Il Trattato Transatlantico, elaborato in sordina dal gotha delle imprese trasnazionali come integrazione agli accordi GATT, pronto per essere ratificato dai singoli stati, ha subito una battuta d'arresto con uno slittamento di 6 mesi. Una postposizione utile per tutti, anche per i movimenti, per approfondirne i contenuti ed approntare una campagna all'altezza del problema. Dopo l'articolo di Mario Pianta e il dossier di Sbilanciamoci, sul tema presentiamo questo intervento.
Il trattato transatlantico
Un uragano minaccia gli europei
di Lori Wallach* da Le Monde Diplomatique
Avviati nel 2008, i negoziati sull’accordo di libero scambio tra Canada e Unione europea sono terminati il 18 ottobre. Un buon segnale per il governo statunitense, che spera di concludere con il Vecchio continente una partnership di questo tipo. Negoziato in segreto, tale progetto fortemente sostenuto dalle multinazionali permetterebbe loro di citare in giudizio gli stati che non si piegano alle leggi del liberismo
Possiamo immaginare delle multinazionali trascinare in giudizio i governi i
cui orientamenti politici avessero come effetto la diminuzione dei loro
profitti? Si può concepire il fatto che queste possano reclamare – e ottenere!
– una generosa compensazione per il mancato guadagno indotto da un diritto del
lavoro troppo vincolante o da una legislazione ambientale troppo rigorosa? Per
quanto inverosimile possa apparire, questo scenario non risale a ieri. Esso
compariva già a chiare lettere nel progetto di accordo multilaterale sugli
investimenti (Mai) negoziato segretamente tra il 1995 e il 1997 dai ventinove
stati membri dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico
(Ocse) (1).
Divulgato in extremis, in particolare da Le Monde diplomatique, il documento
sollevò un’ondata di proteste senza precedenti, costringendo i suoi promotori
ad accantonarlo. Quindici anni più tardi, essa fa il suo ritorno sotto nuove
sembianze. L’accordo di partenariato transatlantico (Ttip) negoziato a partire
dal luglio 2013 tra Stati uniti e Unione europea è una versione modificata del
Mai. Esso prevede che le legislazioni in vigore sulle due coste dell’Atlantico
si pieghino alle regole del libero scambio stabilite da e per le grandi aziende
europee e statunitensi, sotto pena di sanzioni commerciali per il paese
trasgressore, o di una riparazione di diversi milioni di euro a favore dei
querelanti.
Secondo il calendario ufficiale, i negoziati non dovrebbero concludersi che
entro due anni. Il Ttip unisce aggravandoli gli elementi più nefasti degli
accordi conclusi in passato. Se dovesse entrare in vigore, i privilegi delle
multinazionali avrebbero forza di legge e legherebbero completamente le mani
dei governanti. Impermeabile alle alternanze politiche e alle mobilitazioni
popolari, esso si applicherebbe per amore o per forza poiché le sue
disposizioni potrebbero essere emendate solo con il consenso unanime di tutti i
paesi firmatari. Ciò riprodurrebbe in Europa lo spirito e le modalità del suo
modello asiatico, l’Accordo di partenariato transpacifico (Trans-pacific
partnership, Tpp), attualmente in corso di adozione in dodici paesi dopo essere
stato fortemente promosso dagli ambienti d’affari.
Insieme, il Ttip e il Tpp formerebbero un impero economico capace di dettare le
proprie condizioni al di fuori delle sue frontiere: qualunque paese cercasse di
tessere relazioni commerciali con gli Stati uniti e l’Unione europea si
troverebbe costretto ad adottare tali e quali le regole vigenti all’interno del
loro mercato comune.
