Il ricatto del condizionatore

Guerra, clima, crisi energetica società dei consumi: la provocazione di Mario Draghi è una metafora perfetta del capitalismo odierno.

14 / 4 / 2022

La scorsa settimana ha tenuto banco in Italia – anche in maniera piuttosto grottesca – il dibattito suscitato da un battibecco tra il premier Mario Draghi e un giornalista, durante una conferenza stampa. «Tra la pace in Ucraina e il condizionatore d'aria acceso, cosa scegliereste?», così Mario Draghi ha replicato al giornalista che gli chiedeva la posizione del governo italiano su un eventuale embargo totale dell’energia russa da parte dell’Europa. Ipotesi che, tra l’altro, lo stesso premier considera “non sul tavolo” per i motivi che vedremo più avanti.

All’interno di questa replica, goffa e provocatoria, si nascondono in realtà alcuni tratti distintivi non solo del cosiddetto draghismo, ma dell’intera postura con cui i governi neoliberali stanno affrontando questa fase storica. In primo luogo c’è il continuo scaricare verso il basso le responsabilità, colpevolizzando i singoli comportamenti sociali. Lo dice bene Tommaso Coluzzi su Fanpage: «Paternalista, semplicistico, populista. Non è la prima volta, certo. Basta ricordare quando Draghi se la prese con i furbetti del vaccino contro il Covid, dopo che il governo aveva dato indicazione ai giovani psicologi di vaccinarsi. Ora dice ai cittadini una cosa semplice: ma davvero preferite un lusso alla pace? Tanto per far sentire in colpa chi ascolta».

Certo non è la prima volta, perché quella di spostare dall’alto verso il basso oneri e responsabilità è una tecnica governamentale che pervade l'intera struttura del comando nella società odierna. Lo abbiamo visto centinaia di volte nella gestione della pandemia, con la sterile retorica di contrastare la crisi climatica con le azioni individuali o – andando leggermente indietro nel tempo – nell’austerity come risposta alla crisi economico-finanziaria del 2008-2010, di cui proprio Mario Draghi è stato tra i principali alfieri come presidente della BCE.

Ma c’è un’altra questione, forse ancora più pregnante, che le parole di Draghi sottendono: quella di considerare il paradigma della “crescita infinita” come unico orizzonte possibile della storia. Dando per assodato che è impossibile immaginarsi una linea di sviluppo differente da questa all’interno di una società capitalista, ci sono due importanti considerazioni da fare. La prima, più pragmatica, riguarda il motivo reale per il quale il governo italiano considera “non sul tavolo” la possibilità di interrompere le forniture energetiche dalla Russia. Il problema non è solo legato alle scorte (che si stimano siano fino ad ottobre) o alla difficoltà di trovare altri partner commerciali, ma sta nella tutela del principale attore che la politica estera italiana ha avuto negli ultimi decenni: ENI.

Al netto delle dichiarazioni di facciata del “cane a sei zampe” fatte a inizio marzo – che non hanno mai trovato seguito - di voler interrompere le relazioni commerciali con Gazprom e vendere le proprie quote di Blue Stream (ENI detiene il 50% del gasdotto che dalla Russia porta il gas verso la Turchia), le forniture di gas russo rappresentano un pezzo importante del fatturato di ENI. Talmente importante che alla fine dello scorso ottobre le due società si sono impegnate per siglare un nuovo accordo strategico che facilitava ENI nella rivendita di gas russo in Italia e in altri Paesi europei. Questo è andato a incrementare ulteriormente quell’utile che nel secondo trimestre del 2021 aveva avuto un balzo storico del + 54%.

Per avere un quadro completo della situazione rimandiamo a un articolo scritto da Alessandro Runci su Domani lo scorso 6 marzo (ripubblicato da Re Common), ma quello che ci importa sottolineare è il fatto che il reale beneficiario della “dipendenza energetica” che l’Italia ha nei confronti della Russia sia ENI e quindi anche la Cassa Depositi e Prestiti, che del colosso energetico detiene il 30% delle azioni.

Proviamo allora a parafrasare la domanda provocatoria di Draghi in questo modo: «Tra la pace in Ucraina e i profitti di ENI, cosa scegliereste?». In questa chiave reinterpretativa, francamente molto più onesta intellettualmente, proviamo anche a considerare il consumo non come atto individuale, ma come il terminale di una più ampia e complessa catena del valore.

Per affrontare al meglio questo argomento ci viene incontro l’ultimo libro del sociologo svizzero Razmig Keucheyan, I bisogni artificiali. Come uscire dal consumismo, tradotto in italiano e pubblicato da Ombre Corte nel 2021. Keucheyan affronta con le chiavi dell’ecologia politica l’annosa questione dei bisogni artificiali, partendo dal fatto che produttivismo e consumismo sono i due cardini su cui si basa il biocapitalismo. È innanzitutto necessario «distinguere tra i bisogni biologici assoluti (come il bere, mangiare, ripararsi dal freddo), i bisogni qualitativi e radicali (di natura affettiva, sessuale, culturale), e quei bisogni artificiali indotti dal sistema». Questo non significa abbracciare teorie pauperiste o primitiviste, ma spostare innanzitutto la scelta dei bisogni e le modalità del loro soddisfacimento da un piano individuale a uno collettivo.

