Il regolamento sui beni comuni urbani del Comune di Pisa mette una pietra tombale sulle istanze sociali della cittadinanza insorgente

4 / 5 / 2017

Pubblichiamo un contributo di Francesco Biagi, attivista del Progetto Rebeldia di Pisa, sulle scelte dell'amministrazione comunale della città toscana che hanno portato a formulare il nuovo "regolamento sui beni comuni urbani".

C’era una volta, nel 2012, il Movimento per i beni comuni. Nacque sull’onda del referendum per sottrarre l’acqua alle fauci affamate del profitto capitalista, poi, unendosi alle lotte per il “diritto alla città” di lefebvriana memoria, si estese alla radicale rimessa in discussione della gestione dello spazio urbano; nacquero lungo tutto il nostro stivale, da nord a sud, tanti spazi sottratti all’abbandono, al degrado e alla speculazione. Una stagione politica dove si “liberavano” teatri, spazi culturali, ex-fabbriche dicendo che sulla città dovevano decidere le persone che la vivevano e la attraversavano, che non si potevano stravolgere i nostri quartieri a colpi di varianti urbanistiche e svendite del patrimonio pubblico oppure tenendo chiusi immobili e case vuote.

Quel fiume carsico ora pare percorrere rivoli sotterranei, l’exploit è passato ed è stato travolto da tanti sgomberi, tuttavia le ragioni di quelle lotte sono ancora aperte. A Pisa, il Municipio dei Beni Comuni aprì l’Ex-Colorificio Liberato, il quale segnò una stagione indimenticabile: un anno di occupazione, vissuto sulla cresta dell’onda, dove si tornava a dire a una multinazionale (la J-Colors) che «La proprietà è un furto!» e la sua fabbrica abbandonata un “bene comune” recuperato dagli occupanti/utenti; all’amministrazione comunale, inoltre, che non si doveva fare una variante urbanistica speculativa per costruire villette di lusso sopra una fabbrica che ha delocalizzato lasciando a casa, senza lavoro, tanti operai. I ripetuti sgomberi e la spirale repressiva hanno distrutto quell’assalto al cielo. Poi ci sono stati alcuni mesi di Distretto 42, un’ex caserma di proprietà demaniale in pieno centro città. Il Municipio dei Beni Comuni lo restituì alla città, e la città scoprì un giardino di 4 mila metri quadrati ribattezzato “Parco Andrea Gallo” e un immobile dove reinventare un’altra società. Anche qui lo sgombero e la repressione uccisero la vitalità del movimento.

Risuonano ancora le ingiuste parole dell’Ex-assessore alla cultura della Giunta Filippeschi, Dario Danti (ex-militante di SEL ora simpatizzante dei progetti politicisti di Pisapia), il quale disse al Municipio dei Beni Comuni che «non esistevano solo le interpretazioni sui beni comuni urbani di Ugo Mattei o Paolo Maddalena», due giuristi che offrirono il loro impegno concreto in favore del movimento per raggiungere un accordo giuridico di comodato d’uso, prima per l’Ex-Colorificio e poi – appunto – per il Distretto 42. Quell’assessore, il quale aveva il mandato del Sindaco per trattare con il Municipio dei Beni Comuni, chiuse la porta alla cittadinanza insorgente di Pisa e indicò la Via Maestra a tutta la Giunta, anche se poi la abbandonò rompendo la coalizione di centrosinistra. Con il “Regolamento sulla Collaborazione tra Cittadini e Amministrazione per la Cura e la Rigenerazione dei Beni Comuni Urbani” è possibile notare come sia tutt’ora vivo quell’astio nei confronti della “Teoria dei Commons” promossa da intellettuali come Mattei e Maddalena e praticata dal Municipio dei Beni Comuni. La Giunta comunale pisana continua a segnare un solco nel disprezzo delle esperienze sociali nate dal basso e legittimate da diversi giuristi illuminati.

Un regolamento che è stato approvato in giunta, ma non è chiaro con quali tempi giungerà in consiglio comunale per la sua definitiva approvazione ed entrata in vigore. Il Municipio dei Beni Comuni da anni denuncia la mancanza di una discussione pubblica sulla fruizione dello spazio pubblico, perché non sia solo appannaggio dell'amministrazione comunale e delle sue realtà-satellite, ma rivolta a tutto il tessuto sociale cittadino. Inoltre, il Municipio dei Beni Comuni, ha mappato e schedato minuziosamente i numerosi spazi dismessi che a Pisa necessiterebbero di cura e di rigenerazione, proponendo per molti di essi proposte concrete di riutilizzo. La città di Pisa ha un grande bisogno di questo strumento ed è positivo il fatto che sia stata discussa una proposta in merito, tuttavia quella che è stata approvata dalla giunta pisana risulta assolutamente carente, sia dal punto di vista del processo decisionale, sia dal punto di vista dei contenuti.

