Il diritto a respirare

22 / 5 / 2021

Nell’immaginario collettivo della globalizzazione si è fissato, indelebile, il grido straziante di George Floyd, «I’ can’t breathe», poco prima di morire ucciso dalla polizia.

Questo grido - «non respiro, soffoco» - è diventato un simbolo che racchiude una molteplicità di significati e si è trasformato in un’enorme mobilitazione continua, ovunque nel mondo, contro il razzismo, la discriminazione, la violenza del potere. Le manifestazioni moltitudinarie della scorsa estate hanno visto moltissimi giovani e giovanissimi, tantissime donne, occupare piazze e strade delle città, prendere parola, creare grandi “corpi” collettivi contro il potere e l’ingiustizia sociale. Mai come in quella fase si sono palesati e incarnati materialmente alcuni concetti che innovano e attualizzano la tradizione marxiana, “Marx oltre Marx”, per ridefinire e riadeguare le prospettive della lotta di classe contro il capitale. Così, concetti chiave quali biopolitica e biopotere si sono rivelati in tutta la loro pregnante attualità: la sussunzione reale, di marxiana memoria, si completa con la sussunzione del “vivente”, umano e non umano, nei meccanismi della valorizzazione capitalistica.

Cosa di più vitale del respiro? La sussunzione del bios nel capitale svela i confini estremi attorno ai quali si sviluppa la nuova economia politica del “vivente “e le caratteristiche della “governamentalità” neoliberale: la vita e la morte. Nel definire il biopotere, Foucault coniava una espressione efficace: il potere di far vivere o di lasciar morire. Non è un caso che questa elaborazione di concetti foucaultiani deriva dai suoi studi sulla medicina e sulla “medicalizzazione” della società: potere di guarire, ma anche strumento di controllo sociale al servizio del dominio di classe, tra i poli estremi della vita e della morte, come emerso prepotentemente durante l’emergenza Covid-19.

Un potere a due facce, come Giano bifronte, sempre sul punto di trasformarsi in tanatopolitica o in necropolitica, come sostiene Achille Mbembe, una tra le più importanti e interessanti figure degli studi post-coloniali contemporanei. Ovvero, potere di uccidere, escludere, ghettizzare, discriminare, colonizzare, rendere sacrificabili intere popolazioni, distruggere, devastare, demolire i mondi della vita, sociali e naturali.

Corpi straziati dalle bombe, abitazioni distrutte, gentrificazione, come in Palestina; lasciati morire in mare, come i migranti; uccisi dalle multinazionali e dai governi corrotti per la difesa della propria terra, come in America latina; l’ emarginazione dei senza-diritti, come nelle metropoli europee. Corpi e ancora corpi, che rendono materiale e radicale il conflitto di classe, togliendolo dall’astrazione e misurazione del lavoro attraverso cui funziona l’economia politica classica del capitale. Il mondo contemporaneo sotto il comando del capitale non offre alcun criterio di “misura”: lo sfruttamento è “smisurato” e si dispiega in tutte le reti della vita e della riproduzione.

Questo accento biopolitico si trova già in Marx, nel concetto di “lavoro vivo” e ricordiamo un primo esempio di “inchiesta operaia”, La situazione della classe operaia in Inghilterra, di Engels, in cui si parla concretamente degli operai come soggetti, uomini, donne, bambini, sottomessi al regime di fabbrica, al dominio sui loro corpi, sul loro tempo di vita, sui loro cervelli. Così dice Marx, da autentico materialista che analizza la genesi del capitalismo nell’accumulazione originaria con accenti fino in fondo biopolitici, nel libro primo del Capitale: «Poiché in primo luogo, per quanto differenti possano essere i lavori utili o le operosità produttive, è verità fisiologica che essi sono funzioni dell'organismo umano, e che tutte tali funzioni, quale si sia il loro contenuto e la loro forma, sono essenzialmente dispendio di cervello, nervi, muscoli, organi sensoriali, ecc. umani». Le centinaia di pagine che il Libro I consacra alla violenza esercitata sui lavoratori ‒liberi e schiavi, uomini, donne e bambini, immigrati ‒ sono di sorprendente attualità.

Anche la “questione palestinese” acquista oggi, nella “nuova accumulazione originaria”, che si ripete in forme diverse ad ogni crisi del capitale, un’inedita configurazione. Dalla grande manifestazione di Detroit, a Sidney, all’Italia, migliaia e migliaia di persone contro la violenza dei dominatori, dei colonialisti di Israele, per la libertà dei palestinesi e per il diritto all’autodeterminazione. La molla è l’indignazione, che, come diceva Spinoza, scatta di fronte a chi fa del male ai più deboli, a ciò che diventa insopportabile allo sguardo, l’inizio di una presa di coscienza, di “soggettivazione”, il campo di intervento per una possibile nuova composizione di classe, moltitudinaria e anticapitalista.

La presenza di tanti giovani, le stesse mobilitazioni di palestinesi di seconda o terza generazione, di molteplici soggettività intersezionali che da tempo sono già evidenti nelle lotte contro i cambiamenti climatici e alludono a un orizzonte strategico di lotta contro il capitale prefigurando, potenzialmente, nuove ed altre forme di vita. L’eccedenza spontanea dei nuovi movimenti apre uno spazio determinante per la rivoluzione sociale: niente di predeterminato, si tratta di processi e di tendenze da cogliere nel loro divenire e che offrono una straordinaria opportunità storica nel rapporto, sempre rinnovato, tra spontaneità e organizzazione.

È evidente che i grandi movimenti espressi in questa fase storica, pur parzialmente bloccati dall’emergenza Virus, hanno sedimentato un sentire comune, una base ontologica che attraversa i corpi di giovani generazioni. Ciò permette di riconsiderare il rapporto tra storia e memoria: la memoria non è archeologia, non può essere relegata in un sarcofago, non è memoria morta, bensì flusso vivo e vivificante, che scorre sotto le linee del tempo, che si riattualizza in forme sempre nuove nel desiderio di liberazione contro l’oppressione, contro il “soffocamento” del dominio di classe. Memoria non come ripetizione del sempre uguale, come identità cristallizzata e feticistica, bensì come ripetizione del sempre “differente”, ciò che rinnova e si trasforma. Nella misura in cui la vita è sussunta nel capitale, la vita stessa non può mai essere interamente catturata dai meccanismi della valorizzazione: essa resiste al potere, anche nei limiti estremi, non è mai “nuda vita”.

Nei nuovi movimenti, e anche nelle recenti mobilitazioni per la Palestina, si “respira” un’aria differente dalle vecchie memorie cristallizzate, feticistiche ed identitarie. Più che Stato e Popolo, scorre l’idea della libertà, dell’autonomia, contro l’oppressione neocoloniale non solo di Israele, ma del capitalismo a livello globale.