Immagina che il reddito

Note a margine del “Manifesto del lavoro”, Libreria delle donne Milano

1 / 11 / 2009

Tra i cambiamenti che hanno segnato il passaggio dal capitalismo industriale-fordista a quello cognitivo-relazionale, un ruolo rilevante occupa il nuovo protagonismo femminile. Un vistoso processo di femminilizzazione del lavoro si è accompagnato alla marcata valorizzazione (in termini capitalistici) di quelle facoltà linguistico-relazionali, di attenzione e di cura che rappresentano un portato storico delle donne.

Nel corso dell’ultimo decennio le analisi sul tema sono state numerose, soprattutto all’interno della corrente di pensiero che si rifà all’esperienza dell’inchiesta di matrice operaista. Nella materialità delle esistenze al lavoro si rintraccia l’avvenuto superamento delle tradizionali dicotomie fordiste (produzione-riproduzione, tempo di lavoro-tempo di vita, lavoro manuale-lavoro intellettuale) e tutto ciò diviene il centro di nuove elaborazioni sulla composizione del lavoro vivo contemporaneo. L’abbattimento dei confini tra vita e lavoro, ovvero tra produzione e riproduzione, è oggi uno dei cardini su cui si fonda il meccanismo di valorizzazione (e quindi di sfruttamento) del capitalismo cognitivo-relazionale. Quest’ultimo si caratterizza per un’ambivalenza che va osservata in profondità. Nel momento in cui l’insieme delle facoltà umane (dal corpo al cervello passando per il cuore) divengono parte integrante del processo produttivo, si assiste anche a una crescente soggettivazione del lavoro, la cui percezione si moltiplica e si differenzia in modo esponenziale. Dietro la promessa salvifica dell’opportunità che individualità e “differenze” si possano esprimere in tutta la potenza creativa nell’atto del lavoro, si celano forme sofisticate di comando, di condizionamento sociale e gerarchico. Un lato oscuro su cui non è possibile sorvolare se si vuole evitare ogni sospetto di ideologismo. Un lato oscuro che può servire a spiegare anche i suicidi di France Télécom e la tristezza che, secondo inchieste recenti, sembrerebbe pervadere soprattutto le donne. La valorizzazione nel capitalismo cognitivo-relazionale, infatti, si manifesta tutta la sua efficacia proprio tramite un processo di espropriazione della cooperazione sociale, delle intelligenze e delle sensibilità coinvolte. E ciò diventa possibile perché le condizioni di ricattabilità a cui si è sottoposti nel mercato del lavoro sono sempre più marcate e violente. Il processo di precarizzazione strutturale del lavoro (che si trasforma in precarietà esistenziale) oltre alla divisione cognitiva e migrante del lavoro ne rappresentano i cardini principali.

Immagina che il lavoro, il nuovo numero di Sottosopra presentato recentemente in tutta Italia (in 24 città in contemporanea) dalla Libreria delle donne di Milano (un “Manifesto del lavoro” diretto sia alle donne che agli uomini) ha il pregio di mettere al centro il nuovo protagonismo femminile. Tuttavia tralascia il ruolo che precarietà e migrazione giocano sul mercato del lavoro contemporaneo. Privo di questi fattori, se il tema è il lavoro, l’esercizio risulta debole, disincarnato, senza i piedi piantati nella realtà, nelle esperienze reali, nelle condizioni reali del vivere. E’ davvero strana questa pretesa di illustrare (e trasformare) i fenomeni sociali senza far menzione degli stessi. Si può evitare di citare lo scambio che quotidianamente avviene, nelle case italiane, tra donne immigrate e donne autoctone, tra corpi che curano e corpi di cui avere cura, in un contesto di welfare familistico com’è quello imperante in Italia? Il processo di femminilizzazione del lavoro ha come corollario l’incremento della domanda di donne migranti chiamate a svolgere lavoro di cura, uno scambio che ha come oggetto, appunto, la riproduzione sociale: il lavoro di cura tradotto in elemento esplicitamente produttivo. Il lavoro femminile, sia cognitivo che di cura, tende ad assumere un carattere paradigmatico perché è soggetto a una precarietà tanto maggiore quanto più elevato è il livello d’istruzione.

Questi processi, infine, hanno modificato anche la forma della remunerazione del lavoro, aprendo una nuova contraddizione, la cui valenza non è stata ancora pienamente compresa. Se sempre più il lavoro di produzione tende a sussumere la vita stessa, sino ad abolire ogni separatezza, qual è la “giusta remunerazione” del lavoro? Essa dovrebbe coincidere addirittura con la remunerazione della vita, ovvero con un basic income o reddito d’esistenza. Secondo questa lettura, il basic income non è una misura assistenziale, di tipo redistributivo, ma remunerazione di un lavoro che produce valore per la società e che non viene certificato come tale. Quello che per secoli è capitato al lavoro di cura delle donne, diventa esperienza quotidiana di tutte/i le/gli stagisti, apprendisti, tirocinanti attempati, ricercatori senza contratto, badanti senza orario, cognitari speranzosi, d’Italia. In questo senso, il reddito d’esistenza è, cioè, variabile direttamente distributiva, esattamente come lo è il salario che si riferisce, però, al lavoro “certificato” dalle convenzioni sociali dominanti (e maschili). Inoltre, è proprio per uscire dal concetto del “valore lavoro” che pervade in modo soffocante il mondo contemporaneo e che traspone tutto in merce, per entrare davvero all’interno di una nuova dimensione - più consona ai tempi e ai desideri delle donne e degli uomini - che noi pensiamo qualcosa di molto diverso da quanto sostenuto da Laura Pennacchi in un articolo pubblicato il 23 ottobre scorso su Il Manifesto. Per sostenere l’ottica del documento della Libreria delle donne, Pennacchi non esita a dichiararsi paladina del “lavoro di cittadinanza”. Una semplice dichiarazione d’intenti, tra l’altro, soprattutto in tempi di crisi (dove lo troviamo tutto questo “lavoro di cittadinanza” mentre in Europa il tasso di disoccupazione arriva al 10%?). Riteniamo, all’opposto, che sia necessario l’avvio di una riflessione seria sul basic income proprio perché riteniamo obbligatorio uscire dalla falsa chimera del “lavoro di cittadinanza”. Se l’obiettivo enunciato dal numero di Sottosopra della Libreria delle donne è effettivamente quello di superare le categorie neoliberiste, la logica economica maschile che ha condizionato ogni sviluppo “diverso” della società, diventa allora imprescindibile dotarci di strumenti che restringano le sfere della creazione di valore in termini capitalistici e che favoriscano l’espansione delle creatività delle donne (e degli uomini) anche al di fuori della logica dello scambio economico tout court. Un reddito di esistenza per rafforzare le scelte delle donne, la loro possibilità di autodeterminazione, la loro capacità di negoziazione in un mercato del lavoro precarizzato, dando loro, concretamente “sicurezza”, consolidando possibilità di difesa, migliorando le condizioni materiali del vivere. Viceversa, in nome del “lavoro di cittadinanza”, buona parte della società, in primo luogo le donne continuerà a produrre “valore” gratuitamente, invisibilmente, priva della possibilità effettiva di uno “scarto”, di un’alternativa. Solo attraverso il riconoscimento di tutte le contraddizioni soggettive oggi rappresentate dalla condizione lavorativa femminile, è possibile pensare non solo una teoria economica differente ma anche un percorso di liberazione per tutti, uomini o donne che si sia.