Le Osservazioni avanzate dalla rete di movimento pisano, qui esposte, rappresentano non solo una critica tecnica, ma anche - e soprattutto - una critica politica sia alle manovre speculatorie dell'amministrazione, la quale gestisce il patrimonio pubblico come tesoretto da svendere all'occorrenza, sia ai vari pesi e alle varie misure con cui il comune regola la fruizione degli spazi.

L'elaborazione del regolamento è stata assegnata nel 2014 (in città invece se ne parla in sordina solo da pochi mesi) in maniera del tutto arbitraria, senza alcun bando pubblico, ad un'associazione che non sembra avere né titolo né esperienza sulle modalità di cura e rigenerazione di beni comuni urbani a Pisa, pertanto senza valorizzare minimamente le competenze e lo sguardo d'insieme, italiano e europeo, di quelle esperienze di rigenerazione urbana presenti da anni sul territorio cittadino. Nel documento sono presenti unicamente riferimenti a regolamenti sui beni comuni esperiti in altre città, peraltro politicamente affini a Pisa per colore e composizione degli scranni comunali. In breve, la bozza di regolamento pisano è sostanzialmente una copia di quello elaborato dal comune di Bologna e le poche modifiche che sono state apportate dalla nostra amministrazione mostrano inequivocabilmente il vero obiettivo di questa operazione: debilitare e restringere ulteriormente i termini di praticabilità dell'accesso agli spazi.

L'affidamento dell'elaborazione della proposta, peraltro oneroso, ha di fatto espulso la cittadinanza tutta da una discussione aperta e plurale sull'argomento, salvo poi inserirlo all'ordine del giorno di alcuni consigli dei CTP (Consigli Territoriali di Partecipazione) tra la fine del 2015 e inizio del 2016. La questione è stata affrontata esclusivamente in quelle assemblee, con riunioni convocate da un giorno all'altro su un regolamento disponibile alla lettura solo nella stessa sede della sua approvazione. La bozza di regolamento è stata presentata solo nei CTP e le uniche modifiche apportate sono proprio quelle che assegnano ai Consigli un ruolo di mediazione tra comune e cittadini nel processo di definizione dei patti di collaborazione.

Il processo messo in atto di stesura esternalizzata del progetto e di condivisione ristretta ai soli CTP ignora oltre un decennio di riflessioni e di pratiche sul recupero delle aree dismesse, sui concetti di rigenerazione urbana e di gestione condivisa, sui processi di progettazione partecipata dei beni urbani che si sono sviluppati a partire dalla ricognizione dei bisogni e dalla partecipazione attiva della cittadinanza.

L'imprecisione del comune e di chi ha scritto la proposta di regolamento sul tema dei beni comuni è lampante sin dal titolo e dalle definizioni. Il concetto di beni comuni si fonda sulla funzione pubblica e sociale che questi svolgono per una comunità, che li riconosce come tali e se ne prende cura al fine di garantirne la fruizione collettiva, attraverso pratiche di cooperazione atte a sostenere lo sviluppo e la dignità della persona, indipendentemente da quale sia la proprietà (vedi Art.42 comma 2 della Costituzione Italiana). L'amministrazione quindi sarebbe solo uno degli attori di un processo in cui ad essere protagonista è la cittadinanza, ma l'articolazione del regolamento demolisce nei fatti ogni concetto di bene comune, attraverso un crescente accentramento decisionale, che il Comune di Pisa si assicura con complessi processi burocratici. Inoltre si restringe il campo di applicazione ai soli beni del patrimonio immobiliare comunale, escludendo immobili privati o di altri enti pubblici che non potrebbero essere curati o rigenerati dalla cittadinanza, neanche se ci fosse un pieno consenso delle parti.

Nella definizione di “cittadini attivi” vengono ricordati correttamente quelli che fanno volontariato, partecipano alla vita sociale e politica della città, fanno parte di associazioni, ma in questa categoria vengono inclusi, in continuità col regolamento di Bologna, anche cooperative e imprese. Non si vuole di certo mettere in dubbio che alla base di alcune cooperative vi siano ancora i capisaldi di solidarietà, mutualismo e democrazia che ne hanno storicamente caratterizzato la costituzione o che esistano società di capitale animate da un'etica dell'impresa responsabile; tuttavia preme sottolineare che il comune sta di fatto permettendo la fruizione di un bene comune, con l'agevolazione data dalla disponibilità di uno spazio pubblico, da parte di società che comunque si muovono nell'economia di mercato facendo profitti. Questa eventualità è in netta contrapposizione con l'idea di fruizione e benessere collettivi di cui il concetto di bene comune è portatore.