Tribunali appositamente creati
Dato che mirano a liquidare interi compartimenti del settore non mercantile, i
negoziati intorno al Ttip e al Tpp si svolgono a porte chiuse. Le delegazioni
statunitensi contano più di seicento consulenti delegati dalle multinazionali,
che dispongono di un accesso illimitato ai documenti preparatori e ai rappresentanti
dell’amministrazione. Nulla deve sfuggire. Sono state date istruzioni di
lasciare giornalisti e cittadini ai margini delle discussioni: essi saranno
informati in tempo utile, alla firma del trattato, quando sarà troppo tardi per
reagire. In uno slancio di candore, l’ex ministro del commercio statunitense
Ronald («Ron») Kirk ha fatto valere l’interesse «pratico» di «mantenere un
certo grado di discrezione di confidenzialità (2)». Ha
sottolineato che l’ultima volta che la bozza di un accordo in corso di
formalizzazione è stata resa pubblica, i negoziati sono falliti – un’allusione
alla Zona di libero scambio delle Americhe (Ftaa), versione estesa dell’Accordo
di libero scambio nordamericano (Nafta). Il progetto, difeso accanitamente da
George W. Bush, fu svelato sul sito internet dell’amministrazione nel 2001. A
Kirk, la senatrice Elizabeth Warren ribatte che un accordo negoziato senza
alcun esame democratico non dovrebbe mai essere firmato (3).
L’imperiosa volontà di sottrarre il cantiere del trattato statunitense-europeo
all’attenzione del pubblico si comprende facilmente. Meglio prendere tempo
prima di annunciare al paese gli effetti che esso produrrà a tutti i livelli:
dal vertice dello Stato federale fino ai consigli municipali passando per i governatorati
e le assemblee locali, gli eletti dovranno ridefinire da cima a fondo le loro
politiche pubbliche per soddisfare gli appetiti del privato nei settori che in
parte gli sfuggono ancora. Sicurezza degli alimenti, norme sulla tossicità,
assicurazione sanitaria, prezzo dei medicinali, libertà della rete, protezione
della privacy, energia, cultura, diritti d’autore, risorse naturali, formazione
professionale, strutture pubbliche, immigrazione: non c’è una sfera di
interesse generale che non passerà sotto le forche caudine del libero scambio
istituzionalizzato. L’azione politica degli eletti si limiterà a negoziare
presso le aziende o i loro mandatari locali le briciole di sovranità che questi
vorranno concedere loro. È già stipulato che i paesi firmatari assicureranno la
«messa in conformità delle loro leggi, dei loro regolamenti e delle loro
procedure» con le disposizioni del trattato. Non vi è dubbio che essi
vigileranno scrupolosamente per onorare tale impegno. In caso contrario,
potranno essere l’oggetto di denunce davanti a uno dei tribunali appositamente
creati per arbitrare i litigi tra investitori e Stati, e dotati del potere di
emettere sanzioni commerciali contro questi ultimi.
L’idea può sembrare inverosimile: si inscrive tuttavia nella filosofia dei
trattati commerciali già in vigore. Lo scorso anno, l’Organizzazione mondiale
del commercio (Wto), ha condannato gli Stati uniti per le loro scatole di tonno
etichettate «senza pericolo per i delfini», per l’indicazione del paese
d’origine sulle carni importate, e ancora per il divieto del tabacco
aromatizzato alla caramella, dal momento che tali misure di tutela sono state
considerate degli ostacoli al libero scambio. Il Wto ha inflitto anche
all’Unione europea delle penalità di diverse centinaia di milioni di euro per
il suo rifiuto di importare organismi geneticamente modificati (Ogm).
La novità introdotta dal Ttip e dal Tpp consiste nel permettere alle
multinazionali di denunciare a loro nome un paese firmatario la cui politica
avrebbe un effetto restrittivo sulla loro vitalità commerciale. Sotto un tale
regime, le aziende sarebbero in grado di opporsi alle politiche sanitarie, di
protezione dell’ambiente e di regolamentazione della finanza attivate in questo
o quel paese reclamando danni e interessi davanti a tribunali extragiudiziari.
Composte da tre avvocati d’affari, queste corti speciali rispondenti alle leggi
della Banca mondiale e dell’Organizzazione delle Nazioni unite (Onu) sarebbero
abilitate a condannare il contribuente a pesanti riparazioni qualora la sua
legislazione riducesse i «futuri profitti sperati» di una società. Questo
sistema «investitore contro stato», che sembrava essere stato cancellato dopo
l’abbandono del Mai nel 1998, è stato restaurato di soppiatto nel corso degli anni.
In virtù di numerosi accordi commerciali firmati da Washington, 400 milioni di
dollari sono passati dalle tasche del contribuente a quelle delle
multinazionali a causa del divieto di prodotti tossici, delle normative
sull’utilizzo dell’acqua, del suolo o del legname ecc. (4).
