Il CIE di Gradisca ormai inagibile - Ora chiuderlo definitivamente

Incendiato nella notte. Rimangono circa 24 posti dei 248 ufficiali

31 / 10 / 2013

Duecentoquarantotto posti ufficiali, da ormai due anni ridotti a sessantotto. E da questa notte il CIE può contare solamente circa 24 posti disponibili.
Sono le cifre che raccontano la drammatica realtà del "mostro di Gradisca d’Isonzo". Numeri che raccontano la disperazione di chi vi è trattenuto, la continua compressione dei diritti a cui sono costretti gli ospiti forzati che, a tempi scadenzati, danno vita a rivolte e proteste per rivendicare libertà, per lanciare l’allarme sulle condizioni disumane a cui sono sottoposti.
L’ennesima è di questa notte. Materassi bruciati, vetrate frantumate, reti divelte.
Così da oggi il CIE è nei fatti chiuso. Con sole 3 stanze funzionanti, 5 dichiarate inagibili già in mattinata dai Vigili del Fuoco, ed altre 23 in ristrutturazione dal 2011.
Rimangono circa una cinquantina di migranti costretti all’attesa nel campo da calcio esterno.

Sulla presenza del CIE nel territorio isontino si era già espresso il Consiglio regionale con una mozione che impegna la Regione ad agire nei confronti di Prefettura, Questura ed ente gestore affinché garantiscano i diritti minimi di comunicazione e quelli di accesso da parte dei consiglieri, evocando la chiusura qualora le condizioni di vita all’interno del centro continuassero ad essere deplorevoli. Anche la Provincia di Gorizia, con un comunicato di Giunta si era espressa chiedendo la chiusura immediata del centro, così come lo stesso Comune di Gradisca. Il Presidente della Commissione Diritti Umani del Senato si era espresso nella stessa direzione. Non mancano certo rapporti sulle condizioni di vita all’interno della struttura così come non manca documentazione che attesti le continue violazioni, della libertà personale e dei diritti di difesa, a cui spesso sono sottoposti i migranti "trattenuti" (il prossimo 8 novembre sul tema si terrà proprio un convegno a Trieste. Così come è ormai evidente il fallimento dei suoi stessi scopi, laddove milioni di euro vengono impegnati per la detenzione fino a diciotto mesi di chi è privo del permesso di soggiorno, con l’obbiettivo dichiarato di eseguirne l’eslulsione, mentre invece i numeri dei cittadini stranieri espulsi, a fronte delle ingeniti somme investite, risulta pressoché ridicolo.

Cosa manca allora? Perché ancora quel CiE rimane lì a ricordare la brutalità delle leggi dell’immigrazione italiane ed europee?
Perché il sistema della detenzione amministrativa ha radici ben più profonde dei sui scopi dichiarati, affermatosi come perno strutturale nella gestione delle politiche migratorie europee, risulta essere un nodo imprescindibile per l’Europa di Shengen, discriminante stessa per l’appartenenza degli stati allo spazio comune.

Si tratta insomma dell’altra faccia, quella interna, del meccanismo infernale che impone le morti nel mare a Sud di Lampedusa, un dispositivo che continuamente ripropone il confine come minaccia a chi pensava di averlo ormai attraversato una volta per tutte.
A fronte di tutto ciò, quelle mura che delimitano le celle ormai distrutte del CIE di Gradisca risultano ancor più fastidiose, ancor più minacciose, richiamano con ancor più forza la necessità di mettere fine all’esperienza del CIE isontino così come degli altri.

Si tratta però di produrre non solo denuncia, non solo dichiarazioni di intenti, non solo racconto, ma anche e soprattutto un’inversione culturale e sociale di quella tendenza che negli ultimi anni ha reso indifferente ai più la realtà dei CIE. Si tratta insomma di mettersi in cammino per dare forza a tutti quegli strumenti che possono permettere di ottenere la chiusura definitiva, formale ed ufficiale del CIE di Gradisca, così come la non riapertura di quelli di Modena, Bologna e Crotone, anche con il coraggio di riprendersi le strade e le piazze per affermare questa volontà, sancita anche da molte istituzioni locali.
Non c’è più tempo per aspettare.