Così facendo si ripropone un modello di città ancorato a un'idea di rigenerazione (o di decoro, parola molto cara a chi governa) guidata non dalle comunità cittadine, ma da soggetti di natura economica. Un esempio di tutto questo, è che una serie di commercianti che affacciano ad esempio sulla stessa piazza possano diventarne titolari attraverso la stipula di un patto di collaborazione che assume sempre più le forme di una privatizzazione (vedi art 13 comma 4).

Nel regolamento che viene proposto, le decisioni della giunta, sia in merito all'individuazione dei beni comuni sia sulla bontà dell'opera di cura, risultano essere inappellabili, o meglio, non vengono descritti i criteri attraverso cui si opera la scelta, la quale pertanto diventa puramente discrezionale. Infatti già dall' Art.1 comma 2 della sezione “Finalità, oggetto ed ambito di applicazione”, viene a mancare qualsiasi possibilità di presa di posizione da parte della cittadinanza e si ribadisce come ogni intervento per la cura e la rigenerazione debba “rispondere alla sollecitazione dell’amministrazione comunale”.

Anche dal punto di vista delle risorse, appare chiaro l'approccio discriminatorio dell'amministrazione Filippeschi; infatti può accedere ai processi di cura e rigenerazione solo chi ha le risorse economiche per poterlo fare. Così facendo, si restringe il concetto di cura e rigenerazione alla sola manutenzione del bene, proprio quella cura che il comune non riesce o non vuole più garantire al suo patrimonio. La parte del regolamento che affronta la questione dei contributi comunali non è affatto normata come nel regolamento di Bologna; il fatto che sia stata colpevolmente omessa ci conferma che il comune sia alla ricerca di manodopera gratuita, alla faccia della restituzione di spazi alla cittadinanza: poco importa come verranno utilizzati gli spazi e da chi, basta che siano soggetti capaci di manutenerli. A tale proposito si vuole sopperire con il lavoro volontario della componente studentesca universitaria, alla quale – in cambio – si offrono dei crediti del proprio piano di studi. Ad oggi assistiamo quotidianamente a fenomeni di sfruttamento, attraverso l’utilizzo inappropriato dell’alternanza scuola lavoro (come previsto dalla Buona Scuola) e compaiono in questo regolamento gli stessi elementi critici che ispirano l’attuale riforma sulla scuola o il Decreto Minniti-Orlando che prevede il lavoro volontario per i richiedenti asilo in cambio dell’accoglienza.

La discrezionalità domina incontrastata, non esiste alcuna interlocuzione tra cittadinanza e amministrazione, nessuna ricerca dei bisogni ai quali sopperire, nessun parametro trasparente che indichi come si mettono a disposizione spazi, immobili o piazze, nessuna indicazione sui criteri per la stipulazione dei patti di collaborazione. Nell'ambiguità di un regolamento che, da un lato accentra e dall'altro omette i criteri di praticabilità, si potranno approvare (e continuare ad approvare, come in questi anni) solo quei progetti compatibili con la necessità da parte di chi governa la città di aumentare il consenso, ammettendo solo poche e innocue discontinuità di pensiero, per proteggersi da eventuali accuse di clientelismo. Sicuramente non ci saranno spazi per chi veicola elementi di dissenso e critica all'operato dell'amministrazione.

Vedremo riproposte gestioni funzionali all'assimilazione o alla cancellazione di tutte quelle esperienze critiche che costruiscono aggregazione e socialità sganciate dal profitto e che prendono parola sulla gestione della cosa pubblica; prospererà solo chi non rischia di turbare il quieto vivere di palazzo Gambacorti, chi sceglierà di trattare privatamente con gli enti senza coinvolgere tutta la città in processi decisionali orizzontali e includenti, chi disporrà delle risorse economiche maggiori.

In conclusione si calpestano proprio quei principi generali (Fraternità, Reciprocità e Fiducia, Responsabilità, Inclusività e apertura, Sostenibilità, Pubblicità e trasparenza, Proporzionalità, Adeguatezza e differenziazione, Informalità, Autonomia civica) che dovrebbero ispirarne la redazione.