Il futuro dell'Europa?

21 / 1 / 2015

Una settimana non da poco per l’Europa. 

Giovedì il Presidente della BCE Mario Draghi si troverà a decidere sull’attuazione e sui criteri del quantitative easing, la misura “storica” che rischia di frantumare quell’unità politica paventata nel cordone dello storico corteo dopo l’attentato di Charlie Hebdo. Il miraggio del federalismo europeo formale, a conduzione del dogma neoliberale (cioè austerità e riduzione del costo del lavoro), si infrange nelle resistenze tutte teutoniche provenienti da Merkel e dalla Bundesbank. Perché ovviamente può andar bene centralizzare delle quote dei debiti sovrani nazionali, immettere liquidità, ma non con il pericolo costante che un loro mancato pagamento possa ricadere sulle spalle dell’intera comunità europea. Nello specifico, sulle spalle di quei Paesi del nord dell’Europa più stabile che si dovrebbero fare carico del debito (e della colpa) del Sud.

All’egemone Germania non bastano le clausole del “patto con il diavolo” cui sarebbero costretti gli Stati membri dell’Unione secondo i parametri del provvedimento della BCE: accettare incondizionatamente i principi dell’austerità e del pareggio di bilancio. L’ossigeno artificiale che Draghi vorrebbe dare ai sistemi bancari nazionali avrebbe con ogni probabilità un contrappeso: aria in cambio di ulteriore sottomissione. Un altro colpo al defunto cadavere dello Stato-nazione e della sua sovranità e decisione. Ma per la “locomotiva della rigidità” del Vecchio Continente ci sono delle conseguenze politiche che riguardano l’equilibrio gerarchico delle relazioni comunitarie. Come fare ad approvare una misura finanziaria che rischia di mettere in crisi l’economia tedesca in caso di default dei debiti acquistati? Della serie, va bene l’unità, ma soltanto se ognuno – cioè i più ricchi – non devono fare compromessi rispetto all’accumulazione della propria ricchezza. Da cui l’ipotesi plausibile della responsabilità nazionale se vi fosse un esito negativo nella restituzione del valore di un titolo.

Possiamo, però, scorgere un altro pericolo di cui Merkel teme la realizzazione. Nel momento in cui si avvicina la scadenza elettorale greca, che vede in testa ai sondaggi una Syriza schieratasi per la ristrutturazione del debito sovrano, com’è possibile parlare di rispetto dell’austerità? Il rifiuto che potrebbe fuoriuscire dalle urne elleniche non solo è incompatibile con dei termini pseudo-accettabili del quantitative easing, ma è anche una voce dissonante interna alla monotonia politico-economica dell’austerity. Come vedere, altrimenti, i moniti provenienti anche dalla Commissione di Juncker e dal capo del FMI Lagarde? Esorcizzano uno spirito che potrebbe impossessarsi della Grecia. “ Un debito è un debito ed è un contratto”, commenta Lagarde. Cioè un obbligo, un dovere, che non si può rompere fino al suo adempimento.

Se da un lato la BCE tenta una centralizzazione, un ulteriore passo per ridefinire in modo ancor più stringente i rapporti di potere, dall’altro sottovaluta questa potenziale anomalia che si presenta nei fondamenti politici e giuridici dell’Unione Europea. E la Germania, da buona paladina del fondamentalismo neoliberale, ha notato la portata di tutto questo. Quali creditori, infatti, saranno anche solo intenzionati ad acquisire le obbligazioni emesse dalla Grecia che rompe i patti? Al deserto d’investimento finanziario che può crearsi consegue un aggravamento della crisi, contagioso in tutta l’Eurozona. Per non parlare degli effetti disastrosi che potrebbe avere una fuoriuscita, certamente non nel programma di Syriza, ma valutata dai potentati finanziari e politici come deriva possibile. Infatti, non mancano gli accanimenti da parte dei centristi e socialisti greci sulla scelta secessionista insita nel programma di Tsipras, soprattutto dopo la dichiarazione di sostegno da parte di Le Pen (con accuse che rasentano l’assurdità, per esempio le insinuazioni sull’alleanza a Bruxelles tra Syriza e il Front National).

L’ignobile demonizzazione e l’aggressione mediatica che sta subendo il partito di Tsipras, e di riflesso Podemos in Spagna in vista delle amministrative, ha origine da questo. Le possibili soluzioni (in entrambi i casi comunque riassestamenti della governance per far fronte alla vittoria dei suddetti partiti) sono però molteplici e dividono l’Europa. L’unità formale, il sogno del federalismo tanto auspicato da alcuni politici nostrani tra gli altri (vedi Napolitano), sfuma ancora una volta di fronte alla costituzione materiale dell’Europa, composta da interessi sovranazionali e allo stesso tempo da potentati che si ritagliano dei confini ben precisi. Una costituzione materiale che contiene già in sé il suo diritto a difesa del peso decisionale tedesco, giacché meglio rappresenta la tutela del capitale europeo dal punto di vista discorsivo e dell’efficacia. Non saranno di certo le spinte riformistiche di Draghi, o un’intensificazione della coordinazione poliziesca a livello comunitario a metterlo in discussione.

Che sia questa nuova esperienza istituzionale greca, ma che ha delle radici nei conflitti e nell’autorganizzazione, a incrinare una tale costituzione? Men che meno le istituzioni della rappresentanza moderna statuale sembrano perdere il loro carattere formale di “ratificazione” della gerarchia della decisione. La morsa che si sta stringendo attorno a Syriza è pressante e trova la sua incisività proprio nei rapporti di forza che, fin ora, hanno costituito politicamente il nostro Continente.