Il respiro lungo dei movimenti

Il Venice Climate Camp tra crisi ecologica e un nuovo governo all'orizzonte

4 / 9 / 2019

Viviamo un tempo politico fatto di continue e repentine mutazioni, che più volte su questa testata abbiamo accostato alla metafora gramsciana dell’interregno, in cui «si verificano i fenomeni morbosi più svariati[1]». Succede, ad esempio, che nel bel mezzo dell’era trumpiana, per la prima volta nella storia degli USA un socialista sia in testa ai sondaggi presidenziali (e questa sarebbe una buona notizia, se contasse realmente qualcosa); che l’estrema destra tedesca sbanchi le elezioni regionali in Brandeburgo e Sassonia quasi con naturalezza; che il premier inglese decida di chiudere per due mesi un’istituzione con quasi mille anni di storia alle spalle, salvo perdere la maggioranza dopo pochi giorni. 

In questo contesto, l’emergenza storica della crisi climatica rischia anch’essa di trasformarsi in una grande farsa. Di contro, inizia oggi a Venezia la kermesse climatica dei movimenti, con un tempismo che più giusto non poteva essere. Si conferma, dunque, quella regola machiavellica di virtù e fortuna che si inseguono a vicenda.

Ma andiamo con ordine.

La crisi di governo tra decadenza e respiro corto

Il Bel Paese, che a politiche camaleontiche ci ha abituati dai tempi del connubio cavouriano – quindi prima ancora che nascesse l’Italia stessa - non fa eccezione rispetto al quadro descritto nell’incipit. Ed è così che, in una notte di mezza estate, quello che per mesi si è atteggiato a nuovo caudillo della politica italiana inizia la sua autocombustione. Il colpo ai coinquilini di governo pentastellati Matteo Salvini ce l’aveva in canna dal giorno dopo le elezioni europee, questo oramai lo sanno tutti; ma il modo in cui lo esplode è talmente goffo che si ritrova in pochi giorni senza poltrona, senza la sicurezza di quel 36-38% che lo faceva gongolare e forse anche senza alleati, visto che i vertici di Forza Italia gli stanno chiudendo la porta, minacciando addirittura di far saltare l’accordo per le prossime elezioni regionali in Umbria. Accade anche, sempre durante la canicola agostana, che l’altro Matteo, quello del Pd, da zombie a cui era stato ridotto ritorna a giocare la parte del politico di mestiere, mettendo all’angolo il “nemico” Zingaretti, riabilitando Conte e fornendo a Mattarella l’assist per il nuovo grande capolavoro bicolor della politica nostrana: il governo (sic!) “giallorosso”.

Tra colpi di scena ed episodi esilaranti, la trama della fiction si conclude ieri sera: “Rousseau” ha dato il benestare alla nuova maggioranza, regalando a Di Maio i riflettori dell’ultima scena. Di colpo al capo leader pentastellato torna il sorriso beffardo dei tempi migliori; quel 79% di SI spazza via le ombre che adornavano i suoi pensieri negli ultimi giorni. Paradosso dei paradossi, la (finta) democrazia liquida “salva” quella parlamentare, con buona pace dei vari Tito e Panebianco. Il finale è scritto, anche se forse è lecito attendersi ancora sorprese.

La raccontiamo così, con un tono un po’ sopra le righe, che in realtà non vuole nascondere un netto smarcamento dal patetico dibattito a cui abbiamo assistito fino ad ora. Un dibattito che si è inesorabilmente schiacciato dentro una dimensione binaria: voto subito o nuove elezioni, finanziaria o esercizio provvisorio, governo di scopo o nuove alleanze politiche, salvinismo o antisalvinismo.

In quest’ottica binaria, soprattutto a sinistra il dibattito politico è stato dominato dalla paura, di certo legittima, che nuove elezioni politiche consegnino definitivamente il Paese in mano a Salvini e alla peggior destra reazionaria vista nell’era repubblicana. Per questo si sono moltiplicati appelli a una sorta di pattosalernismo posticcio che ha sostenuto fin dall'inizio – più o meno esplicitamente – la formazione di un governo marchiato MoVimento 5 Stelle-Pd.

Sarebbe fin troppo banale entrare nel merito delle tante contraddizioni che questa nuova maggioranza aprirebbe sui terreni cari ai movimenti. Ci sarà modo e tempo per analizzare i 26 punti del programma e la scelta dei ministri. Quello che ci sembra importante sottolineare sono due questioni. La prima è legata a una distorsione intrinseca di cui lo stesso concetto di “salvinismo” si fa portatore. Bisogna infatti considerare che la fase reazionaria mondiale non è generata dal “politico” inteso come categoria a sé stante. Trump, Bolsonaro, Orban, Salvini o altri personaggi simili ne sono semmai una espressione. Questa fase è piuttosto il prodotto di un capitalismo che si è ristrutturato dopo l’apice della crisi economica - e continua a ristrutturarsi in questo lungo ciclo di stagnazione – fondando la propria riproduzione sociale sulla competizione tra soggetti subalterni, su una sorta di “autodisciplina” che tende a rimarcare sempre di più le gerarchie razziali e di genere interne al corpo sociale. Questa fase reazionaria non è dunque associabile a un determinato blocco politico, ma è l’attuale postura che sta assumendo la governance neoliberale. Questa tende a rendere compatibili e componibili culture politiche apparentemente diverse, se non contrapposte e il caso italiano è emblematico in tal senso.