Sotto l’egida di questi stessi trattati, le procedure attualmente in corso –
nelle questioni di interesse generale come i brevetti medici, la lotta
all’inquinamento e le leggi sul clima e sulle energie fossili – fanno schizzare
le richieste di danni e interessi a 14 miliardi di dollari. Il Ttip
aggraverebbe ulteriormente il peso di questa estorsione legalizzata, tenuto
conto degli interessi in gioco nel commercio transatlantico. Sul suolo
statunitense sono presenti tremilatrecento aziende europee con ventiquattromila
filiali, ciascuna delle quali può ritenere di avere buone ragioni per chiedere,
un giorno o l’altro, riparazione per un pregiudizio commerciale. Un tale
effetto a cascata supererebbe di gran lunga i costi causati dai trattati
precedenti. Dal canto loro, i paesi membri dell’Unione europea si vedrebbero
esposti a un rischio finanziario ancora più grande, sapendo che 14.400
compagnie statunitensi dispongono in Europa di una rete di 50.800 filiali. In
totale, sono 75.000 le società che potrebbero gettarsi nella caccia ai tesori
pubblici.
Ufficialmente, questo regime doveva servire inizialmente a consolidare la
posizione degli investitori nei paesi in via di sviluppo sprovvisti di un
sistema giuridico affidabile; esso avrebbe permesso di fare valere i loro
diritti in caso di esproprio. Ma l’Unione europea e gli Stati uniti non sono
esattamente delle zone di non-diritto; al contrario, dispongono di una
giustizia funzionale e pienamente rispettosa del diritto di proprietà. Ponendoli
malgrado tutto sotto la tutela di tribunali speciali, il Ttip dimostra che il
suo obiettivo non è quello di proteggere gli investitori ma di aumentare il
potere delle multinazionali.
Processo per aumento del salario minimo
Ovviamente gli avvocati che compongono questi tribunali non devono rendere
conto a nessun elettorato. Invertendo allegramente i ruoli, possono sia fungere
da giudici che perorare la causa dei loro potenti clienti (5).
Quello dei giuristi degli investimenti internazionali è un piccolo mondo: sono
solo quindici a dividersi il 55% delle questioni trattate fino a oggi.
Evidentemente, le loro decisioni sono inappellabili. I «diritti» che essi hanno
il compito di proteggere sono formulati in modo deliberatamente approssimativo,
e la loro interpretazione raramente tutela gli interessi della maggioranza.
Come quello accordato all’investitore di beneficiare di un quadro normativo
conforme alle sue «previsioni» – per il quale va inteso che il governo si
vieterà di modificare la propria politica una volta che l’investimento ha avuto
luogo. Quanto al diritto di ottenere una compensazione in caso di
«espropriazione indiretta», ciò significa che i poteri pubblici dovranno
mettere mano al portafoglio se la loro legislazione ha per effetto la riduzione
del valore di un investimento, anche quando questa stessa legislazione si
applica alle aziende locali.
I tribunali riconoscono anche il diritto del capitale ad acquistare sempre più
terre, risorse naturali, strutture, fabbriche, ecc. Non vi è nessuna
contropartita da parte delle multinazionali: queste non hanno alcun obbligo
verso gli Stati e possono avviare delle cause dove e quando preferiscono.
Alcuni investitori hanno una concezione molto estesa dei loro diritti
inalienabili. Si è potuto recentemente vedere società europee avviare cause
contro l’aumento del salario minimo in Egitto o contro la limitazioni delle
emissioni tossiche in Perú, dato che il Nafta serve in quest’ultimo caso a
proteggere il diritto a inquinare del gruppo statunitense Renco (6).
Un altro esempio: il gigante delle sigarette Philip Morris, contrariato dalla
legislazione antitabacco dell’Uruguay e dell’Australia, ha portato i due paesi
davanti a un tribunale speciale. Il gruppo farmaceutico americano Eli Lilly
intende farsi giustizia contro il Canada, colpevole di avere posto in essere un
sistema di brevetti che rende alcuni medicinali più accessibili. Il fornitore
svedese di elettricità Vattenfall esige diversi miliardi di euro dalla Germania
per la sua «svolta energetica», che norma più severamente le centrali a carbone
e promette un’uscita dal nucleare.
