza, pur sempre catene restano. L’alleviamento della povertà è la prassi della giustizia all’interno di una società ingiusta, questo è certo.

I movimenti in questione erano laboratori d’incertezza, il tempo ci dirà se otterranno qualcosa. Sarebbe però falso elevarli a esempi gloriosi di un passato migliore. Non erano gloriosi né sono passé. Sarebbe anche sbagliato interpretarli come naturalmente progressisti. Primo, perché la moltitudine che li costituiva comprendeva anche i vittimisti, i moralizzatori, le celebrità normative, gli pseudo-attivisti, gli autocompiacenti, i nazionalisti, le sirene “anti-imperialiste” che evocavano immaginari sangue e terre delle cosiddette nazioni subalterne proclamando incondizionatamente che il nemico del nemico è un amico. Secondo, non ci dovrebbe essere nessun progresso, la condizione presente non dev’essere fatta progredire. Chiedere giustizia in un mondo ingiusto presuppone il progresso di un mondo che dev’essere invece fermato e basta. Perlomeno, esprimiamo la nostra solidarietà alle femministe in Iran, agli anarchici in Palestina, ai comunisti libertari in Israele, agli autonomi in Italia, ai sindacalisti rivoluzionari in Russia e ai comunardi ovunque essi risiedano.

Ana Cecilia: Concordo con Werner sul fatto che dobbiamo sviluppare una prassi che affronti il problema alla radice. Tuttavia, a differenza di Werner, penso che le lotte siano inevitabilmente mediate da forme sociali, politiche ed economiche come la legge, il denaro e lo stato. Quindi la domanda non è “Che cosa significa davvero ottenere giustizia in un mondo ingiusto?” come chiede Werner, ma “In quali modi le nostre lotte sulle forme di mediazione trasformano queste ultime e allo stesso tempo producono un’eccedenza che non possa essere tradotta nel linguaggio dell’economia politica?”. Non sono d’accordo con l’opinione di derivazione Adorniana secondo cui non possiamo lottare contro il sistema poiché esso funziona tramite forme di mediazione. Inevitabilmente, possiamo solo aprire vertenze su tali mediazioni, ma queste lotte creano alternative che mantengono una critica negativa al proprio interno.

I tentativi di creare nuove forme di relazioni sociali e pratiche in diretta opposizione alle dominanti relazioni capitalistiche, coloniali e patriarcali necessitano prove di altri possibili modi di vivere in comune, e sottolineo la parola “possibili”. Come potrebbe essere altrimenti? A volte, l’elemento utopico delle lotte presenti è ignorato a causa del fenomeno che chiamo la “paura di positivizzazione” del teorico critico, ovvero la paura di affermare alternative poiché esse saranno giocoforza appropriate dal sistema. Tuttavia, questo è un sintomo del problema della teoria critica odierna: essa non sta tentando di confrontarsi con le lotte presenti contro e oltre il mondo del capitale-denaro.

Capisco senz’altro che alcune strategie dei movimenti sociali odierni conducano effettivamente a una positivizzazione, e quindi al recupero (e deradicalizzazione) della resistenza. Dobbiamo esserne coscienti e sottolineare il problema. Per esempio, anche se la lotta contro e oltre il denaro può prendere molte forme, oggi la proposta di un reddito di base universale si sta espandendo. La celebrazione del reddito universale come la utopia della sinistra è assai preoccupante. Ho scritto alcuni articoli che esprimono la mia critica della rivendicazione di un reddito universale associato all’automazione (come nel libro di Srnicek e Williams) e dell’idea di un comunismo di lusso pienamente automatizzato (come nel libro di Aron Bastani). Ciò significa non solo fare il gioco dell’economica politica, come dice Werner, ma anche inchinarsi al padrone! Non mi è chiaro come il reddito universale, erroneamente concepito come una “rivendicazione transizionale”, possa essere la soluzione al problema della subordinazione della vita umana alla forma-denaro. Molti designano questa proposta come una “utopia realistica” ma io la chiamo una “cattiva utopia”. Credo che sarebbe importante ritornare a una discussione in profondità del ruolo del denaro nel lavoro capitalista. La questione di che cosa sia il denaro è scomparsa dall’orizzonte della sinistra ed è discussa solo in ristretti circoli marxisti. Questo è un serio problema perché la difesa del reddito universale si basa su valori liberali e mal riflettuti, come “il diritto dei cittadini a un reddito”. Ma se ci pensiamo, qual è il vero problema da affrontare? La mancanza di denaro o la dipendenza dell’esistenza umana dal denaro? Credo che la risposta sia la seconda. Gli appelli a un reddito universale ignorano le lotte di base contro il denaro stesso.

