Il cerchio magico e lo stargate

ovvero come passare dalla realtà bloccata del capitalismo ad un mondo in movimento

29 / 3 / 2012

Il dibattito pubblico aperto dalla controriforma del mercato del lavoro ha giustamente evidenziato l’allineamento italiano al programma di interventi strutturali neoliberisti che si dispiega in tutta Europa.

Sembra che finalmente si entri nel merito delle questioni non più nella forma fasulla dell’unanimismo dettato dall’emergenza, ma del conflitto tra parti ed interessi diversi, contrapposti. Il “cerchio magico” generato a partire dall’utilizzo della crisi sul debito e che aveva consacrato il “tecnico” come infallibile e giusto, oltre e contro la “politica”, si è spezzato.

E’ chiaro, in particolare per l’articolo 18, che la tecnica non c’entra. O meglio essa è quello che deve essere, e cioè uno strumento della decisione politica. Il Governo Monti applica dunque una tecnica di governance che trae la sua ispirazione da una precisa linea politica, egemone per ora in tutta Europa. Un liberismo della crisi che mostra ancora, nonostante la grande agitazione dei suoi apologeti ed interpreti, tutte le sue debolezze piuttosto che la sua forza.

Gli interventi di quella che abbiamo definito come una lobby autoritaria che si è impadronita del governo in Europa, formata da uomini politici ed esperti di economia al loro servizio, da agenzie di rating e da manager di grandi banche commerciali, da grandi rentier padroni di fondi di investimento, non stanno producendo infatti nessuna uscita dalla crisi. Anzi, se la crisi la vediamo come effetto di una diseguaglianza marcata e progressiva tra il lavoro e il capitale finanziario, ma potremmo anche definirla come diseguaglianza di classe, allora potremmo spingerci a dire che fino ad ora essa viene alimentata, approfondita, rinforzata proprio da queste politiche.

La debolezza dunque sta nel fatto che coloro che sono al comando non solo non sanno bene che fare, ma quello che fanno aumenta ciò che ha generato la crisi stessa. I tecnici non sono avidi in sè, anche se l’evidente differenza tra i loro patrimoni e quelli di tutti gli altri cittadini comincia ad intaccare una certa propensione al vivere bene alle spalle di altri che vivono male ha ormai inquinato la reputation di sobrietà che in qualche modo orientava la loro etica pubblica.

Non è una questione di eccessi, ma strutturale: il capitalismo contemporaneo e la sua crisi sono il frutto dello scontro tra due forze contrapposte che si sono dimostrate ancora una volta irriducibilmente antagonistiche: il capitale ed il lavoro. Sono due forze mutate nel tempo ma che hanno conservato intatta la loro vocazione originaria. Il sogno neoliberista di vedere trasformata qualunque relazione sociale secondo il modello dell’impresa, si è scontrato con la materialità di una resistenza soggettiva senza narrazione, a volte condotta per inerzia e in termini passivi, ma maledettamente concreta: quella di coloro che dovevano incarnare il modello sociale stesso, cioè il capitale umano, sia nella forma dei dipendenti, sia in quella ossimorica “dell’imprenditore di sé stesso”.

Secondo i programmi neoliberisti, che hanno costruito l’ideologia ancora oggi in voga della fine del conflitto tra capitale e lavoro, questa resistenza doveva essere rapidamente annullata. Non è stato così, e questo ha generato il disastro finanziario che conosciamo.

Il credito al consumo, che doveva essere una leva per agevolare l’armonia di un sistema, si è rapidamente trasformato nel debito di cittadinanza, segnalando che il vero problema è l’impossibilità di creare processi di nuova accumulazione, di nuovi profitti. E’ come se la resistenza delle persone a farsi assoggettare pacificamente, avesse costretto ad emergere ciò che era occultato o semplicemente rimandato in avanti dal marchingegno finanziario.