Non ci sono limiti alle pene che un tribunale può infliggere a uno Stato a
beneficio di una multinazionale. Un anno fa, l’Ecuador si è visto condannato a
versare la somma record di 2 miliardi di euro a una compagnia petrolifera (7). Anche quando i governi vincono il processo, essi devono farsi
carico delle spese giudiziarie e di varie commissioni che ammontano mediamente
a 8 milioni di dollari per caso, dilapidati a discapito del cittadino.
Calcolando ciò, i poteri pubblici preferiscono spesso negoziare con il
querelante piuttosto che perorare la propria causa davanti al tribunale. Lo
stato canadese si è così risparmiato una convocazione alla sbarra abrogando
velocemente il divieto di un additivo tossico utilizzato dall’industria
petrolifera.
Eppure, i reclami continuano a crescere. Secondo la Conferenza delle Nazioni
unite sul commercio e lo sviluppo (Unctad), a partire dal 2000 il numero di
questioni sottoposte ai tribunali speciali è decuplicato. Se il sistema di
arbitraggio commerciale è stato concepito negli anni ’50, non ha mai servito
gli interessi privati quanto a partire dal 2012, anno eccezionale in termini di
depositi di pratiche. Questo boom ha creato un fiorente vivaio di consulenti
finanziari e avvocati d’affari. Il progetto di un grande mercato
americano-europeo è sostenuto da lungo tempo da Dialogo economico
transatlantico (Trans-atlantic business dialogue, Tabd), una lobby meglio
conosciuta con il nome di Trans-atlantic business council (Tabc). Creata nel
1995 con il patrocinio della Commissione europea e del ministero del commercio
americano, questo raggruppamento di ricchi imprenditori è impegnato per un
«dialogo» altamente costruttivo tra le élite economiche dei due continenti,
l’amministrazione di Washington e i commissari di Bruxelles. Il Tabc è un forum
permanente che permette alle multinazionali di coordinare i loro attacchi
contro le politiche di interesse generale che restano ancora in piedi sulle due
coste dell’Atlantico. Il suo obiettivo, pubblicamente dichiarato, è di
eliminare quelle che definisce come «discordie commerciali» (trade irritants),
vale a dire di operare sui due continenti secondo le stesse regole e senza
interferenze da parte dei poteri pubblici.
«Convergenza regolativa» e «riconoscimento reciproco» fanno parte dei quadri
semantici che Tabc brandisce per incitare i governi ad autorizzare i prodotti e
i servizi che trasgrediscono le legislazioni locali. Ma invece di auspicare un
semplice ammorbidimento delle leggi esistenti, gli attivisti del mercato
transatlantico si propongono senza mezzi termini di riscriverle loro stessi. La
Camera americana di commercio e BusinessEurope, due tra le più grandi
organizzazioni imprenditoriali del pianeta, hanno richiesto ai negoziatori del
Ttip di riunire attorno a un tavolo di lavoro un campionario di grossi
azionisti e di responsabili politici affinché questi «redigano insieme i testi
di regolamentazione» che avranno successivamente forza di legge negli Stati
uniti e in Unione europea. C’è da chiedersi, del resto, se la presenza dei
politici in questo laboratorio di scrittura commerciale sia veramente
indispensabile…
Di fatto, le multinazionali mostrano una notevole franchezza nell’esporre le
loro intenzioni. Sulla questione degli Ogm, ad esempio. Mentre negli Stati
uniti uno stato su due pensa di rendere obbligatoria un’etichetta indicante la
presenza di organismi geneticamente modificati in un alimento – misura
auspicata dall’80% dei consumatori del paese –, gli industriali del settore
agroalimentare, là come in Europa, spingono per l’interdizione di questo tipo
di etichettatura. L’Associazione nazionale dei confettieri non usa mezzi
termini: «L’industria statunitense vorrebbe che il Ttip progredisse su tale
questione sopprimendo l’etichettatura Ogm e le norme relative alla
tracciabilità». L’influente Associazione dell’industria biotecnologica
(Biotechnology industry organization, Bio), di cui fa parte il colosso
Monsanto, dal canto suo si indigna perché alcuni prodotti contenenti Ogm e
venduti negli Stati uniti possano subire un rifiuto sul mercato europeo. Essa
desidera di conseguenza che il «baratro che si è scavato tra la
deregolamentazione dei nuovi prodotti biotecnologici negli Stati uniti e la loro
accoglienza in Europa» sia presto colmato (8). Monsanto e i suoi
amici non nascondono la speranza che la zona di libero scambio transatlantico
permetta di imporre agli europei il loro «catalogo ricco di prodotti Ogm in
attesa di approvazione e di utilizzo (9)».
