Berlusconi si porta a casa brillantemente 4 reattori nucleari che nessun altro vuole in giro per il mondo. Per spenderci almeno venti miliardi di euro ( a meno del raddoppio tipico delle centrali nucleari) e farci, se va bene, il 15% dell'energia elettrica nel 2030.

Il capitale atomico

Sulla scia dell'Obamiano “ritorno al nucleare”, che non è altro che (l'inizio di) uno scambio al Senato con i Repubblicani per far passare il “Climate Bill”, ovvero la Green Economy.. intanto parecchie decine di miliardi manterranno in vita lo spin-off del complesso militare-industriale del secolo scorso.

12 / 4 / 2010

È di pochi giorni fa la notizia che Italia e Francia hanno stretto un patto atomico, che prevede per il 2030 la costruzione di 4 reattori EPR, la tecnologia di Areva, la principale ditta del nucleare francese (una tecnologia che già ora ha sostanzialmente trent'anni).

Una soluzione tanto brillante che vale la pena di contestualizzarla con qualche banale considerazione quantitativa.

Secondo le previsioni dell'Energy Outlook europeo, per il 2030 la produzione di energia elettrica della EU maggiore rispetto ad oggi di circa il 50%. Per l'Italia questo significa approssimativamente 450 TWh all'anno,ovvero l'equivalente di circa 60 impianti da 1GW che funzionino ognuno a pieno regime per l'85% del tempo. Questo significa che 4 impianti EPR – che appunto sono tipicamente dimensionati ad 1GW ed hanno un capacity factor pari a circa 0.85 – forniranno circa il 7% del fabbisogno di energia elettrica (e solo di quella: nell'attuale scenario energetico ciò significa circa il 3% dell'energia totale).

Potrebbe anche sembrare una buona frazione.

Tuttavia è un dato da incrociare con un altro, che otteniamo dando un'occhiata agli scenari del programma europeo di valutazione dei potenziali di risparmio energetico, che forniscono, per vari scenarii, la quantità di energia risparmiabile grazie all'aumento di efficienza mediante l'utilizzo di tecnologie già esistenti. Per il 2030, anno per il quale i 4 reattori dovrebbero entrare in funzione, l'unione europea indica, in uno scenario medio, la possibilità per l'Italia di risparmiare dai 70 agli 86 TWh, ovvero da 2 a tre volte l'energia elettrica che verosimilmente quei 4 reattori dovrebbero produrre.

E già questo è certamente un dato suggestivo.

Bisognerebbe aggiungere qualche altra considerazione. Ad esempio, il fatto che quei 4 reattori impiegheranno circa dai 5 ai 10 anni per produrre una quantità di energia pari a quella che è stata necessaria per costruirli, e almeno altri 5 per produrre l'equivalente dell'energia che servirà (forse) a smantellarli. Calcolando un ciclo di vita di 40 anni, si ottiene che dal 25 al 40% dell'energia prodotta servirà esclusivamente a permettere ai reattori stessi di esistere. E di guadagnare denari a chi li ha costruiti – con la copertura pressoché totale dell'investimento da parte dello stato (come succede ovunque, Francia compresa, nonostante i proclami del nostro governo) – e vende poi la loro energia. Energia utile solo a questo, perché con un intelligente piano di adeguamento tecnologico, ci dice la EU, avremmo potuto risparmiarcela.

Sicuramente butteremo un sacco di denari ma, dal punto di vista del funzionamento, c'è la possibilità che i reattori siano una sòla fino in fondo e che mai comincino a produrre nemmeno un Watt-secondo di energia. Infatti, Areva ha appena perso un contratto da 20 miliardi di euro ad Abu Dhabi perché i possibili acquirenti hanno fatto prima un viaggio in Finlandia e hanno scoperto che il reattore EPR di Olkiluoto (commissionato sempre ad Areva) ha accumulato 44 mesi di ritardo 3.3 miliardi di euro di sovra-costo. L'EPR che EdF (Energie de France, partner di Areva) sta costruendo a Flamanville dal 2007 ha già accumulato un anno di ritardo e 1 miliardo di euro di sovra-costo.

Quello Finlandese è comunque l'unico EPR costruito al di fuori della Francia (dei due previsti in Cina non si hanno notizie certe, ma pare che solo uno sarà – forse – terminato e l'altro abbandonato): finora Sarkozy ha siglato solo “accordi di cooperazione” (simili a quello con l'Italia). Nel frattempo un progetto iniziato in Missouri con la partnership di AmerenUE, una company statunitense, è naufragato nel 2009 perché, secondo le parole di T. Voss, CEO di AmerenUE, “a large plant would be difficult to finance under the best of conditions, but in today’s credit constrained markets, without supportive state energy policies, we believe getting financial backing for these projects is impossible”. Vale a dire che il parlamento del Missouri ha rifiutato la possibilità che AmerenUE scaricasse sui cittadini gli oneri di costruzione e, contemporaneamente, i sussidi del piano Bush erano ampiamente insufficienti. Ecco spiegato, naturalmente, il “ritorno al nucleare” di Obama che non è altro che (l'inizio di) uno scambio al Senato con i Repubblicani per far passare il “Climate Bill”, ovvero la Green Economy.