Keucheyan parla di “ecologia degli oggetti”, affermando che l’approccio anticapitalista contemporaneo debba passare dal cambiamento radicale della nostra relazione con le merci. Privilegiando quei beni emancipati – che abbiano come caratteristiche «robustezza, smontabilità, interoperabilità ed evoluzione» - si va a sovvertire uno dei principi cardini dell’accumulazione contemporanea, ossia il continuo scarto delle merci. La consapevolezza e la pratica collettiva dell’autoproduzione, del riuso, del riciclo e della sostituzione dei componenti ci permette di entrare in una prospettiva in cui lavoro, innovazione tecnologica ed ecologia siano organicamente connessi tra loro (su questo consiglio una recente intervista fatta da Globalproject a Marco del Collettivo Ippolita a proposito del libro Technoluddismo, edito da Nero Edition). Allo stesso tempo va a contrastare quel privilegio di classe legato all’accesso al lusso – inteso qui come beni che incidono sulla qualità della vita con basso impatto ambientale – rendendo i beni emancipati dei beni ad accessibilità comunitaria.

Questo concetto introduce un altro aspetto, che ha un forte impatto con la fase storica che stiamo vivendo nella quale guerra, controllo delle risorse, crisi energetica e transizione ecologica stanno combinando i propri effetti con conseguenze tragiche per l’intero pianeta. Il punto dal quale parte Keucheyan è la costituzione di alleanze non solo tra lotte nel mondo del lavoro e movimenti climatici, ma anche tra produttori e consumatori. Il modello di riferimento sono alcuni movimenti nati tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX nei quali non venivano separate le questioni del consumo da quelle della produzione.

Tutto questo ci parla di comunità energetiche, di beni comuni, di nuove forme di democrazie, che vanno tenute insieme all’interno di un’altra annosa questione che da tempo ci troviamo a dibattere sul piano teorico: quello della creazione di istituzioni del comune. «Le associazioni di produttori-consumatori favoriranno la disalienazione cercando di riconnettere le questioni della produzione e del consumo, facendo in modo che siano poste congiuntamente e non separatamente, come impone la logica del capitale. Ma ciò sarà possibile solo se esse aumentano, nello stesso tempo, il potere dell’individuo e la sua autonomia di fronte alla merce, e solo se prenderanno sul serio l’affermazione di Marx secondo cui il libero sviluppo di ciascuno è la condizione per il libero sviluppo di tutti». Da questa critica, posta su scala microsociologica, è necessario far emergere una struttura dei bisogni universalizzabile “dal basso” che sia organizzata e capace di strutturarsi in forme politiche durature.

È chiaro che questo impianto pratico e teorico può concretizzarsi solo se situato all’interno dello sviluppo di lotte, convergenze e intersezioni reali. Ci stimola però sulla necessità di una visione complessiva soprattutto in una fase in cui viviamo materialmente l’incubo della socializzazione dei costi della guerra e della transizione ecologica (si veda alla voce “carovita”), e nello stesso tempo vediamo come la stessa crisi ecologica si stia trasformando da limite a valore nel nuovo ciclo di sviluppo capitalista.

In questa prospettiva abbiamo bisogno oggi, proprio a partire dal dirimente dibattito sulla questione energetica, di immaginare e costruire quella che Stefania Barca ha definito “economia politica della decrescita”, in un suo intervento al Venice Climate Camp del 2020. Dando per assodato che il fallimento dell’idea di crescita infinita sia dimostrato tanto da fattori ambientali quanto da quelli sociali, un nuovo modello di economia deve attuarsi attraverso un percorso di liberazione dell'ideologia che vede nella crescita del PIL l’unico insuperabile parametro di misurabilità del mondo. Per Stefania Barca è necessario «un percorso di cambiamento strutturale dell’organizzazione economica, in modo che i flussi di materia ed energia, l’estrazione di risorse e la loro dispersione in forma di rifiuto diminuiscano sempre di più, mentre aumenti al tempo stesso il benessere umano e non umano». 

Sappiamo quanto sia difficile, in una fase come questa, uscire dall’emergenzialità nella quale è stato costretto il discorso pubblico. Prima la pandemia, poi la guerra, infine una crisi climatica diventata il set pubblicitario di un neoliberismo in chiave green ci stanno sempre più abituando al fatto che sia normale avere approcci che passino da scelte obbligate e forzate. Per l’appunto, «volete la pace o il condizionatore?», oppure «volete un ambiente pulito o le bollette basse?», o ancora «volete la salute o la libertà?». 

Per uscire da questo ricatto dobbiamo innanzitutto emanciparci da quello che Mark Fisher chiamava “realismo capitalista”, ossia quell’atmosfera tangibile e diffusa che avvolge tutto e che ci fa credere che non ci siano alternative a questo modo imperante di leggere e governare la realtà. E possiamo farlo solo ritornando a immaginare insieme “gli altri mondi possibili”.