Le rivelazioni sul Datagate
L’offensiva non è meno vigorosa sul fronte della privacy. La Coalizione del
commercio digitale (Digital Trade Coalition, Dtc), che raggruppa industriali
del Net e del hi-tech, preme sui negoziatori del Ttip per togliere le barriere
che impediscono ai flussi di dati personali di riversarsi liberamente
dall’Europa verso gli Stati uniti (si legga l’articolo a pagina 20). I lobbisti
si spazientiscono: «L’attuale punto di vista dell’Unione, secondo cui gli Stati
uniti non forniscono una protezione “adeguata” della privacy, non è
ragionevole».
Alla luce delle rivelazioni di Edward Snowden sul sistema di spionaggio
dell’Agenzia nazionale di sicurezza (National security agency, Nsa), tale
opinione risoluta è certo interessante. Tuttavia, non eguaglia la dichiarazione
dell’Us council for international business (Uscib), un gruppo di società che,
seguendo l’esempio di Verizon, ha massicciamente rifornito la Nsa di dati
personali: «L’accordo dovrebbe cercare di circoscrivere le eccezioni, come la
sicurezza e la privacy, al fine di assicurarsi che esse non siano ostacoli
cammuffati al commercio».
Anche le norme sulla qualità nell’alimentazione sono prese di mira. L’industria
statunitense della carne vuole ottenere la soppressione della regola europea
che vieta i polli disinfettati al cloro. All’avanguardia di questa battaglia,
il gruppo Yum!, proprietario della catena di fast food Kentucky fried chicken
(Kfc), può contare sulla forza d’urto delle organizzazioni imprenditoriali. L’Associazione
nordamericana della carne protesta: «L’Unione autorizza soltanto l’uso di acqua
e vapore sulle carcasse». Un altro gruppo di pressione, l’Istituto americano
della carne, deplora «il rifiuto ingiustificato [da parte di Bruxelles] delle
carni addizionate di beta-agonisti, come il cloridrato di ractopamina». La
ractopamina è un medicinale utilizzato per gonfiare il tasso di carne magra di
suini e bovini. A causa dei rischi per la salute degli animali e dei
consumatori, è stata bandita in centosessanta paesi, tra cui gli stati membri
dell’Unione, la Russia e la Cina. Per la filiera statunitense del suino, tale
misura di protezione costituisce una distorsione della libera concorrenza a cui
il Ttip deve urgentemente porre fine. Il Consiglio nazionale dei produttori di
suino (National pork producers council, Nppc) minaccia: «I produttori americani
di carne di suino non accetteranno altro risultato che non sia la rimozione del
divieto europeo della ractopamina».
Nel frattempo, dall’altra parte dell’Atlantico, gli industriali raggruppati in
BusinessEurope, denunciano le «barriere che colpiscono le esportazioni europee
verso gli Stati uniti, come la legge americana sulla sicurezza alimentare». Dal
2011, essa autorizza infatti i servizi di controllo a ritirare dal mercato i
prodotti d’importazione contaminati. Anche in questo caso, i negoziatori del
Ttip sono pregati di fare tabula rasa. Si ripete lo stesso con i gas a effetto
serra. L’organizzazione Airlines for America (A4A), braccio armato dei
trasportatori aerei statunitensi, ha steso una lista di «regolamenti inutili
che portano un pregiudizio considerevole alla [loro] industria» e che il Ttip,
ovviamente, ha la missione di cancellare. Al primo posto di questa lista
compare il sistema europeo di scambio di quote di emissioni, che obbliga le
compagnie aeree a pagare per il loro inquinamento a carbone. Bruxelles ha
provvisoriamente sospeso questo programma; A4A esige la sua soppressione
definitiva in nome del «progresso».
