“Intersezioni e convergenze: i movimenti nella crisi climatica”: il report del dibattito al Venice Climate Meeting

14 / 12 / 2021

Quale orizzonte per i movimenti contemporanei, in una fase in cui si sta delineando una ristrutturazione epocale del capitalismo? Quali alleanze possibili, che partano dall’assunto che l’intersezionalità non è una sommatoria di istanze, ma un processo più complesso? Con queste domande è iniziato il dibattito del Venice Climate Meeting che ha ospitato gli interventi di Marco Armiero (direttore Environmental Humanities Lab), Alice Dal Gobbo (ricercatrice Università di Trento), Alessandro Runci e Simone Ogno (Re Common).

«Il contesto in cui viviamo e gli scenari che si aprono nel futuro prossimo ci impongono una serie di riflessioni e scelte» dice Anna Clara Basilicò di Rise Up 4 Climate Justice nella sua introduzione. «Viviamo una crisi ecologica con ripercussioni forti, e un anno fa c’era chi diceva che ne saremmo usciti migliori; si parlava di una natura che si riappropriava degli spazi, giravano video di animali che giravano nelle città. Quell’effetto è durato pochissimo: le emissioni di Co2 sono quasi aumentate rispetto alla fase pre Covid e tutto questo ha un forte costo sociale: basta vedere il rincaro delle bollette, le dinamiche di licenziamento di massa, l’aumento della povertà e una gestione della crisi pandemica che continua ad essere emergenziale».

Come ci aiuta la storia dell’ambiente per aggiornare la nostra lettura sul presente e sulla crisi climatica? Questa è la prima domanda rivolta a Marco Armiero, che parte dal perché sia importante  storicizzare la natura: «noi discendiamo da una tradizione scientifica che ci dice che c’è una forte separazione tra società ed ecosistemi, che al massimo possono scontrarsi, come afferma la narrativa dell’antropocene. Storicizzare l’ambiente vuol dire innanzitutto evidenziare come l’ambiente si inserisca in tutte le dinamiche sociali».

Questa concezione di separazione si rifletteva anche nell’ambientalismo tradizionale: «è l’idea della wilderness, ovvero della natura selvaggia, nata in America, che cancellò la storia dei nativi. Storicizzare l’ambiente vuol dire non parlare più di natura selvaggia, ma vuol ecologizzare la società». Secondo Armiero è proprio ripensando al ruolo delle società umane all’interno della natura che riusciamo a cogliere le trasformazioni attuali: ricordiamoci ad esempio l’ambientalismo operaio delle lotte, che ha sempre saputo che la natura non è solo fuori ma anche nei corpi. Questo rimane la chiave per naturalizzare la storia, e per ricordarci che il presente è il frutto delle lotte del passato».

Alice Dal Gobbo, nel suo primo intervento, è partita da due assunti: da un lato la tendenza del capitale ad assorbire le istanze dei movimenti sociali (green washing, pink washing, raimbow washing, etc), come la stessa COP 26 ha dimostrato a proposito delle tassonomie e degli  standard di sostenibilità, dall’altro il modo in cui l’intersezionalità possa produrre innovazione e alternativa al di fuori del capitalismo.

Il primo punto ci parla della capacità del capitalismo di utilizzare gli stessi limiti del sistema per rilanciare i processi di produzione: «questo però avviene fino a un certo punto, perché appare sempre più chiaro che, non solo nella coscienza dei movimenti, ma anche a livello della società civile, si tratta di processi che non portano a cambiamenti reali». Anche nel piano strettamente legato al mercato finisce con il diventare qualcosa di elitario: è sulla larga scala che lo stesso concetto di “sostenibilità” e transizione energetica che viene venduto dal capitalismo come soluzione alla crisi climatica fallisce. «C’è una linea oltre cui non si può andare, perché nel momento in cui nel mercato capitalista introduco delle innovazioni, queste diventano escludenti se il cibo buono può comprarlo solo chi può permetterselo e gli altri devono andare al discount».

Di fronte a queste considerazioni, l’intersezionalità l’unico orizzonte possibile perché è l’unico in grado di leggere sul piano materiale la matrice dei diversi modi di oppressione che il capitalismo costantemente produce e riproduce.

Sempre sul tema del green washing  Simone Ogno analizza il ruolo degli istituti finanziari in questa fase di cambiamento  nella quale la crisi ecologica è diventata il più grande investimento su cui scommette la governance finanziaria globale.