Se invece lottiamo per l’autogestione, dobbiamo comunque avere a che fare con lo stato – come per esempio è avvenuto in Argentina negli anni 2000 – ma si tratta di un’esperienza differente perché non incentrata sullo stato. Essa apre invece lo spazio per la creazione di realtà alternative nelle crepe del capitalismo (come dice John). Ogni crepa ci porta nell’“oltrezona” dell’organizzazione di movimento ed è lì che possiamo praticare l’“arte di organizzare la speranza”. Tuttavia, questo inevitabilmente succede dentro, contro e oltre il capitale, non al suo esterno.

Non minimizzo nemmeno la lotta per un migliore sistema sanitario, voglio che mio figlio riceva le cure necessarie. Tuttavia, non posso chiamare una lotta di questo tipo “rivoluzionaria” o riformista. La lotta sulle forme dello stato e dell’economia dovrebbe tentare di forzare e trascendere i parametri di leggibilità imposti da tali forme sociali, politiche e legali. La domanda è: la lotta sulle forme di mediazione, per esempio la legislazione o lo stato, punta verso una critica del capitale o no? Difficile dirlo.

Per rispondere in sintesi alla domanda iniziale: alcuni movimenti hanno generato e stanno generando cambiamento perché hanno aperto spazi di critica e di possibilità. Il resto è processo, lotta politica, gli esiti non sono predeterminati. A mio modo di vedere, quel che possiamo fare è aprire “fronti” per spazi di possibilità politica. Quando ciò accade, tutto comincia a muoversi, cambiare, fluttuare, venire allo scoperto, compresi il potere, le élite al potere, la legge, le istituzioni, le politiche governative, lo stato, tutto.

John: La rabbia scorre ovunque nel mondo, e sta crescendo. Il modo in cui tale rabbia si esprime è fondamentale. Al momento, sembra che molta di questa rabbia ci stia spingendo verso l’estinzione, verso l’auto-annichilimento dell’umanità. Trump, Bolsonaro, l’ascesa dell’estrema destra quasi ovunque, il razzismo della Brexit e via dicendo… Che dire? Invitare alla calma non ha senso: senz’altro c’è bisogno di rabbia in un mondo trainato dallo sfruttamento, dal denaro. Come intervenire dunque nel flusso della rabbia, come esprimere la nostra rabbia?

La distinzione cruciale è quella tra rabbia identitaria – diretta verso “l’altr*” – e quella che gli zapatisti chiamano “digna rabia”, rabbia degna. Come esprimere una digna rabia? Lavorando per un processo di auto-determinazione collettiva, creando crepe nelle maglie del dominio, spazi o momenti nei quali spingere con tutta la nostra forza verso una società diversa, non basata sul denaro e sul profitto. È possibile farlo attraverso lo stato? Io non credo, semplicemente perché l’esistenza stessa dello stato è così legata al denaro e alla riproduzione del capitale che è difficile immaginare come esso possa funzionare altrimenti che come soffocatore di speranze. Anche l’esperienza pratica ce lo ha già mostrato così tante volte. La digna rabia può solo essere un processo di rifiuto-resistenza-ribellione, e sperimentazione: non ci sono autostrade verso la rivoluzione, gli unici cammini che abbiamo sono quelli che creiamo percorrendoli.