Ma è nel settore della finanza che la crociata dei mercati è più virulenta,
Cinque anni dopo l’esplosione della crisi dei subprime, i negoziatori americani
ed europei si sono trovati d’accordo sul fatto che le velleità di
regolamentazione dell’industria finanziaria avevano fatto il loro tempo. Il
quadro che essi vogliono delineare prevede di levare tutti i paletti in materia
di investimenti a rischio e di impedire ai governi di controllare il volume, la
natura e l’origine dei prodotti finanziari messi sul mercato. Insomma si tratta
puramente e semplicemente di cancellare la parola «regolamentazione».
Da dove viene questo stravagante ritorno alle vecchie idee thatcheriane? Esso
risponde in particolare ai desideri dell’Associazione delle banche tedesche,
che non manca di esprimere le sue «inquietudini» a proposito della tuttavia
timida riforma di Wall street adottata all’indomani della crisi del 2008. Uno
dei suoi membri più intraprendenti sul tema è la Deutsche bank, che ha tuttavia
ricevuto nel 2009 centinaia di miliardi di dollari dalla Federal reserve
statunitense in cambio di titoli addossati a crediti ipotecari (10).
Il mastodonte tedesco vuole farla finita con la regolamentazione Volcker,
chiave di volta della riforma di Wall street, che a suo avviso sovraccarica un
«peso troppo grave sulle banche non statunitensi». Insurance Europe, punta di
lancia delle società assicurative europee, dal canto suo auspica che il Ttip
«sopprima» le garanzie collaterali che dissuadono il settore dall’avventurarsi
negli investimenti ad alto rischio. Quanto al Forum dei servizi europei
(l’organizzazione padronale di cui fa parte la Deutsche bank), questi si agita
dietro le quinte delle trattative transatlantiche affinché le autorità di
controllo statunitensi cessino di ficcare il naso negli affari delle grandi
banche straniere operanti sul loro territorio.
Da parte degli Usa, si spera soprattutto che il Ttip affossi davvero il
progetto europeo di tassare le transazioni finanziarie. La questione pare
essere già intesa, dal momento che la stessa Commissione europea ha giudicato
tale tassa non conforme alle regole del Wto (11). Nella misura
in cui la zona di libero scambio transatlantica promette un liberismo ancora
più sfrenato di quello del Wto, e dato che il Fondo monetario internazionale
(Fmi) si oppone a qualunque forma di controllo sui movimenti di capitali, negli
Stati uniti la debole «Tobin tax» non preoccupa più nessuno.
Ma le sirene della deregolamentazione non si fanno ascoltare solo
nell’industria finanziaria. Il Ttip intende aprire alla concorrenza tutti i
settori «invisibili» e di interesse generale. Gli stati firmatari si vedranno
costretti non soltanto a sottomettere i loro servizi pubblici alla logica del
mercato, ma anche a rinunciare a qualunque intervento sui fornitori stranieri
di servizi che ambiscono ai loro mercati. I margini politici di manovra in
materia di sanità, energia, educazione, acqua e trasporti si ridurrebbero
progressivamente.
La febbre commerciale non risparmia nemmeno l’immigrazione, poiché gli
istigatori del Ttip si arrogano il potere di stabilire una politica comune alle
frontiere – senza dubbio per facilitare l’ingresso di un bene o un servizio da
vendere, a svantaggio degli altri.
Da qualche mese si è intensificato il ritmo dei negoziati. A Washington, si
hanno buone ragioni di credere che i dirigenti europei siano pronti a qualunque
cosa per ravvivare una crescita economica moribonda, anche a costo di rinnegare
il loro patto sociale. L’argomento dei promotori del Ttip, secondo cui il
libero scambio deregolamentato faciliterebbe i commerci e sarebbe dunque
creatore di impieghi, apparentemente ha maggior peso del timore di uno scisma
sociale. Le barriere doganali che sussistono ancora tra l’Europa e gli Stati
uniti sono tuttavia già «abbastanza basse», come riconosce il rappresentante
statunitense al commercio (12). I fautori del Ttip ammettono
che il loro principale obiettivo non è quello di alleggerire i vincoli
doganali, comunque insignificanti, ma di imporre «l’eliminazione, la riduzione
e la prevenzione di politiche nazionali superflue (13)», dal
momento che viene considerato «superfluo» tutto ciò che rallenta la
circolazione delle merci, come la regolazione della finanza, la lotta contro il
riscaldamento climatico o l’esercizio della democrazia. In realtà i rari studi
dedicati alle conseguenze del Ttip non si attardano per nulla sulle sue
ricadute sociali ed economiche.