Sul piano nazionale, un passaggio importante è avvenuto l’8 aprile 2020, giorno in cui con il “decreto liquidità” lo Stato italiano ha affidato la ripresa agli istituti di credito e ha modificato gli assetti di governance reintroducendo nella sfera pubblica la SACE, l'agenzia speciale per il credito all'esportazione italiana. Dalla SACE sono passati tutti i finanziamenti sia alle piccole e medie imprese sull’orlo del fallimento, sia alle grandi corporation.

Questo passaggio ha sbloccato una serie di grandi investimenti all’industria estrattiva, non solamente legate ai combustibili fossili, ma anche ad altri settori, come ha dimostrato il prestito di 6,3 miliardi di euro a FCA, garantito proprio da SACE e sostenuto da un pool di banche trainato da intesa UniCredit, Bpm e Montepaschi.

Questo processo è stato portato a compimento con il PNRR e uno dei grandi assi attorno al quale si sta giocando la partita a livello europeo – e a cascata su tutti gli Stati membri - riguarda la tassonomia (lo standard europeo che definisce gli investimenti “verdi”) e le ultime indicazioni date dal Consiglio d’Europa inseriscono gas e nucleare tra le “energie rinnovabili”. Questo aprirà una nuova fase, sia sul piano finanziario che politico, nella quale verranno spacciate riconversione ecologica iniziative che hanno un impatto sull’ambiente e sulla salute davvero altissimo.

Tutto questo esemplifica come «la transizione ricalca il modello economico estrattivista e neoliberista fatto di grandi opere inutili e devastanti, di foraggiamento ai grandi settori industriali e degli attori che da sempre sono protagonisti nel settore dei combustibili fossili» conclude Ogno.

Sempre in tema di relazioni tra governance economico-finanziaria e industria estrattiva, Alessandro Runci si concentra sul caso di ENI e su come la cosiddetta riconversione energetica abbia implicazioni dirette per il lavoro, in assenza di una visione che ancora porta avanti il ricatto tra salute e lavoro.

Storicamente ENI opera per accaparrarsi qualsiasi linea di finanziamento per tutti i suoi progetti estrattivi, in gran parte presenti all’estero, anche se nell’ultimo anno si è notata una grande attenzione per gli investimenti sul territorio nazionale. Quello su cui ENI ha puntato rispetto al PNRR è il settore dell’idrogeno e quello della termovalorizzazione dei rifiuti.

Dal punto di vista del rapporto “ambiente-salute-lavoro”, quello del petrolchimico è senza dubbio l’ambito di intervento di ENI più “delicato”, perché assorbe una massa di lavoratori molto più ampia rispetto alle altre attività. Ma è anche il settore al momento più critico perché maggiormente soggetto ad esternalizzazioni e delocalizzazioni, fatte per logiche esclusivamente economiche e non ambientali.

Come rompere il mito di «ENI buon datore di lavoro, che garantisce posti di lavoro sindacalizzati, sicuri e ben pagati?». Un equilibrio che si sta rompendo, non solo in Italia, e la cosa sta creando le premesse per alleanze inedite, come accaduto di recente in Francia con uno sciopero che ha visto uniti sindacati del settore e movimenti ambientalisti. «È importante intercettare fin da subito questa vulnerabilità enorme che si sta aprendo, all’interno della quale agire l’intreccio tra la giustizia climatica e la giustizia sociale».

Nel secondo intervento Runci si è focalizzato sulla riconversione e i suoi effetti nel “Sud del mondo”. Il focus è sempre ENI, che è un attore globale più che nazionale ed è – ad esempio – il primo produttore di petrolio e gas in Africa.

Tra i principali casi citati c’è il gasdotto EastMed che collega Israele alla Grecia passando per Cipro e avrà un prolungamento in Puglia, che oltre a ENI coinvolge anche Edison. Un progetto, quest’ultimo, che ha forti implicazioni geopolitiche che ci rimandano direttamente ai rapporti tra Italia ed Egitto.

C’è poi il caso del Mozambico, molto meno conosciuto della Nigeria, che è passato in breve tempo da essere un Paese libero da estrazioni a diventare un teatro di guerra e interessi economici legati alle risorse naturali tra i più cruenti.