Per tornare alla domanda: gli zapatisti, la Primavera Araba, Occupy erano e sono tentativi (sempre contraddittori) di esprimere una rabbia degna, una digna rabia. Che cosa hanno raggiunto? Non c’è una chiara risposta: erano e sono interventi nel flusso globale della rabbia che mantengono aperta la possibilità di un futuro non-capitalista, di un mondo diverso. Ciò che sarà di tali interventi non dipende solo dai movimenti specifici ma soprattutto dal flusso generale della rabbia. La questione cruciale per noi è: come rafforzare movimenti di questo tipo, come far avanzare la nostra rabbia condivisa di modo che distrugga il capitale e non l’umanità?

2. In effetti, il populismo di destra, il sessismo, il razzismo, compreso l’antisemitismo, e altre forme di xenofobia sono emersi come elementi di un’alternativa che in molti sembrano trovare più attraente delle proposte della sinistra anticapitalista…

Werner: La mia risposta precedente tocca molti di questi temi. Ad ogni modo, è stato argomentato con forza che la globalizzazione neoliberista sia una nuova forma di capitalismo caratterizzata dal capitalismo finanziario. Tale capitalismo viene definito come un sistema che estrae profitti direttamente dal reddito personale dei lavoratori e dei ceti medi e, nel caso della Grecia, da un’intera nazione. Il capitalismo finanziario, ci dicono, si dedica all’esproprio finanziario, che è stato anche analizzato come “accumulazione per spoliazione”. A grandi linee, questa letteratura concorda sul fatto che il capitalismo finanziario sia il risultato del Washington Consensus. Queste affermazioni sono appoggiate da sofisticate analisi e intricate argomentazioni sul potere della stregoneria finanziaria dei pochi, il cosiddetto 1%, il cui controllo sull’economia potrebbe o meno essere aumentato negli ultimi duecento anni. In ogni caso, ciò che ho appena riassunto – per quanto in forma semplificata – è la sostanza di una ben nota linea argomentativa, molto in voga al giorno d’oggi tra autori e opinionisti di sinistra.

Tuttavia, se rileggiamo il mio riassunto in ordine inverso e aggiungiamo qualche elaborazione, tale analisi non sembra poi così entusiasmante: una certa forma di capitalismo è il risultato di un affare concluso a Washington. Questo tipo di argomentazione suggerisce che il capitale sia di fatto controllato dai potenti e che quindi non sia il soggetto-feticcio di cui Marx parlava nella Critica dell’economia politica quando lo analizzava come un’astrazione reale che si manifesta all’insaputa degli individui sociali. Inoltre, l’idea che lo sviluppo capitalista risulti da un accordo raggiunto a Washington riduce l’emergere del capitalismo finanziario a un mero complotto. Mentre Marx riteneva che ci fosse una logica inerente al concetto di capitale come sistema monetario in crisi perpetua e basato sul lavoro espropriato, la teoria del complotto dello sviluppo capitalista sostiene che il capitalismo contemporaneo derivi da un accordo tra le élite finanziarie e i poteri militari. Hanno complottato per espropriare i lavoratori. Hanno complottato per fare soldi dai soldi per fare ancora più soldi. Hanno complottato contro il capitale produttivo a scapito delle opportunità di lavoro della classe che vive del salario. I congiurati sono cosmopoliti senza radici che si infiltrano ovunque per trarne guadagni finanziari!