Un rapporto frequentemente citato, proveniente dal Centro europeo di economia
politica internazionale (European centre for international political economy,
Ecipe), afferma con l’autorevolezza di un Nostradamus da scuola commerciale che
il Ttip darà alla popolazione del mercato transatlantico un aumento di
ricchezza di 3 centesimi pro-capite al giorno… a partire dal 2029 (14). A dispetto del suo ottimismo, lo stesso studio valuta ad appena
0,06% l’aumento del prodotto interno lordo (Pil) in Europa e negli Stati uniti
in seguito all’entrata in vigore del Ttip. Ancora, un tale «impatto» è
decisamente non realistico dato che i suoi autori postulano che il libero
scambio «dinamizza» la crescita economica: una teoria regolarmente confutata
dai fatti. Un aumento così infinitesimale sarebbe d’altronde impercettibile. A
titolo di paragone, la quinta versione dell’iPhone di Apple ha generato negli
Stati uniti una crescita del Pil otto volte più importante.
Pressoché tutti gli studi sul Ttip sono stati finanziati da istituzioni
favorevoli al libero scambio o da organizzazioni imprenditoriali, ragione per
cui i costi sociali del trattato non appaiono mai, così come le sue vittime
dirette, che potrebbero tuttavia ammontare a centinaia di milioni. Ma i giochi
non sono ancora conclusi. Come hanno mostrato le disavventure del Mai, del Ftaa
e alcuni cicli di negoziati del Wto, l’utilizzo del «commercio» come cavallo di
Troia per smantellare le protezioni sociali e instaurare una giunta di
incaricati d’affari in passato ha fallito a più riprese. Nulla ci dice che non
possa succedere la stessa cosa anche questa volta.
* Direttrice del Public Citizen’s Global Trade Watch, Washington, DC, www.citizen.org.
note:
(1) Si legga « Il nuovo manifesto del capitalismo mondiale », Le Monde
diplomatique/il manifesto, febbraio 1998. (2) «Some secrecy needed in trade talks : Ron Kirk», Reuters, 13 maggio
2012.
(3) Zach Carter, «Elizabeth Warren opposing Obama trade nominee Michael
Froman», 19 giugno 2013, Huffingtonpost.com
(4) «Table of foreign investor-state cases and claims under Nafta and other Us
«trade» deals», Public Citizen, agosto 2013, www.citizen.org
(5) Andrew Martin, «Treaty disputes roiled by bias charges», 10 luglio 2013,
Bloomberg.com
(6) «Renco uses Us-Peru Fta to evade justice for La Oroya pollution», Public
Citizen, 28 novembre 2012. (7) «Ecuador
to fight oil dispute fine», Agence France-Presse, 13 ottobre 2012.
(8) Commenti all’accordo di partenariato transatlantico, documento del Bio,
Washington, DC, mai 2013. (9) «Eu-Us high level working group on jobs and growth. Response to
consultation by EuropaBio and Bio», http://ec.europa.eu.
(10) Shahien Nasiripour, «Fed opens books, revealing European megabanks were
biggest beneficiaries», 10 gennaio 2012, Huffingtonpost.com.
(11) «Europe admits speculation taxes a Wto problem», Public Citizen, 30 aprile
2010. (12)
Messaggio di Demetrios Marantis, rappresentante americano al commercio, a John
Boehner, portavoce repubblicano alla Camera dei rappresentanti, Washington, DC,
20 marzo 2013, http://ec.europa.eu. (13) «Final report. High level working group on jobs and growth», 11
febbraio 2013, http://ec.europa.eu. (14)
«Tafta’s trade benefit: A candy bar», Public Citizen, 11 luglio 2013.
(Traduzione di Al. Ma.)