In secondo luogo è necessario uscire dallo schema delle contingenze che delimitano il quadro politico nazionale nello spazio e nel tempo. Gli ultimi accadimenti sono effetto e non causa di una crisi organica che da tempo investe i principali protagonisti della democrazia rappresentativa. Come ha giustamente sottolineato Lucia Annunziata su Huffingtonpost[2], il realismo politico che ha fatto convergere una buona parte dell’area “progressista” sul “Conte-bis” è il sintomo di una decadenza che pervade da lungo corso il rapporto tra soggetti politici e istituzioni. Il continuo ricorso a figure “garanti” - lungi dall’essere prerogativa solo italiana - è parte proprio di quella prassi governamentale che cerca sempre nuovi punti di equilibrio nell’instabilità permanente. In questo perenne riassestamento, la governance europea non può permettersi una situazione di forte polarizzazione politica in un Paese chiave come l’Italia; a maggior ragione dopo le elezioni di maggio, che hanno di fatto visto la sconfitta della “rivoluzione sovranista” tanto paventata da Salvini. Un governo sostenuto da Pd e MoVimento 5 Stelle, entrambi alleati nel votare la Von Der Leyen a capo della Commissione Europea, garantirebbe - in teoria - una maggiore pacificazione sociale e politica. E qui sta un primo punto di sfida per i movimenti: non disperdere quel patrimonio conflittuale che abbiamo visto nei 14 mesi di governo giallo-verde.

A tutto questo si aggiunge la fragilità dell’intero arco di forze partitiche nazionali. Le lotte intestine al MoVimento 5 Stelle, la mancanza di una leadership chiara interna al Pd, lo zoccolo duro leghista del nord Italia che fatica a compattarsi attorno a Salvini: sono solo alcuni esempi del subbuglio interno alle principali compagini politiche, che il decantare della crisi estiva ha messo ancora più a nudo. Questo dà luogo a equilibrismi di corto respiro, che sono anche il riflesso di strategie strutturalmente tarate nel breve periodo. 

È questo il principale “vuoto” della politica contemporanea, la mancanza completa di prassi e strategie che sappiano uscire dalle congiunture. Ed è questo il solco nel quale i movimenti devono ricercare il loro principale terreno d’azione, non andando a riempire quel vuoto, ma istituendo un’agenda politica dal basso che sappia individuare con chiarezza temi e obiettivi.

Le sfide della crisi climatica

Se in Italia i mesi estivi sono stati egemonizzati dalla crisi di governo, il resto del mondo ha toccato con mano gli effetti di una crisi ecologica che familiarizza sempre di più con la nostra quotidianità: le foreste che bruciano in Siberia, Alaska, Amazzonia, Indonesia e nel continente Africano; il triste spettacolo dei ghiacciai che si sciolgono in Groenlandia e Patagonia; la riproduzione biologica compromessa per sempre su un quarto delle terre emerse nel pianeta, secondo i dati del nuovo rapporto dell’Ipcc. Un quadro apocalittico, che una politica basata su letture congiunturali non solo non riesce a tangere, ma favorisce solamente chi vuol portare a termine il saccheggio dell’ambiente, come ha giustamente[3]sottolineato Guido Viale in un recente articolo.

È bene però ribaltare due punti di vista che accompagnano spesso le visioni sulla crisi ecologica in atto. Il primo è che questa sia inesorabile e inarrestabile, a tal punto che non valga la pena di lottare per modificarne o quantomeno comprimerne gli effetti. Il secondo è che questa agisca in forma socialmente neutra, impattando il genere umano nel suo insieme e presupponendo una sorta di “azione comune dell’umanità” per contrastare il global warming. Questa duplice visione de-responsabilizza l’attore principale dei cambiamenti climatici avvenuti negli ultimi due secoli: il capitalismo. Il deterioramento della natura è l’espressione specifica dell’organizzazione capitalistica che, nel corso dei secoli, ha sfruttato il lavoro della natura nella sua totalità, sia nell’attività umana “retribuita” o “non retribuita” sia nella cattura del “lavoro-energia” della biosfera[4]. Per questa ragione è necessario ribadire con forza il legame indissolubile tra crisi ecologica e diseguaglianze, che rappresenta il risultato di logiche economiche e politiche che hanno sedimentato l’intreccio tra le quattro linee fondative dello sviluppo capitalistico: la classe, la razza, il genere e la natura[5].

