Il sogno dell’integrazione genera mostri

4 / 1 / 2019

I flussi migratori resteranno tema di scottante attualità nell'anno appena iniziato, e di conseguenza il dibattito sull’accoglienza e sui modi con cui viene praticato l'incontro con lo straniero che giunge sul territorio. L'incessante fiume di persone in viaggio da est e da sud verso la vecchia Europa non sarà fermato né dalle barriere di Orban né tantomeno dalla “Legge Salvini”, così come “the wall” minacciato da Trump non interrompe la pressione sul confine Sud degli Usa. Il fenomeno migratorio va dunque assunto come nodo di fase, e lo sbocco di ogni discussione in merito non può che essere «che fare?» con le persone con le quali ci troveremo - ci stiamo già trovando- a vivere fianco a fianco. Porsi la questione dell'accoglienza al tempo delle leggi razziste che scuotono il Vecchio Mondo può portare ad abbagli colossali. Il caso raccontato da Enrico Gargiulo su lavoroculturale.org è emblematico di un approccio totalmente sbagliato alla relazione tra “noi autoctoni” e “loro migranti”: la riedizione del mito del buon selvaggio, forza lavoro informe cui inculcare la nostra civilizzazione, attraverso una prassi di colonizzazione culturale.

Il sogno dell’integrazione genera mostri. 

Ossia, quando l’alternativa al salvinismo è una distopia “democratica”: reagire alla norma sulla sicurezza voluta da Salvini rilanciando unidea impositiva di integrazione, anziché criticando alla radice questa nozione, significa condividere lo stesso quadro di riferimento dellattuale governo, al punto da legittimare una visione disciplinante e paternalistica del trattamento riservato ai richiedenti asilo

Il Decreto Salvini su Sicurezza e immigrazione, emanato il 4 ottobre del 2018, è stato convertito in legge il 27 novembre. La norma, voluta dall’attuale ministro dell’interno e sostanzialmente accettata – con ambivalenti riserve – anche dalla parte “gialla” della maggioranza parlamentare, introduce pesanti restrizioni alle condizioni delle persone straniere che fanno ingresso in Italia o che già vi risiedono.

L’iniziativa di Salvini presenta elementi di novità ma anche evidenti punti di continuità rispetto alla normativa precedente, e ha suscitato reazioni molto diverse nel mondo della politica e in quello dell’associazionismo. In alcuni casi, il dispositivo ha indotto partiti e attori della società civile a mettere in campo pratiche e visioni rappresentate come radicalmente alternative.

Nella Bergamo amministrata dal centro-sinistra, all’attacco ai diritti portato avanti dal ministro leghista è stato contrapposto un “esperimento” di inclusione delle persone straniere che vede la collaborazione delle istituzioni politiche locali (il comune), del terzo settore (Caritas e la cooperativa Ruash) e dell’imprenditoria (Confindustria). Il sindaco della città lombarda, Giorgio Gori – un passato da giornalista, produttore di programmi di intrattenimento e comunicatore per Matteo Renzi –, ha promosso, di concerto con gli attori del privato, for profit e no profit, un progetto denominato “Accademia dell’integrazione”, riservato ai richiedenti asilo.

La proposta è stata ripresa da diversi quotidiani, con toni spesso entusiastici[1]. Il programma televisivo Le Iene l’ha raccontata in maniera dettagliata, lanciando una petizione su Change.org per sostenere un emendamento al Decreto Salvini presentato, in quegli stessi giorni, dall’Associazione nazionale comuni italiani. L’Anci, nello specifico, riprendendo un’idea del comune di Bergamo – introdurre un permesso di soggiorno di tipo “premiale” destinato a chi ha un certificato A2 di italiano, ha effettuato almeno cento ore di volontariato e sta svolgendo un tirocinio o sta lavorando – ha provato, senza successo, a emendare il Decreto sicurezza inserendo questo nuovo status giuridico. Esponenti del mondo accademico, peraltro, hanno fornito il proprio sostegno all’emendamento.

A seguito dell’iniziativa di Salvini, insomma, ha preso forma una sorta di polarizzazione tra posizioni alternative che vede contrapporsi, da un lato, i difensori di una norma regressiva e discriminatoria e, dall’altro lato, i fautori di un’integrazione virtuosa ed effettiva. Si tratta però di un contrasto apparente, dato che le parti in campo, in realtà, non sono così distanti tra loro.

Per effetto di questa falsa contrapposizione, lo spazio per proposte alternative e, soprattutto, per la critica radicale al concetto di integrazione e alle politiche migratorie che, negli ultimi vent’anni, sono state portate avanti da governi tanto di centro-destra quanto di centro-sinistra sembra essersi chiuso, almeno al livello dei media mainstream e del dibattito politico. Immaginare il rapporto tra persone italiane e straniere al di fuori di una visione che considera gli individui del tutto guidati dalle loro appartenenze culturali e che rappresenta queste appartenenze come rigide, immutabili e chiaramente ordinate in maniera gerarchica – alcune “identità culturali” sono superiori mentre altre sono inferiori – sembra essere quantomai difficile. In altre parole, guardare alle relazioni tra persone di diversa provenienza in termini materiali e non soltanto culturali, considerando quindi il ruolo giocato dalle disuguaglianze economiche, dalle asimmetrie di potere, dal mancato accesso ai servizi, dalla segregazione occupazionale (ecc.) nel determinare o meno la cosiddetta “inclusione”, appare quasi eretico nel dibattito pubblico odierno.

