«Il cambiamento non può venire da chi ha sempre costruito ingiustizie». L’intervento di Marco Armiero all’Eco Social Forum di Napoli

4 / 8 / 2021

Pubblichiamo l’intervento integrale di Marco Armiero - storico dell'ambiente e direttore dell'Environmental Humanities Lab del Royal Institute of Technology a Stoccolma – all’Eco Social Forum, il controvertice sociale contro il G20 tenutosi a Napoli lo scorso 21 luglio.

Ringrazio le organizzatrici e gli organizzatori di questo contro-forum per avermi invitato. Perchè serve un contro-forum? Un po’ di gente là fuori si starà chiedendo: “ma non è una cosa buona che i grandi del mondo si occupino di ambiente e energia? Perché non siamo contenti e contente che stanno chiusi lì dentro a parlare del nostro pianeta e del nostro futuro?”.

È probabile che la maggior parte di quelli che la pensano così non vivano sulla loro pelle cosa significhi subire l’ingiustizia ambientale, non avere i soldi per proteggersi dalle ondate di calore o averne abbastanza di soldi per vivere dal lato giusto della propria città, del proprio paese, dell’intero pianeta. Difficile che chi la pensi così sia una indigena che ha vissuto l’apocalisse e fa i conti con il settler colonialism tutti i giorni. Non la pensano così gli Ogoni che vivono nel delta del Niger l’inferno del capitalismo estrattivista fossile oppure gli indigeni e agricoltori della zona di lago Agrio in Ecuador che inutilmente hanno cercato giustizia per 25 anni di contaminazione petrolchimica in una corte di giustizia. E non la pensa così chi vive nella Terra dei fuochi in Campania, sostanzialmente nella discarica del benessere di qualcun altro, oppure chi è cresciuto nell’area Est di questa città, all’ombra dei depositi di combustibile, che ancora ricorda quel 21 dicembre del 1985 quando l’inferno si materializzò in quel quartiere con l’esplosione dei depositi di benzina.

Tutte e tutti quelli che vivono l’ingiustizia sulla loro pelle sanno bene che il cambiamento non può venire da chi ha costruito, sanzionato quell’ingiustizia, reprimendo ogni forma di protesta e richiesta di cambiamento. Chi attende soluzioni dai potenti rinchiusi in quel palazzo si vede che non sta cercando il cambiamento - sta bene come sta; quello che vuole è difendere i privilegi non abbatterli.  

C’è anche un'altra bugia nella idea che dovremmo pensare in positivo perché finalmente i grandi della terra hanno deciso di occuparsi di ambiente e energia. Come se non se ne fossero occupati fino ad oggi. Invece se ne sono occupati eccome. Direi che ad essere proprio precisi, non se ne sono occupati, ma lo hanno proprio occupato il pianeta tutto. Pensate ad esempio al Land Grabbing, cioè a quel fenomeno per cui governi stranieri o anche corporations prendono il controllo di grandi porzioni di terra; secondo la Banca Mondiale, non esattamente un gruppo di attivisti radicali, dal 2007-08 circa 45 milioni di ettari sono stati oggetto di land grabbing. Forse vale la pena di ricordare il sistematico uso di quello che nella letteratura scientifica viene chiamato l’environmental dumping, ovvero la pratica di trasferire e(o produzioni pericolose in paesi terzi, dove i regolamenti ambientali siano meno rigidi. Un report abbastanza recente, del 2020, dal titolo inequivocabile Manufacturing pollution in sub-Saharan Africa and South Asia, ha rivelato chiaramente come il Global North esporti industrie inquinanti in quei paesi; non solo inquinanti ma anche ad esempio a grande consumo di acqua in regioni dove l’acqua scarseggia (water grabbing). 

Insomma la questione non è che finalmente i grandi si occupano di ambiente e energia, perché come ho detto, se ne sono sempre occupati. È ragionevole aspettarsi un cambiamento radicale da chi ha causato la crisi socio-ecologica? Tanto per fare un esempio: davvero chiedereste ai ladri che hanno svaligiato la vostra casa tante volte di installare l’allarme? Vi immaginate una comunità indigena del sud America chiedere ai conquistadores un piano per migliorare le loro condizioni di vita? Sono esempi ridicoli, non credete? Esatto, come ridicolo è pensare che la soluzione alla ingiustizia ambientale possa venire da chi ha costruito la sua “grandezza” su quella ingiustizia. Facendo lo storico, il passato è il mio mestiere; e dunque fatemi dire con chiarezza che la grandezza, se preferite il successo di alcuni paesi, è il prodotto di quella ingiustizia -- pensate solo per un momento se dovessimo riparare a quanto abbiamo sottratto con secoli di colonialismo.

L'assenza di un chiaro riferimento ai temi della giustizia ambientale ed energetica è la dimostrazione del fatto che riconoscere l’esistenza della crisi ecologica non assicura certo una agenda progressista. Come ci ha insegnato Naomi Klein, il capitale globale può fare buoni affari anche con la crisi; anzi come ci ha insegnato la pandemia in tempi di crisi le perdite vanno socializzate, ma guai anche solo a parlare di socializzare i profitti. Anche la ricerca è troppo spesso asservita alle logiche del profitto. Facciamo la transizione energetica non significa costruiamo una democrazia ecologica, fatta di comunità autonome, ma produciamo la ricerca e la infrastruttura giusta che serva a riprodurre privilegi e profitti per pochi.