In tutti questi casi si stanno creando ampi fronti di dissenso e di resistenza e una delle questioni prioritarie è creare collegamenti tra i movimenti climatici italiani ed europei con queste realtà locali, «andando oltre la mera logica della solidarietà, ma in ottica di reciprocità».

«ENI e SACE sono due pilastri della triangolazione tra finanza pubblica, finanza privata e multinazionali del fossile, a cui si unisce Intesa San Paolo. » riprende Simone Ogno. Per comprendere con un esempio concreto la “finzione” ecologica che si nasconde dietro la “transizione”, Ogno racconta come il governo italiano, per mano di SACE, abbia finanziato un mega progetto da 570 milioni di euro per lo sfruttamento di giacimenti nell’Artico russo proprio nei giorni della Cop 26 a Glasgow.

In generale, un aspetto che non viene mai preso in rilievo nel dibattito pubblico è l’approccio coloniale dell’industria estrattiva: un progetto impatta non solo il clima, ma le popolazioni e l’ecosistema dei luoghi. «Le popolazioni non possono più portare avanti il loro stile di vita o le loro economie su piccola scala, come accade ad esempio agli allevamenti di renne nella Penisola di Gyda, situata nell'artico siberiano occidentale che è una delle aree del mondo maggiormente investite da progetti di estrazione di gas e petrolio».

Un altro esempio fatto da Ogno riguarda l’oleodotto Eacop tra Uganda e Tanzania, l’oleodotto riscaldato più lungo del mondo causa di numerose migrazioni. Altro esempio riguarda il contesto mozambicano, dove le famiglie vengono allontanate dalle aree interessate dai progetti estrattivi sulla base di compensi economici che vengono accordati con i capi famiglia maschi e le prime persone che subiscono ripercussioni sono le figure femminili.

All’interno di questo processo in cui si riconosce chiaramente la contraddizione tra ambiente e vita, è re-intervenuto Marco Armiero «L’immanenza della questione climatica, che di solito si declina al futuro, la leggiamo nelle tante apocalissi che viviamo oggi ogni giorno, o in quelle del passato».  Il conflitto tra ambiente e vita, secondo Armiero, si può riassumere così: «affinché venga assicurato benessere alla comunità qualcuno deve pagare il conto, in genere chi è più marginalizzato».

La questione delle “zone di sacrificio” non è solo prendere di mira determinate comunità: «quello che succede nella narrazione del capitalismo neoliberista è che queste comunità diventano di sacrificio perché ontologicamente meritano di essere discarica ». Questo elemento si trova in modo molto chiaro in merito alla questione della salute, dove da tempo è emersa la narrativa tossica  che colpevolizza i comportamenti individuali, e che è emersa in tutta la vicenda del biocidio in Campania («se ti ammali è perché mangi male, non fai sport, fumi , “sei meridionale”»), ma anche lungo tutto il corso della crisi pandemica.

«Va fatta una battaglia sui mezzi di riproduzione delle narrative e non solo sui mezzi di riproduzione dei beni, perché fin quando la narrativa tossica è così forte da raccontare che corpi malati sono corpi inadatti sarà difficile fare emergere l’esperienza delle soggettività subalterne»

Armiero conclude citando Rebecca Solnit, che in un recente scritto ha contrapposto alla competizione capitalista, in cui «esiste un inferno costruito per garantire il paradiso,» un disaster communism nel quale le comunità si aiutano nei contesti di disastro, valorizzando i legami di solidarietà.

Il dibattito è stato concluso da Alice Dal Gobbo, che ha affrontato l’annosa questione di una economia del benessere come alternativa all’economia basata sulla crescita del PIL,

«Fino a qualche anno fa era necessario produrre una critica del benessere come PIL; questo sta cambiando (anche grazie alla crisi da Covid) perché questa “promessa” si sta sgretolando nella consapevolezza comune, perché è chiaro che gli investimenti sono sempre più per i “pochi”». Quello che manca è una narrazione alternativa a tutto questo, che prenda piede e spazio, e quindi si crea un momento di vuoto.

Quello che emerge è una richiesta di cose molto basilari della vita, ad esempio il diritto ad avere un cibo buono o in generale di una vita buona nei suoi aspetti più concreti e materiali. Alcuni degli aspetti su cui lavorare per ripensare un sistema oltre l’idea della crescita economica è la riappropriazione del tempo e della riproduzione della vita a livello molto basilare. «Oltre che a livello di immaginario bisogna lavorare sulle basi materiali della “vita buona” per tutti e tutte».