Un risultato politico di questa analisi è esemplificato da uno slogan particolarmente in voga in certi ambienti di sinistra: i governi devono mettere il denaro sotto il proprio controllo affinché esso generi crescita e posti di lavoro invece che essere utilizzato per gli egoisti propositi dei commercianti di avidità. Un altro risultato politico sta nello slogan secondo cui la globalizzazione sarebbe un paradiso per parassiti, un mondo in cui la promessa di opulenza per le masse che comporterebbe un’economia nazionale ben funzionante e fondata sul lavoro è rubata da pochi cosmopoliti commercianti di miseria. Questo tipo di analisi apre il vaso di Pandora nel quale si annidano elementi di razzismo (“British jobs for British workers”) e antisemitismo. Infine, tale critica del denaro e del potere presuppone che il capitalismo possa in effetti funzionare nell’interesse dei molti se solo i (cattivi) capitalisti non fossero al potere. Questa idea secondo cui i capitalisti corromperebbero il capitalismo è tanto strana quanto diffusa. Ogni partito politico sostiene di essere in grado di governare il capitale nell’interesse nazionale meglio degli altri, dall’estrema destra alla sinistra tradizionale passando per il centro, e il capro espiatorio per i fallimenti di qualsiasi governo può sempre essere facilmente identificato tramite proiezioni xenofobe, tropi antisemiti e accuse razziste.

Ana Cecilia: Nell’ascesa della destra vedo la putrefazione e la bancarotta della menzogna della democrazia liberale. Non è la prima volta che questa pseudo-democrazia si trova in condizioni critiche. Possiamo ora vedere che il fascismo non è l’eccezione, ma la regola. L’estrema destra sta guadagnando posizioni, come nei primi decenni del ventesimo secolo in Germania e Italia. Il razzismo, la xenofobia, la misoginia, l’omofobia, la colonialità e il patriarcato non sono novità. Ci sono oggi milioni di emarginati che vivono in condizioni disumane. C’è un vuoto. Trump, Bolsonaro, Salvini, ecc. stanno occupando questo spazio. Non sto però dicendo che dobbiamo rafforzare la democrazia liberale. Piuttosto, questa è un’opportunità per smantellare le illusioni e dire la verità: il problema non sono i leader in quanto individui. Sì, sono personaggi orribili, giocano a “chi ce l’ha più lungo” mentre il mondo affonda, annegando nel proprio vomito. Ma non sono loro il punto. Il punto è la crisi del capitalismo, della colonialità, del patriarcato.

In un certo senso, “l’ascesa dell’estrema destra” è sopravvalutata. La destra, l’autoritarismo e la violenza di stato sono sempre presenti perché è quasi la norma che la forma politica del capitale – lo stato – debba adattarsi all’oppressione e a riforme disumane. Quando questi fenomeni giungono al nord globale, tutti hanno l’aria di sorprendersene. Ma che cosa credete che stesse succedendo in Messico, dove le persone vengono fatte sparire quotidianamente, come nel caso della sparizione forzata di 43 studenti ad Ayotzinapa cinque anni fa? Dove le donne vengono uccise solo per essere donne in quello che chiamiamo femminicidio? Un altro esempio che mi viene in mente sono gli assassinii di giornalisti e sindacalisti in Colombia.

Non penso che la gente trovi la destra attraente. Il sistema ci costringe ad amare il potere. Gli elettori vogliono appoggiare candidati potenti e, senz’altro, Trump è potente, è la persona più potente al mondo e adora vantarsene come se fosse un imperatore romano… Ha creato un immaginario sociale di odio e la peggior ideologia di soppressione dell’empatia umana ma ricordiamo che la maggioranza della popolazione statunitense non ha votato per lui. Lo stesso vale per il Brasile di Bolsonaro o l’Argentina di Macri.

