La vicenda Pomigliano ed i termini dello scontro nella ristrutturazione capitalista

I sogni son desideri

di Antonio Musella

16 / 6 / 2010

Da un po’ di tempo, con le nuove leggi volute da Pisanu prima e Maroni poi, quando entri allo stadio devi passare per i tornelli, marcare il biglietto nominale e dopo, quasi sempre, essere sottoposto ad una perquisizione personale. Quando gli operai dello stabilimento Giovanbattista Vico della Fiat di Pomigliano d’Arco escono dalla fabbrica subiscono lo stesso trattamento.
Anzi peggio.
Escono guardati a vista dai sorveglianti, marcano il cartellino personale in uscita e passano tra veri e propri tornelli. Mentre passano potrebbe suonare una sirena. Quello è il segnale che devono fermarsi, recarsi dietro il separè che si trova a pochi centimetri dal marcatempo ed essere sottoposti a perquisizione personale da parte dei vigilanti. Nessuno può fermarsi a vedere cosa succede all’altro mentre viene perquisito. Nessuno può andare via o rifiutarsi di essere perquisito se suona la sirena dopo che ha marcato il cartellino in uscita.
Ad attenderli ci sono le corriere che partono dall’enorme e desertico piazzale davanti alla fabbrica per condurre gli operai in tutta la Campania. Dalla provincia di Benevento all’estremo sud della provincia di Salerno, anche due ore di autobus dopo otto ore di turno ed in più lo straordinario obbligatorio. Se esci con il turno delle 13:00 torni a casa giusto in tempo per Maria De Filippi, ed è qui che scopri che il palinsesto della televisione italiana dalle 13:00 alle 17:00 è tutt’altro che casuale squallidume mediatico.
Tutto è molto diverso rispetto ad appena dieci anni fa, quando i picchetti avevano ancora una certa cittadinanza da queste parti, cosi’ come le lotte sindacali.
Oggi è un inferno ! Eppure c’è chi lo rincorre a tutti i costi.
È la crisi dicono, è la necessità di poter continuare a poter avere la possibilità di un piatto in tavola, ed un bel teleschermo ultrapiatto a rate dove vedere Maria De Filippi.
Sono quelle dinamiche di depressione, di destrutturazione di quella che avremmo definito identità di classe a favore dell’interesse particolare. Una lotta di sopravvivenza che possiamo oggi solo indagare come fenomenologia sociale perché le categorie politiche disegnano uno scenario troppo crudo da digerire.
Ne abbiamo già avuti di “Modelli Pomigliano”, “Modelli Melfi”, “Modelli Termini Imerese”…
A Pomigliano prima della proposta choc di Marchionne e della Fiat, che parla di rinuncia allo sciopero, aumento dei turni, aumento dello straordinario obbligatorio, malattie non retribuite e quant’altro, la lunga e costante macchina della distruzione dell’identità operaia aveva oramai da tempo raggiunto il suo obiettivo di disgregazione sociale.
Solo che nessuno se ne accorgeva.
A cominciare da quella Cgil che oggi si indigna e ieri sosteneva scelte che rappresentano l’incipit da cui la Fiat ha tratto la sua “soluzione finale” su Pomigliano.
Il reparto di confino di Nola è solo uno di questi esempi. Un reparto che è stato costruito fuori dallo stabilimento, in un altro comune, dove sono stati messi di turno la totalità dei delegati sindacali dei sindacati di base, per non permettere agli stessi di stare a contatto con gli operai.
Un’operazione di vero e proprio “repulisti” che vide l’appoggio dei sindacati confederali e della Fiom qualche anno fa. Così come tutti gli accordi degli ultimi anni che la Fiom ha sempre sottoscritto che hanno portato ad un lento e costante peggioramento delle condizioni retributive e soprattutto di lavoro e di vita degli operai, sotto la pressione dello spauracchio della chiusura.
Dunque oggi non possiamo pensare in nessun modo che la proposta Marchionne rappresenti il punto di non ritorno per la storia sindacale, perché quegli stessi sindacati che oggi firmano - ormai passati ad una fase di consociativismo con il Pdl - e quelli che non firmano come la Fiom, hanno scritto questa storia pagina su pagina per poi accorgersi che nell’epilogo loro non erano nemmeno previsti.
Già perché oggi il quesito che viene posto è o accettare il diktat di Marchionne oppure perdere definitivamente quello che chiamano lavoro. La strada tracciata in questi anni dalle scelte dei sindacati a Pomigliano non potranno che portare all’affermazione della linea Marchionne al referendum sul contratto tra gli operai.
L’hanno costruita loro quella strada !
Il rapporto tra destrutturazione dell’identità operaia e costruzione dell’affermazione della linea padronale vanno di pari passo con l’incapacità divenuta ormai strutturale di un processo di autovalorizzazione delle lotte operaie in cui il sindacato ha avuto un ruolo preciso.
Sono vittime di loro stessi. Hanno contribuito per decenni a costruire quella idea malsana, conservatrice e cattolica in cui “la prima responsabilità è il lavoro”. Questa affermazione – “la prima responsabilità è il lavoro” – suona costantemente nella voce dei giovani delegati sindacali di Pomigliano, sia quelli della Fiom che della Uilm e della Fim. Come per dire, noi dobbiamo fare in modo che indipendentemente dalla distruzione di ogni definizione concettuale e politica di diritto sociale, il lavoro deve essere garantito comunque. Tanto che la controproposta della Fiom, che dice di non voler firmare un contratto che va contro la costituzione, è quella di 18 turni per 40 ore di straordinario in più…ovvero la stessa idea base della controparte, dovete lavorare tantissimo ed essere pagati pochissimo, solo in questo modo posso trattarvi come gli operai polacchi, ed allora mi potete convenire.
