In un café di Belleville

Utente: Flavia
20 / 12 / 2010

Io il 14 dicembre non ero a Roma. E neanche a Bologna. Non ero in Italia. Assieme a me migliaia, ormai decine di migliaia di ragazze e ragazzi della generazione P. Faccio parte infatti dell'altra metà di quella piazza, la metà assente che ha scelto di non sopportare più la vita quotidiana in Italia. Credo che queste migliaia di giovani sparsi tra Barcellona, Berlino, Parigi, Londra, Amsterdam martedì scorso si siano sentiti a fianco delle altre migliaia che manifestavano attorno alla zona rossa di un potere sordo, arrogante, criminale.

Per me è stato così. Disilluso e con il privilegio di osservare quello che accade in Italia dall'esterno sapevo che il governo ce l'avrebbe fatta. Mai però avrei immaginato una reazione simile di fronte all'ennesimo atto di arroganza e umiliazione collettiva.

Dopo mesi lontano, avrei dato chissà cosa per essere solo un giorno a Roma. Martedì 14 dicembre.

Ora lavoro non lontano dal Boulevard passato alla storia per le foto del maggio 68 con le macchine capovolte e i mucchi di sanpietrini. Lo slogan al tempo era “Sotto il pavé, la spiaggia” a rivendicare, oltre ai diritti sanciti dal welfare state, il diritto al surplus, al loisir: non solo sanità, scuola e pensione, vogliamo anche le vacanze e qualche lusso.

Oggi tutto questo non c'è più. Chi paragonava quello che sta succedendo in questi mesi in tutta Europa (e sottolineo in Europa, perchè per la prima volta da anni una generazione intera si sta ribellando su scala continentale, chi continua a parlare solo di Italia non ha capito nulla) al 1848, coglie esattamente nel segno. Non si tratta oggi di allargare diritti acquisiti. Si tratta di ridefinire lo spazio per un conflitto possibile di fronte alla crisi storica della politica e del sindacalismo. Si tratta di reagire alla più feroce offensiva capitalista mai messa in atto nel vecchio continente da almeno un secolo.

Le politiche degli ultimi vent'anni hanno tolto letteralmente la possibilità di futuro a un'intera fascia di popolazione. In Italia, che come sempre si distingue in peggio, questo ha comportato da un lato l'esplosione della disoccupazione per chi ha meno di 29 anni non compensata da alcun ammortizzatore e dall'altro un nuovo flusso emigratorio.

Questa la vera violenza praticata ogni giorno sui nostri corpi. E ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria.

Per venire all'economia, unico parametro a cui prestano orecchio, la mia partenza costa all'Italia oltre 200 mila euro spesi in 25 anni di formazione dall'asilo al dottorato. Se moltiplichiamo questa cifra per il numero di dottori di ricerca italiani che ci son solo qui a Parigi, per non parlare degli USA, del Regno Unito, del Canada ecc, e li paragoniamo ai danni che Alemanno cita per gli scontri in via del Corso, i secondi diventano una cosa ridicola. Francia, Inghilterra, Germania & co. ringraziano sfregandosi le mani per questo dono, pur non riuscendo a capire come mai ce ne vogliamo venir via dal paese del sole.

Non considero la mia scelta né eroica, né vigliacca. Semplicemente una scelta per avere un'opportunità di futuro, altrimenti negato. Esattamente come chi era in piazza martedì 14. Non che non ci abbia provato in Italia, ma non è stato possibile. Titolo di studio troppo alto. Poca esperienza. Le solite cose che tutti conoscono.

Parlando della Francia ho sentito membri della generazione ipergarantita dei docenti universitari sessantenni italiani pronunciare sprezzanti: “Finchè possono permetterselo, lo stato sociale”. Noi invece buttiamo 200 mila euro senza farci troppi scrupoli.

Credo che il 14 dicembre qualcosa sia cambiato. E sono certo che non ero il solo a brindare quella sera in un café a Belleville.