Stiamo assistendo a una profonda crisi della sinistra, una sinistra che non ha prodotto alcuna autocritica dopo la sua “crisi ufficiale” e ora è alla deriva, una sinistra che non ha una narrazione alternativa a quella della destra, una sinistra esitante che dovrebbe rileggere le opere di Marx in un modo nuovo e tentare di comprendere il prima possibile il nuovo soggetto della resistenza, che secondo me è femminile, decoloniale, indigeno, precario, etico, autonomo e democratico. O forse la “sinistra” dev’essere sepolta come progetto moderno e dobbiamo reinventarla seguendo altri esempi, come quello degli zapatisti. La loro rivoluzione della dignità – come la chiama John – ha non solo trasformato il significato del concetto di rivoluzione ma ha anche prodotto molteplici aperture epistemologiche, teoriche, pratiche e culturali. È un’esperienza molto ricca ed estremamente importante. Tuttavia, i teorici critici – con alcune eccezioni – continuano a ignorare o sottovalutare questa rivoluzione. Non ne hanno letto abbastanza, non la capiscono perché viene dalle popolazioni indigene. Questa è la crisi della sinistra.

John: Sì, rischiamo di perdere la crisi del capitale un’altra volta. Abbiamo perso la crisi del 1929 e degli anni ’30: l’ascesa della destra, il fascismo, il massacro di milioni di vite nella guerra. Credo che il 2008, come il 1929, abbia avuto un enorme impatto sulle vite e le aspettative di tutti, con la crescita di disuguaglianze oscene, la repressione statale, la militarizzazione, l’ascesa della destra. Ma il 2008 non è stato tanto una crisi del capitale quanto un tentativo di ritardarla e regolarla tramite enormi sostegni alle banche. È ben possibile che una crisi ancora più potente arrivi nei prossimi anni e, se la rabbia continua a prendere una direzione razzista e nazionalista, la situazione assumerà tinte ancora più fosche.

Penso che una parte del problema sia stato l’incanalarsi del malcontento attraverso lo stato che, per definizione, è un’istituzione razzista e xenofoba che discrimina tra “cittadini” e “stranieri”. Questa illusoria speranza-via-stato va spesso di pari passo con il concetto di “neoliberismo”: se le politiche governative si allontanassero dal neoliberismo tutto si sistemerebbe. Il problema però non è il neoliberismo e non sono le politiche scelte dai governi, il problema è la dinamica stessa del capitale. La scelta non è quella tra il neoliberismo e un capitalismo giusto, perché quest’ultimo è impossibile. La scelta è tra capitalismo e umanità.

L’esperienza dei governi “di sinistra” ha dimostrato come essi non siano stati in grado di alterare la dinamica del capitale in modo significativo, con il risultato di finire per applicare le misure che inizialmente condannavano. La Grecia e il Brasile sono gli esempi più evidenti, ma non ci sono molte ragioni per credere che Corbyn o Sanders se la caverebbero meglio. Dopo così tanti fallimenti dei governi “di sinistra”, è impossibile non chiedersi se ci sia qualcosa di strutturalmente sbagliato nell’idea che i partiti di sinistra siano in grado di produrre un cambiamento significativo. Non sto dicendo che essi non possano produrre piccoli miglioramenti in grado di migliorare la vita di molti, e ci potrebbero benissimo essere delle buone ragioni per votare per Corbyn o chi altri, ma dobbiamo essere coscienti del fatto che qualsiasi governo di sinistra dovrà promuovere l’accumulazione del capitale e questo significa compiere ulteriori passi verso l’estinzione. L’esperienza degli ultimi quindici anni circa suggerisce che la delusione nei confronti dei governi di sinistra può facilmente favorire l’ascesa del fascismo.

3. Negli ultimi mesi, mobilitazioni sociali in molti paesi del mondo – in particolare gli scioperi transfemministi e quelli climatici – hanno messo al centro l’attuale crisi della forma capitalista di riproduzione sociale della vita. Quali sono le vostre riflessioni in merito?