La promessa di nuova ed illimitata ricchezza nel futuro, distribuita a tutti, è finita. Insieme a quest’ultima si conclude la parabola fordista della piena e stabile occupazione e la scena è occupata invece dalla povertà, dal taglio di salari e pensioni e dalla mancanza di reddito. Che il capitalismo produca precarietà non può più negarlo nessuno, e i tentativi di mantenerlo in vita riconfermano e aumentano la crisi. Ma sbaglieremmo a considerarla una scelta folle da parte dei neoliberisti: è una lucida determinazione di classe quella che motiva politiche feroci, come quelle imposte sulla Grecia, perché non c’è più nessuna new economy, nessun positivismo industrialista, nessun capitalismo cognitivo o della libertà e dell’indipendenza, ai quali appendere le sorti di miliardi di persone. Può solo estendersi e giungere ancora più in profondità sulla sfera della vita stessa, lo sfruttamento che genera plusvalore assoluto.

Il che significa bassi salari, lavoro non retribuito e non riconosciuto, allungamento dei turni e accelerazione dei ritmi, tagli ai servizi, precarizzazione delle condizioni generali di vita.

La battaglia sull’articolo 18 in Italia, in realtà ha dentro tutto quello che si sta vivendo anche negli altri paesi europei. Attraverso di essa si è riaperto lo “stargate”, quel tunnel fantascientifico dal quale si accede da un mondo all’altro, che ci permette di rendere attiva, progettuale, efficace e consapevole quella resistenza senza narrazione che caratterizza l’antagonismo materiale tra le forze in campo, tra chi è padrone e chi è sfruttato, tra chi produce e chi vive di rendita. Si è rimesso a girare lo “stargate” quando si sono combinati alcuni fattori, che tenuti separati, non producono nulla.

La grande scommessa della Fiom innanzitutto, che ha creduto ed investito, anche per convinzione ideale ed etica, su quel capitale umano che da dentro le fabbriche doveva essere addomesticato e invece si ribella. Oggi, dopo che in molti avevano pronosticato sull’isolamento politico dei metalmeccanici dentro la Cgil e nel paese, essi sono il perno di una opposizione sociale maggioritaria, che si trascina dietro tutto il resto.

Altro fattore chiave è la crisi di consenso dei partiti, sulla quale inizialmente ha giocato proprio il governo dei tecnici per accumulare legittimità nel paese e mano libera in Parlamento. Oggi quella stessa crisi, brandita come un’ascia da un Monti molto acido e supponente, potrebbe trasformarsi in una necessità da parte dei cittadini di organizzarsi diversamente, piuttosto che delegare ai tecnici la politica. Allo stesso tempo i partiti, e qui parliamo della sinistra, potrebbero essere costretti a schierarsi nettamente da una parte o dall’altra, mettendo in soffitta l’idea della Grande Coalizione costruita attorno al banchiere di turno. Monti, il tecnico, è un interprete perfetto del liberismo in crisi: il tentativo sottotraccia di trasformare l’economia in ideologia, comincia ad affiorare.

Quale senso avrebbero altrimenti le retoriche che vedono i sacrifici fatti dai padri per dare un futuro ai figli, i nipoti, per chi non è ancora nato? Questa immagine, che ha fatto la fortuna del premier e dei ministri lacrimanti, si sta incrinando paurosamente. Vuoi perché i padri e i figli, generalmente e in particolare in Italia, ormai condividono col nonno e con i nipoti quel poco che hanno, sommando la pensione di uno al salario di un altro per pagare le tasse universitarie a quell’altro ancora. La struttura familiare italiana, da sempre utilizzata come grimaldello per favorire politiche conservatrici fondate sulla struttura lavorista-patriarcale, potrebbe trasformarsi in un boomerang per gli stessi che l’hanno coccolata e adorata. Se tra le mura di casa, i “bamboccioni” sono sempre più figli precari che non possono permettersi di uscire di casa, i “padri privilegiati” appaiono per ciò che sono, operai sfruttati perfino sulle pause mensa, che lavorano come i matti e restano poveri. Se non va in porto l’operazione ideologica del metti i figli contro i padri, Monti è messo male.

Si potrebbe cominciare a discutere, in famiglia, quali siano le politiche attive per creare il lavoro, piuttosto che quelle per agevolare i licenziamenti. Cominciare cioè a far circolare idee di alternativa alle ricette imposte dal pensiero unico liberista. Attorno all’articolo 18, allo sciopero generale i maggio, possiamo di nuovo pensare ad un passaggio di fase, che ci trasporti via dal mondo asettico ed arrogante dei tecnici della governance verso un governo dei cittadini dell’italia e dell’europa, contro e oltre la crisi.