Il NO dei movimenti

29 / 11 / 2016

Ci sono tante cose che una piazza di cinquantamila persone riesce a dire. Questo soprattutto nel contesto di una sfida che si preannunciava fin dall’inizio di alto livello: occupare lo spazio pubblico con una proposta di movimento nel tempo politico della disputa referendaria. Spazio e tempo saturati da un dibattito vuoto, a tratti penoso, degno di un ceto politico che, a tutti i livelli, incarna i peggiori caratteri del decadentismo.

Il dato numerico è, questa volta, incontrovertibile. Il week-end capitolino ha visto scendere in piazza, nel complesso, trecentomila persone. E questo ha un valore politico altamente significativo, che sa di scossa in un Paese da tempo poco abituato a vedere grandi numeri in piazza, soprattutto nelle scadenze “nazionali”. La manifestazione moltitudinaria “Non una di meno!” del sabato ha fatto emergere il lavoro sommerso di centinaia di realtà che si battono contro la violenza maschile e la violenza di genere, facendo prendere parola in maniera dirompente a quei corpi che non rispondono delle identità chiuse, esclusive, coercitive e obbliganti sempre più presenti in un mondo oscuro e reazionario, nato dalle macerie della crisi. Il grande corteo di “C’è chi dice NO” ha invece provocato uno shock nelle pretese di rinnovata sicurezza delle oligarchie nazionali e internazionali. La scossa di domenica va letta come un cambio di segno, in termini di soggettivazione, se la leggiamo in continuità con il moltiplicarsi delle contestazioni a Renzi ed agli esponenti del governo nelle ultime settimane, in coincidenza con l’entrata nel vivo della campagna elettorale. Il “No sociale”, quello nato da una reale messa in comune delle tante lotte sociali che si articolano nei nostri territori, lungi dall’essere una mera evocazione millenarista, ha trovato immediatamente la propria collocazione nelle piazze.

La pesantezza della posta in palio è stata ribadita dagli indici finanziari del day after, con la borsa italiana a picco, trascinata nel baratro dai soliti titoli bancari, ed uno spread che si riavvicina a 200 dopo quasi tre anni. Dopo i giochini delle scorse settimane tra Roma e Bruxelles sulla Legge di Stabilità e le ambivalenti letture degli analisti economici più “autorevoli”, è ormai palese che i grandi poteri della finanza continentale stiano spingendo in ogni modo perché il 4 dicembre sia il SI a prevalere nelle urne. La volata elettorale si apre dunque con questa esplicita richiesta di compatibilità con gli interessi dei mercati finanziari, che diversi politici e quotidiani nazionali hanno immediatamente trasformato in uno spot per il SI. La bellezza di piazza del Popolo ha dunque fatto tremare i piani alti della governance, rendendo reale la possibilità della sfiducia organizzata dal basso verso il suo operato e la sua ideologia, verso il sistema neoliberale nel suo complesso.

Non era affatto scontato riuscire ad aprire uno spazio concreto in grado da un lato di demolire la retorica dell’accozzaglia messa in campo dal fronte del SI, dall’altro di far irrompere nella scena pubblica del NO riflessioni, pratiche ed agenda politica di movimento. Le contestazioni alla Leopolda del 5 novembre ed i cinquantamila della piazza romana, nell’intreccio dialettico tra radicalità ed allargamento, sono la rappresentazione più legittima di un corpo sociale sofferente, ma non più disarmato, dopo un decennio di crisi e politiche di austerità. Il problema non è stato mai soltanto quello di differenziarsi dal NO di Salvini, Grillo e dei vecchi tromboni della sinistra. Il problema principale, immediatamente trasformatosi in sfida, era e rimane quello di ridare un senso di possibilità a milioni di persone, dando forma politica a quel senso di rabbia, frustrazione e angoscia sociale che attanaglia il nostro Paese. Se tutto questo si trasformerà in una spinta in grado realmente di ribaltare gli attuali rapporti di forza è troppo presto per dirlo. Di certo l’intuizione politica di “C’è chi dice NO”, e le forme reticolari assunte dalla campagna, mutano le “condizioni di partenza” iniziando a trasformare la “palude italica” in un terreno nuovamente fertile per la movimentazione sociale.