I 18 miliardi di dollari stanziati da Bush sarebbero stati sufficienti al massimo per un paio di centrali da 1GW (costo unitario stimato da Moody's: 7.5 miliardi di dollari). Troppo pochi, in ogni caso, per l'industria nucleare i cui investimenti sono a fortissimo rischio finanziario (fino al 50% secondo il Budget Office del Senato USA), tanto che, nell'estate del 2007, 6 fra le maggiori banche d'investimento a Wall Street (Citigroup, Credit Suisse, Goldman Sachs, Lehman Brothers, Merrill Lynch e Morgan Stanley – ed era prima della crisi..) rifiutarono di investire nella “rinascita nucleare” a meno che lo stato non garantisse il 100% dei prestiti. E troppo pochi comunque per i previsti 21 nuovi reattori (la cui potenza assommerebbe al 2% circa della produzione elettrica USA) che secondo il DOE (dipartimetno dell'energia) costerebbero circa 188 miliardi di dollari.

Del resto, anche il National Audit Office (la corte dei conti britannica) è allarmato dal fatto che la cessione di British Energy ad EdF non garantisca affatto che quest'ultima si accolli totalmente le spese del supposto rilancio nucleare britannico (11 reattori): nel contratto di vendita non c'è alcun obbligo per EdF a procedere, mentre è chiaro che, nel caso, se la compagnia non potesse sostenere i costi di smantellamento e smaltimento questi dovrebbero essere comunizzati.

Una tecnologia finanziariamente infida, carissima e tutt'ora insicura (certamente per quanto riguarda le scorie e per la lista infinita di micro non-così-micro incidenti) che non ha nemmeno il pregio di essere utile a risolvere i due problemi principali della crisi energetica: la durata delle risorse primarie e l'impatto antropico sul clima.

Nei prossimi tempi vedremo nel dettaglio i singoli aspetti del nucleare: intanto, come chiusura di questo breve commento, è utile inquadrare quantitativamente il supposto “azzeramento” delle emissioni che il nucleare dovrebbe consentire.

Stante che è estremamente difficile quantificare quanta CO2-equivalente venga emessa durante il ciclo di vita di un impianto – e stante che i produttori di uranio e i costruttori di centrali riescono sempre a dimostrare che se ne emette tanta quanta fumandosi una sigaretta – alcune studi sensati stimano una produzione pari a circa il 10, 20 o 40% di un impianto a gas naturale, a parità di potenza e stanti le attuali condizioni di approvvigionamento, ovvero di concentrazione dell'Uranio scavato. Poiché le riserve ad alta concentrazione vanno rapidamente esaurendosi – tanto più se proiettiamo la pretesa “rinascita nucleare” – le emmissioni stimate nel ciclo di vita (costruzione, approvvigionamento e smantellamento) raggiungono e superano abbondantemente quelle di impianti a idrocarburi nell'arco di 20 o 30 anni.

Tuttavia, supponiamo per qualche riga che effettivamente il nucleare azzeri le emissioni: quale sarebbe il risultato netto sulle emissioni totali di CO2 ? Evidentemente dovremmo sottrarre alle emissioni odierne (o a quelle proiettate nel futuro) la percentuale di emissioni dovute alla produzione di elettricità in ragione della frazione prodotta via nucleare. Attualmente solo il 17% dell'energia utilizzata alla fine dei processi di trasformazione è in forma di energia elettrica (ricordiamo che il nucleare serve a generare esclusivamente questa – oltre ad un mucchio di calore che si disperde): tuttavia la sua produzione è responsabile di circa il 30% delle emissioni di CO2. Tale frazione rimane inalterata nelle proiezioni al 2050 della EU (che pure già prevedono un aumento della frazione prodotta per via nucleare).

Gli USA sono il paese più nuclearizzato (hanno circa 108 centrali) e producono soltanto il 20% della loro energia elettrica in questo modo: supponendo che tutti i reattori – già quasi tutti ben oltre i 30 anni di vita – venissero rinnovati invece che dismessi, e supponendo che la richiesta di energia aumenti di solo il 50% al 2050 rispetto ad oggi, questo significherebbe diminuire le emissioni USA del 13%, con un investimento di 1 o 2 trilioni di dollari in circa 10 o 20 anni per la sola costruzione delle centrali, senza contare l'indotto di supporto e lo smantellamento. Se estendiamo ad una dimensione globale ci troviamo con uno scenario in cui è necassaria la costruzione di migliaia di impianti, al ritmo di decine all'anno, di almeno una decina di nuovi impianti di processamento e altrettanti depositi delle dimensioni di Yucca Mountain (che dopo 20 anni ancora non è pronto e sta costando miliardi di dollari senza alcuna reale previsione di operatività).

Il caso dell'Italia lo riscaliamo più in piccolo e otteniamo, per il piano Berlusconiano, circa un 4%, che risponde da solo a chi nomica il nucleare come una delle strade maestre per abbattere le emissioni.

 E con un esagerato wishful thinking stiamo assumendo che il nucleare abbia zero emissioni di CO2..

L'unica cosa certa è che il nucleare – in sé il dinosauro fossile ereditato dallo sviluppo del complesso militare-industriale della metà del secolo scorso – funziona brillantemente come sistema di drenaggio di una enorme quantità di denaro per il quale tutti noi sapremmo inventarci destinazioni molto più sexy.