Prima di analizzare in dettaglio questa falsa polarizzazione e il suo significato, è opportuno soffermarsi sulla proposta emersa a Bergamo, sintetizzandone i contenuti principali. L’Accademia si presenta come un “progetto sperimentale di accoglienza attiva”, basato sull’adesione volontaria e su una rigida selezione all’ingresso: chi vuole essere incluso nel programma deve affrontare con successo tre colloqui e, poi, passare due settimane in prova. Le persone che superano la fase preliminare trascorrono nella struttura dedicata – l’ex casa di riposo Carisma di Bergamo – nove mesi: i primi sei dedicati all’insegnamento della lingua italiana, con l’obiettivo di conseguire il livello A2 – e i rimanenti tre alla formazione professionale. Terminata questa fase, i partecipanti possono usufruire di un tirocinio e, eventualmente, di un contratto di lavoro.

Durante la loro permanenza nella struttura, gli “allievi” – tutti maschi – sono sottoposti a una disciplina piuttosto rigida. Rituali e abitudini di stampo militare sono parte integrante della routine quotidiana e della “formazione” umana e lavorativa, come confermato in questi giorni da un operatore che ha collaborato al progetto. La sveglia è alle 6.30, sei giorni su sette, ed è seguita da una specie di adunata nel corridoio, con tanto di gestualità di tipo marziale. Tutti i partecipanti sono vestiti allo stesso modo: indossano una tuta blu – di fatto una divisa – con sopra scritto “Accademia per l’integrazione. Grazie Bergamo”. Devono tenere letti e spazi comuni in perfetto ordine, pena un richiamo da cui possono derivare vere e proprie punizioni: ad esempio, rimanere nella struttura anche durante il fine settimana. La lingua di comunicazione è obbligatoriamente l’italiano. Il canto collettivo è considerato uno strumento centrale di integrazione: tra le attività quotidiane figura l’esecuzione dell’inno nazionale. I cellulari sono “concessi” soltanto in determinati orari della giornata: di notte e brevemente durante il pranzo. Il wi-fi, comunque, viene staccato alle 23.

Gli elementi del disciplinamento, del paternalismo e dell’infantilizzazione sono tutti presenti in maniera cristallina. L’Accademia sembra uscita da un manuale distopico – o utopico, dalla prospettiva dei suoi ideatori – di costruzione di soggetti docili, riconoscenti e disponibili al lavoro, anche gratuito. Parte della giornata, infatti, è dedicata proprio a questo tipo di attività, in spazi ben visibili alla cittadinanza. Nei momenti riservati al volontariato, gli “allievi” cambiano divisa e si esibiscono in pubblico, mostrando la loro mansuetudine, la loro gratitudine e la loro utilità sociale. Confermata dal fatto che – come evidenziato in maniera entusiastica dal sindaco Gori nel video trasmesso da Le Iene – il costo di tutta l’operazione è quello normalmente corrispondente all’accoglienza: 35 euro al giorno per persona.

Proprio il servizio televisivo è il momento rivelatore della portata regressiva di questa iniziativa. All’ingresso dell’inviato, gli “allievi” scattano immediatamente sull’attenti. Lo stesso fanno quando si tratta di pulire la lavagna su cui l’ospite, improvvisandosi con orgoglio docente, va a scrivere, dando, con fare comprensivo e paziente, lezioni di italiano ai suoi “scolari” e insegnando loro una canzone napoletana.

Nel quadro di questo paternalismo benevolo, poco importa alla iena Giulio Golia che uno degli “allievi” intervistati, nel paese di provenienza, sia laureato in storia e insegnante di inglese. Il diretto interessato comunica il suo percorso educativo e professionale in uno dei momenti seri e riflessivi del servizio televisivo, quando gli “ospiti” dell’Accademia raccontano le loro storie, portando lo spettatore a immedesimarsi e a provare pena e compassione. Non però a riconoscere l’altro quale portatore di bisogni e diritti, come tali meritevoli di rispetto. Qualunque ipotesi di attribuzione di autonomia e capacità di autodeterminazione, del resto, viene seccamente accantonata nel momento in cui l’inviato pronuncia le seguenti parole: «in Accademia fanno tutto loro, proprio per imparare come si vive in Italia». Affermazione rafforzata, poco dopo, dalle parole di uno degli “allievi”: «qua ci stanno insegnando che quando avremo un lavoro dovremo faticare».