Che per le popolazioni ricche, principalmente del nord del mondo, ci sia comunque una “scialuppa di salvataggio” privilegiata non sono solamente le più brillanti menti dell’ecologia politica a dirlo, ma anche il rapporto Onu steso lo scorso giugno dal commissario per i diritti umani Philip Alston. Questo ha evidenziato come 120 milioni di persone entreranno in povertà assoluta entro il 2030, a causa dei cambiamenti climatici. Entro tali coordinate, i più colpiti saranno i paesi del Sud globale, che a fronte di un impatto ambientale molto minore rispetto ai paesi industrializzati (responsabili di circa il 10% di emissioni CO₂) soffriranno almeno il 75% dei costi del climate change.

A fronte di tutto questo, abbiamo assistito negli ultimi anni a una grande trasformazione che ha investito i movimenti climatici, che si sono via via emancipati dall’ambientalismo “occidentale” tradizionale e hanno disegnato traiettorie incompatibili con qualsiasi ipotesi di sviluppo capitalistico. Fuori da una cerniera che vede ai due capi l’estrattivismo fossile e il capitalismo verde, emerge una nuova visione globale dell’anticapitalismo che colloca la crisi ecologica nel punto di rottura più avanzato del conflitto tra capitale e bios.

Una grande spinta in questa direzione viene dai movimenti indigeni, che hanno saputo combinare l’elemento anti-coloniale e anti-estrattivo intrinseco alle loro lotte di resistenza, con un marcato accento ecologista e femminista. Quello a cui stiamo abbiamo assistito in Brasile e in Messico sono solamente sprazzi di uno scenario che tende a moltiplicare conflitti e ad affiancarli. Sebbene in un quadro completamente diverso, anche in Europa i movimenti climatici stanno investendo un quadro sociale e politico che si va generalizzando. L’esperienza di Fridays for Future, che si sta radicando in ogni territorio dello spazio europeo, è andata di pari passo alla crescita di quei movimenti che da anni hanno individuato il nesso tra clima, capitalismo fossile e grandi opere come orizzonte strategico.

Il Venice Climate Camp e l’organizzazione transnazionale

In quest’ottica diventa sempre più urgente la costruzione di uno spazio comune e continuativo di confronto, ma soprattutto di organizzazione. La proliferazione dei climate camp avvenuta negli ultimi anni in tutta Europa va già in questa direzione e quello che domani apre i battenti al Lido di Venezia – il primo a svolgersi in Italia – rappresenta senza dubbio un’occasione per approfondire e innervare di nuova linfa una serie di passaggi. Questo soprattutto grazie alla particolare composizione delle lotte ambientali nel nostro Paese, che hanno un radicamento storico e una territorializzazione probabilmente unici nello scenario europeo, come ha dimostrato il percorso comune intrapreso lo scorso anno e culminato con l’enorme manifestazione del 23 marzo. Percorso che ha aperto nuove sfide e nuovi interrogativi, ma che soprattutto è stato in grado di materializzare la lotta planetaria alla crisi climatica nella miriade di conflitti locali che si contrappongono a oleodotti, gasdotti, autostrade, linee ferroviarie ad alta velocità e capacità, discariche, inceneritori; di declinarla insomma in un ambito di prossimità che non lasciava spazio agli alibi delle macro-astrazioni.

Mettere in circolo questo patrimonio, rivestirlo di una visione organizzativa transnazionale, renderlo parte delle tante contraddizioni sociali che la crisi ecologica amplifica e non sommerge – da quella migratoria a quella di genere, fino a quella della finanziarizzazione e della guerra globale, che da sempre rappresentano le soluzioni adottate dal capitalismo in contesti di crisi  - è una sfida immensa, ma realizzabile.

Non stiamo parlando di utopie, ma di un programma politico che deve dotarsi di strumenti, spazi e iniziative per essere costruito e realizzato. Dobbiamo rivendicare con forza un green new deal dal basso, che esca dal seminato della “legislazione verde” e dalle contraddizioni intrinseche al concetto stesso di “sostenibilità”divenendo il motore di un processo globale realmente democratico ed egualitario. Non può che essere questo il respiro lungo dei movimenti contemporanei, che sappia traghettarci verso una transizione non solo ecologica, ma complessiva verso altre forme di vita.

[1]A.Gramsci, Quaderni dal carcere(Q 3, §34, p. 311)

[2]L. Annunziata, L’avvocato del declino, Huffingtonpost.it, 29 agosto 2019

[3]Guido Viale, Crisi politica e crisi ambientale, Pressenza.com, 19 agosto 2019

[4]Jason Moore, Antropocene o Capitalocene. Scenari di ecologia-mondo nella crisi planetaria, p. 141

[5]Razmig Keucheyan, La natura è un campo di battaglia. Saggio di ecologia politica, p. 13