Un pilastro della giustizia energetica è smascherare una verità nascosta, ovvero che l’infrastruttura energetica su scala mondiale procede in due direzioni divergenti: da una parte essa insiste con particolare forza su comunità e lavoratori subalterni in termini di effetti nocivi sulla salute e l’ambiente, dall’altra chi beneficia di più di questa infrastruttura è spesso fisicamente lontano, ecologicamente disconnesso da essa.

Negli Stati Uniti, quindi non in un paese del sud del mondo, perché badate bene la linea tra chi vale qualcosa e chi non vale niente passa anche dentro i nostri mondi, è la linea della classe, della razza, del genere, ecc., dicevo negli USA il tasso di mortalità tra i lavoratori del settore petrolchimico è 4 volte più alto di qualunque altro settore. Sempre negli USA è stato dimostrato che le industrie petrolchimiche sono generalmente localizzate in comunità non bianche, dove ad esempio l’acqua che ritorna su dai pozzi inquinata contamina le acque usate per scopi domestici o irrigui. Oppure potrei citare la situazione di contaminazione del delta del Niger dove negli ultimi 50 anni sono stati versati tra i 9 e 13 milioni di barili di petrolio, 50 volte il petrolio versato dalla  Exxon Valdez  in Alaska in 1989. La più grossa concentrazione di industrie petrolchimiche negli Stati Uniti si estende tra New Orleans e Baton Rouge in Louisiana, lungo un corridoio che è stato soprannominato il corridoio del cancro, e credo che non debba spiegare perché a chi mi ascolta. 

Oppure posso citare la storia delle miniere di uranio nel SudOvest degli USA e le conseguenze specialmente sui nativi, con tassi di incidenza di cancro polmonare altissimi, che hanno portato nel 1990 alla legge chiamata Radiation Exposure Compensation Act. Giusto per chiarire, non è stato qualche summit di garndi chiusi in un palazzo a compensare per i danni alla salute, ma 30 anni di lotte da parte delle comunità indigene e dei sindacati. In Australia le comunità aborigene hanno pagato un prezzo altissimo all’estrazione di uranio e alla sperimentazione di ordigni nucleari; si stima che nella radium Hill siano state lasciate 100 mila tonnellate di rifiuti tossici radioattivi. Eppure nel 2019 un’altra miniera di uranio è stata autorizzata nei territori indigeni.

Questa è l’ingiustizia energetica: coloro che si ammalano e vivono in comunità fossili non sono gli stessi che beneficiano di tanta abbondanza di energia a buon mercato.

Se questa è la vera faccia del capitalismo estrattivista, sarà bene non farsi illusioni; il capitalismo verde non è da meno. La verità è che le comunità subalterne rischiano di avere pagato il prezzo del capitalismo fossile e di pagare ora il conto per la cosiddetta transizione verde. Un report dello scorso anno a cura del Regulatory Assistance Project ha analizzato come la transizione energetica rischia di essere pagata prima di tutto dai consumatori con bollette più salate. Il report cita come esempio emblematico la vicenda dei gile gialli francesi, come un caso in cui le misure per una transizione energetica sono state messe sulle spalle dei consumatori, probabilmente di quelli meno ricchi costretti a vivere fuori città. Una misura di segno completamente opposto a quelle intraprese da diverse città che hanno optato per un trasporto pubblico gratuito. A livello globale ci sono studi sulle conseguenze negative dei progetti di forestazione - tipo REDD - e in generale l’idea che i ricchi inquinano e compensano piantando alberi da qualche parte. Qualcuno ha parlato di colonialismo verde con essenze arboree imposte su comunità senza neppure consultarle. Un tipico esempio di riconversione capitalistica fatta per difendere il privilegio e non cambiare l’ingiustizia è l’esplosione della mobilità elettrica con il suo combinato disposto di corsa al litio, necessario per le batterie, o al cobalto. Si parla di 100 milioni di auto elettriche sul mercato nel 2030. La geopolitica dei minerali necessari per questa transizione energetica investe diritti umani, ecologia, rapporti tra stati più o meno sovrani. Il colpo di stato in Bolivia è stato forse la manifestazione più chiara di cosa comporta la transizione energetica fatta dal capitale.

Per questo ci vuole un contro-vertice, per questo da Seattle a Genova, da Piazza Alimonda a Zuccotti park non 20 potenti ma moltitudini si ritrovano per ribadire che non si parla di transizione senza parlare di giustizia; le soluzioni non piovono dall’alto ma nascono dalle mille pratiche di autonomia e solidarietà; non c’è transizione a spese dei poveri; non c’è transizione senza ridistribuzione. Qualche settimana fa sono sbarcati gli e le zapatiste in Europa. Prendiamo esempio da loro che un altro mondo non lo hanno chiesto ai governi che li avevano oppressi ma se lo sono presso caracol dopo caracol, comunità dopo comunità, piazza dopo piazza, cuore dopo cuore.