Werner: È essenziale che questi movimenti rifiutino di diventare parte di quella politica che devono lasciarsi alle spalle per poter raggiungere i propri obiettivi. È anche importante che rifiutino una visione rosea, secondo cui la crisi ambientale potrebbe essere risolta senza un mutamento delle relazioni sociali. Per vincere, c’è bisogno di un pensiero che prevenga una falsa prassi. Infine, abbiamo bisogno di sperimentare nuove relazioni sociali che non umanizzino la natura e non naturalizzino l’umanità ma che, piuttosto, riconoscano l’ambiente come fondamento della vita umana. Esigiamo l’impossibile, chiediamo pannelli solari gratuiti, piantiamo alberi nelle terre comuni della nostra nuova società, rivendichiamo il diritto alla felicità e a godere della nostra umanità non come un mezzo ma come un fine in sé stesso. Chiediamo una democrazia di liberi e uguali e politicizziamo i beni comuni. Se l’impossibile accadrà è cosa assai incerta, qui sta la sfida.

Ana Cecilia: Il mio lavoro sull’“arte di organizzare la speranza” mostra che i movimenti e le persone non stanno esigendo l’impossibile, ma l’improbabile. C’è una grande differenza. Dobbiamo prendere sul serio la possibilità di rimanere delusi… dobbiamo navigare nella contraddizione. Werner ha ragione: i movimenti devono passare dalla prospettiva dell’Antropocene a quella del Capitalocene (per usare la terminologia di Jason Moore), nel senso che non è l’“umanità” che sta uccidendo il pianeta, ma il capitalismo. Si tratta di una grande opportunità per avanzare una critica complessiva del capitale usando la “crisi ambientale” come punto di ingresso. Tutti possono sentirsi toccati da questo problema e provare empatia per la ricerca di soluzioni, quindi è una buona occasione per affrontare temi come quello del rapporto tra crisi ambientale e colonialità.

Per esempio, il collettivo Wretched of the Earth ha scritto una lettera aperta a Extinction Rebellion qualche mese fa per chiedergli di ricordare che la crisi attuale non può essere risolta meramente attraverso la scienza e la tecnologia e che è necessario ascoltare coloro che stanno già vivendo su questo pianeta in modi non distruttivi pur avendo sofferto secoli di oppressione. Wretched of the Earth ha detto a Extinction Rebellion che “senza incorporare le nostre esperienze, qualsiasi risposta a questo disastro fallirà nel tentativo di cambiare le modalità complesse attraverso cui i sistemi sociali, economici e politici danno forma alle nostre vite – consegnando ad alcuni una vita in prima classe e facendo pagare i costi agli altri”.

Fatti come la continua devastazione dell’Amazzonia da parte di Bolsonaro o i progetti distruttivi per il Chiapas di Amlo non costituiscono solamente cattive decisioni prese da politici irresponsabili. Non si tratta solo di esigere l’impossibile come suggerito da Werner. Si tratta anche di capire che, come spiegato da Luxemburg, l’espansione economica e la risultante devastazione ambientale non sono un difetto del capitalismo globale ma una caratteristica intrinseca di un sistema distruttivo. Come ho scritto per The Conversation: “[Luxemburg] ci ha insegnato che la guerra, il colonialismo e l’estrazione insostenibile dalla natura sono prodotti del capitalismo globale. Il risultato è la perdita di una ricchezza naturale insostituibile e il fatto che così tanta gente nel mondo in via di sviluppo fatichi a soddisfare i propri bisogni in termini di cibo, acqua e alloggio. Una comprensione adeguata della crisi ambientale e del capitalismo odierno dev’essere decoloniale se vuole arrivare alle radici del problema”.

John: È un’ottima cosa che ci siano movimenti di protesta ovunque contro la distruzione delle condizioni della vita umana e non. Ma, come dicono Werner e Ana, non si tratta solamente di cambiare le politiche governative o le nostre abitudini quotidiane (per quanto importante ciò possa essere). Dobbiamo dire chiaramente che è la forma di organizzazione sociale in cui viviamo a spingerci verso l’estinzione. Tale “forma di organizzazione sociale” è il capitale, il denaro. Dobbiamo esigere ciò che sembra essere impossibile, l’abolizione del denaro e la costruzione di altri modi di relazionarsi – mettere in comune, costruire il comune.