Il “modello Bergamo”, insomma, non mette in discussione la cornice di significato condivisa, a livello politico così come di senso comune, rispetto all’integrazione e alle relative politiche. Anzi, la rafforza: all’inizio del servizio, il direttore della Caritas bergamasca, Don Roberto Trussardi, dice serenamente che l’Accademia punta a realizzare «un’accoglienza che non deve fermarsi ad accogliere ma deve diventare integrazione. Accogliere per accogliere non è più il momento». Questo modello, inoltre, non fa che confermare l’ormai indiscussa equazione tra immigrazione e insicurezza e fa ricorso all’argomento – già impiegato dal PD – del rischio clandestinità connesso alla norma voluta da Salvini. Il sindaco del comune lombardo, nel sostenere che il suo progetto riduce la presenza irregolare in Italia – costituendo quindi una valida alternativa alla clandestinità, e di conseguenza alla criminalità, per quelle persone che non avranno più un permesso per motivi umanitari –, sottolinea, con disappunto, la natura irrealistica delle politiche di espulsione sbandierate dall’attuale ministro: «nonostante le promesse di rispedirli tutti a casa loro, abbiamo verificato che i rimpatri sono una pratica molto difficile».

Come già rilevato da Cronache di ordinario razzismo e da Giuseppe Faso su Left, i corsi a cui gli “allievi” sono sottoposti ricordano in maniera molto stretta quelli istituiti per ottemperare ai requisiti previsti dall’Accordo di integrazione, il cosiddetto “permesso di soggiorno a punti”[2]. Più in dettaglio, il trattamento riservato a chi decide “volontariamente” di entrare in Accademia rientra appieno nella logica della cosiddetta civic integration, una filosofia dell’integrazione basata sull’idea che gli stranieri debbano imparare la lingua e aderire ai valori “fondativi” del paese in cui fanno ingresso e intendono stabilirsi[3].

L’Accademia, tuttavia, va ben oltre questa logica, portando a compimento un percorso politico “bipartisan” iniziato prima, che si è articolato in due tappe: i requisiti linguistici e civici, inizialmente, hanno interessato in modo esclusivo i migranti cosiddetti “economici” per poi includere, successivamente, i richiedenti asilo e i titolari di protezione internazionale. La logica dell’integrazione come dovere, inoltre, non soltanto è stata estesa a nuove categorie ma è stata anche declinata nella richiesta di disponibilità al lavoro gratuito.

Con l’Accademia, dunque, si chiude un cerchio. Il “buon” immigrato, adesso, è colui che, seppur “forzato” e non “economico”, accetta di lavorare o, meglio, di imparare gratuitamente a farlo, essendo considerato incapace o privo di volontà in tal senso. A cambiare, di conseguenza, è una certa rappresentazione condivisa dei non cittadini: l’ombra del sospetto è calata anche sui richiedenti asilo e sui titolari di protezione internazionale, i quali hanno assunto le sembianze di potenziali terroristi e di soggetti che ricevono più di quanto meritino.

La distinzione tra migranti “economici” e migranti “forzati”, anziché essere superata – a causa della sua inconsistenza empirica e della sua criticità etico-politica –, viene paradossalmente annullata, inglobando tutti i non cittadini in un’unica categoria generale: chi ne fa parte è tenuto continuamente a dimostrare la propria meritevolezza. La petizione promossa da Le Iene, del resto, è denominata “Immigrazione: diamo una possibilità a chi se la merita”.

Questo debito del migrante, difficile da estinguere, non sembra però rappresentare un problema per quelle forze politiche che si oppongono all’iniziativa di Salvini collocandosi, a loro dire, in un orizzonte democratico e rispettoso dei diritti degli immigrati. Il sogno di un’integrazione diversa, descritta come più umana e “vera”, si traduce così in un incubo fatto di inferiorizzazione, subordinazione e accettazione di un inevitabile sfruttamento.

Rispetto a un simile scenario, è possibile immaginare – o quantomeno auspicare – che si aprano spazi di resistenza per le persone coinvolte nell’Accademia. Ossia che alcuni “allievi” sfruttino strategicamente l’“opportunità” loro “concessa” per costruire percorsi individuali di autodeterminazione al di là delle – e nonostante le – intenzioni degli ideatori di questo luogo distopico e dispotico. Un esito di questo tipo rappresenterebbe una felice distorsione degli obiettivi politici alla base dell’“esperimento” bergamasco. Non è affatto scontato che ciò accada, ma è quanto mai necessario sperarlo.

[1] Ad esempio da Il post e Il sole 24 ore.

[2] Entrato in vigore nel 2012 ma introdotto nell’ordinamento italiano già nel 2009 dall’allora ministro dell’interno Roberto Maroni.

[3] Per approfondimenti, si rimanda a I confini dell’inclusione. La civic integration tra selezione e disciplinamento dei corpi migranti, a cura di V. Carbone, E. Gargiulo e M. Russo Spena, DeriveApprodi, 2018.