tratto da “La Repubblica” del 3 febbraio

Il piano della CGIL per "la buona occupazione"

di Ugo Marani*

5 / 2 / 2013

Nel febbraio del 1950 Giuseppe Di Vittorio, segretario generale della Cgil, presentava il Piano del Lavoro, i cui indirizzi erano stati lanciati l' anno precedente in occasione del secondo congresso della sua organizzazione sindacale. Si trattava di un' iniziativa sofferta ma meditata, ambiziosa ma lungimirante. Di Vittorio era reduce da un attacco cardiaco, nel 1948, lo stesso anno in cui si era consumata la lacerazione dell' unità sindacale con le componenti cattolica e socialdemocratica. Era una fase di conventio ad excludendum per il sindacato social-comunista: la vittoria elettorale democristiana, la stabilizzazione monetaria, la diaspora sindacale, la fine del blocco dei licenziamenti stabilito dopo la Liberazione esigevano, per il segretario della Cgil di allora, che fossero posti con urgenza due temi cruciali tra le priorità della politica economica: l' obiettivo della piena occupazione e un diverso ruolo dello Stato sul mercato. Si trattava, apparentemente, di quanto la realpolitik etichetterebbe come una fuga in avanti; ma anche di una provocazione necessaria in una realtà che andava sostituendo il liberismo al corporativismo, le esportazioni alla committenza pubblica e scoprendo il Mezzogiorno come bacino di emigrazione verso il triangolo industriale del Nord. Una provocazione così poco effimera che, nel 1975, Vittorio Foa, Luciano Lama, Giorgio Napolitano e Bruno Trentin ne celebravano, in uno storico convegno dell' Università di Modena, attualità e dirompenza. Era il rendere omaggio al pioniere di un obiettivo sindacale ineludibile, quello della piena occupazione in un' economia caratterizzata da un dualismo territoriale che il mercato creava e accentuava. A distanza di oltre sessanta anni, la Cgil ripropone, così come aveva fatto con Di Vittorio, un nuovo Piano del Lavoro per l' economia italiana. Molto è cambiato da allora, ma un dato è incontrovertibile: che essa presenti un manifesto per l' occupazione è testimonianza della gravità, ora come allora, della situazione dell' Italia e, specificamente, del Mezzogiorno. Molte le diversità, ma anche qualche altra analogia significativa: il relativo isolamento della Cgil e le tensioni con gli altri sindacati, la supremazia dell' ideologia liberista, la disgregazione del tessuto sociale meridionale. La cesura più rilevante: oggi, ahimè, si può tendere alla "buona" occupazione e non più alla "piena" occupazione. Si tratta di un elemento di realismo inevitabile, che non pregiudica la coerenza complessiva dell' impianto, pur in presenza di un crono programma che, come vedremo, suscita qualche perplessità di sottostima dei vincoli europei che può essere determinante. Ma andiamo con ordine, premettendo al lettore che il Piano della Cgil rimanda al Mezzogiorno anche quando esso non è esplicitamente menzionato, poiché i problemi che espone sono eminentemente i problemi meridionali. L' argomentare della Cgil è tanto lineare quanto condivisibile: la crisi che attraversa l' economia italiana è di carattere strutturale, acuita, sì, ma non determinata dall' implosione dell' Unione europea dell' ultimo triennio. Quest' ultima ha esplicitato, da un lato, una fenomenologia di antichi vizi: l' assenza di politica industriale, il decadimento della qualità della spesa pubblica, l' incapacità di una strumentazione adatta alla convergenza delle regioni meridionali. L' elemento di novità della crisi del debito sovrano è dato dalla declinazione di una politica di austerità, che si caratterizza per la riduzione del reddito disponibile, della domanda aggregata interna, per una compressione scientifica e indiscriminata del welfare. L' effetto ultimo è l' esplosione del problema della disoccupazione, dell' inoccupazione, della scomparsa, a Sud, del lavoro stabile e qualificato, della dignità dell' impiego, dell' esclusione giovanile. Simili perverse tendenze possono essere invertite solo con un grosso impegno finanziario del settore pubblico in infrastrutture, welfare e settore turistico che sia in grado di creare "buona occupazione", specie nelle regioni meridionali, incentivando l' utilizzo di giovani precari, potenziando l' offerta del sistema scolastico e della formazione, al fine di creare lavoro stabile e qualificato. Il periodo di riferimento del Piano è riferito al triennio 2013-2015 e prevede un fabbisogno finanziario di circa cinquanta miliardi netti. Fin qui tutto bene, almeno come meritoria suggestione alternativa agli attuali indirizzi di austerità; in fondo, si è detto, l' elemento di provocazione era già contenuto nel primo Piano, quello di Di Vittorio. E poi, esulando dalle follie liberiste che assegnano solo disastri all' operatore pubblico, le spese si ripagherebbero nel medio periodo con la crescita di produzione e di reddito. Il dramma è che questa Europa, quella del Fiscal Compact, dell' ossessione dello spread, del modello della Merkel di Punizione-Pagamento-Prevenzione non attende che gli interventi di oggi facciano i loro effetti domani. E, probabilmente, anche la fiducia sull' illuminismo della Banca centrale europea è difficile da condividere. È giusto volare alto, ma in questo caso la controparte dei giovani e delle regioni meridionali risiede, forse, più a Francoforte, a Berlino e Bruxelles che a Roma. Le loro speranze sono legate a un' altra Europa, quella sociale delle regioni che non convergono. La Cgil lo sa, ma farebbe bene a denunciarlo più esplicitamente.

* Economista, Docente Università Federico II di Napoli, Presidente del Centro Studi RESET