La scommessa fatta dalla campagna approfondisce ancor di più la crisi che il mondo (vecchio, nuovo, ri-fondato) della sinistra istituzionale sta subendo da troppo tempo. La piazza di “C’è chi dice NO” ha superato i due timori che hanno attanagliato la sinistra al PD, sia partitica che sindacale, durante i mesi dedicati al referendum: coinvolgere i segmenti del lavoro vivo e dei subalterni e sfidare il partito-Stato di Renzi sul piano della mobilitazione e della presenza di massa. Dal primo punto di vista, l’assenza di radicamento si accompagna con la fobia del conflitto, connaturata al fatto che ogni mobilitazione rischia sempre di eccedere il perimetro fissato dalle organizzazioni istituzionali. Dal secondo, la totale subalternità all’estremismo di centro, così come ai crescenti populismi, sono la cifra della velleità di qualsiasi progetto di rifondazione della sinistra, anche con pretese di rottura istituzionale o di convergenza tra alto e basso. Il vuoto riempito da “C’è chi dice NO” deve fare i conti con il terrorismo e l’oscurantismo mediatici per continuare a vivere in questa settimana, ma soprattutto nei giorni immediatamente successivi al voto referendario. Il percorso fatto finora ha cominciato a sedimentare una politicizzazione di parte del “NO” alludendo ai suoi contenuti specifici e vertenziali che, necessariamente, vivono al di là della finestra temporale del voto. Può il NO, prendendo corpo nei territori, essere propulsore di convergenza e di apertura di un conflitto costituente, che riscriva davvero i rapporti di forza del nostro presente?

Tutto questo è possibile a partire da una continuità di iniziativa, politica e di piazza, che sappia leggere a fondo il sentire comune nella fase post-voto, soprattutto sulla base dei legami sociali territoriali che la campagna “C’è chi dice NO” ha contribuito a solidificare.

La dimensione territoriale è imprescindibile e fondamentale all’interno di questo percorso. Dietro lo slogan dei “territori in lotta”, più volte ripreso nelle piazze ed anche nella narrazione mediatica, si cela una delle contraddizioni fondamentali del nostro tempo. La relazione tra Stato e territori, che tocca uno dei nodi cruciali del referendum, ossia la riforma del titolo V della Costituzione, non può definirsi solo all’interno di un equilibrio tra poteri. La rivendicazione di autonomie territoriali non è una battaglia in favore degli enti di prossimità, che sicuramente lasciano più spazi di agibilità ai movimenti sociali rispetto alle istituzioni centrali, bensì una lotta che ambisce a creare nuove istituzioni del comune. Per questa ragione è necessario sovvertire qualsiasi concetto di territorio chiuso all’interno di confini etnico-geografici, mettendo in atto processi riappropriativi dei diritti, della ricchezza socialmente prodotta e della decisionalità. Ambizione all’autogoverno e capacità di confederare le esperienze ribelli sono, al momento, condizioni necessarie per uno sviluppo delle lotte nel periodo medio-lungo, partendo proprio dalle contraddizioni che hanno ottenuto un maggiore riverbero e un comune punto di riferimento nella campagna referendaria.

Le occasioni sono frutto dell’intersezione tra due linee: quella della virtù e quella della fortuna. Ma la relazione tra le due linee non è orizzontale, perché la virtù permette di prevenire e di modificare un possibile esito nefasto della fortuna. La creazione delle condizioni il più possibile favorevoli alla trasformazione radicale dell’esistente è compito della virtù. Dopo il voto, vedremo se i nostri presidi democratici saranno in grado di rafforzare i contenuti del NO, divenire forza d’urto e se il percorso fatto finora abbia dischiuso spazi di agibilità politica da praticare nell’immediato. Di sicuro, un primo bersaglio è stato centrato per permettere, in modo autonomo ed indipendente, a tutto lo spettro di lotte sociali ed a coloro che non si sentono rappresentati dalle forze partitiche di trovare cittadinanza e legittimazione. Una virtù che è difficile trovare se si rimane immobili.