Stiamo parlando di un dramma da cui non se ne esce !
Sono sempre stato convinto che quei giovani operai di Pomigliano – la grande maggioranza dello stabilimento – avessero l’ambizione di essere quanto di più lontano è possibile dall’operaio fordista. Ed ancora oggi ne sono certo.
Come gli operai diplomati dell’inizio degli anni ottanta che sognavano di essere la “classe dirigente” del futuro. Oggi non sono convinto che comprendano pienamente come possa cambiare la loro vita in entrambe i segni in cui potrebbe evolversi la vertenza.
Certo i sindacati sono davanti alla risoluzione della loro esistenza, allo scioglimento della loro ragione sociale se questo piano dovesse passare. O meglio è l’idea di lotta sindacale che finisce, il ruolo invece di lobby sindacale padronale quello resta ancora in piedi.
Forse è troppo tardi per accorgersene.
E…forse non è nemmeno colpa solo della Fiom.
Già perché la vera questione, come abbiamo provato più volte a spiegare, non è tanto opporsi allo smantellamento delle garanzie contrattuali, oppure provare a resistere alla crisi seppure attraverso un conflitto radicale come in Grecia. La questione è capire che nelle dinamiche della crisi bisogna provare ad avere la capacità di leggere come i rapporti di forza possano determinarsi nel contribuire a quella che definiremmo come formazione sociale determinata. In questo caso sono almeno due anni che bisognava comprendere che il settore manifatturiero non ha più futuro nel nostro paese davanti alle dinamiche globali e che le lotte operaie andavano inquadrate in un processo più ampio che vedeva nel processo di ristrutturazione capitalistica un terreno di scontro e non di resistenza.
Avere la capacità di costruire un modello diverso dove parlare di sviluppo, parlare di lavoro, parlare di attività produttive, parlare di welfare non significhi, soprattutto a Sud, farlo con vocabolari e modelli degli anni cinquanta.
Soprattutto a Sud, perché ciò che abbiamo davanti è l’avidità e l’efferatezza del governo del Nord e degli assetti di potere economici e finanziari che nel Nord trovano il loro centro di gravità permanente.
Siamo in un paese dove la proposta politica e l’idea stessa di società altra sono completamente appiattite. La crisi ci chiude in una logica resistenziale in cui anche le categorie politiche che abbiamo imparato ad utilizzare non ci aiutano.
La rottura con il modello sviluppista del novecento dovrebbe provare ad articolarsi proprio in questa fase.
L’individuazione della tendenza determinata ci aiuta solo alla prefigurazione più chiara di quello che sarà, sia il mercato del lavoro, sia il piano di sviluppo del capitale. Fare i conti con il presente ci impone però di ricercare una visione più netta del desiderio della moltitudine.
E’ forse questo il passaggio che ci aiuterebbe a comprendere meglio il terreno verso cui provare a sviluppare i termini dello scontro, definire punti di programma che facciano del terreno della ricerca di una nuova etica un punto di messa in discussione complessiva.
Mentre si ricerca questo la controparte sembra aver compreso bene dove vuole andare a parare. Berlusconi lo ha detto a chiare lettere alla Confindustria prima ed ai giovani industriali poi. Cambiare la Costituzione, frutto di un compromesso catto – comunista impossibile da digerire oggi per i nuovi assetti di potere determinati. Cambiare le regole del gioco a cominciare dagli articoli sulla libertà d’impresa.
Cos’e’ questo se non una precisa individuazione di un modello definito verso cui tendere ed agire lo scontro sociale ?
Davanti a questo scenario la resistenza sembra articolarsi sulla difesa della Costituzione così com’è dal 1948.
I meccanismi di riproduzione del capitale e i meccanismi di riproduzione della moltitudine devono rompere il sincrono. Sviluppare davanti alla ricerca di simultaneità dei processi di produzione i termini della discontinuità e dell’indipendenza.
Ed è in questo quadro complessivo che inseriamo a pieno titolo il conflitto Nord/Sud come paradigma della pianificazione economica. Perché a chiudere è Pomigliano, perché Termini Imerese è ad un passo. Perché i fondi dirottati dalla manovra finanziaria alle regioni, principalmente del Sud (Campania, Calabria e Molise), ovvero i Fas servivano per coprire il disavanzo dello sforamento del patto di stabilità che è stato necessario per fronteggiare la crisi fino a pochi mesi fa attraverso gli ammortizzatori sociali regionali.
Perché la manovra Tremonti incide principalmente proprio sul Sud, non solo attraverso il blocco dei fondi, ma attraverso ad esempio il blocco del welfare (eliminazione del reddito di cittadinanza in Campania) e provando a fare cassa anche sulla Salerno – Reggio Calabria (sic!).
Il governatore della Regione Piemonte il leghista Cota presenta un piano contro la crisi da 390 milioni di euro che ritrova nei fondi regionali. Un piano per la salvaguardia dell’occupazione, a cui il governo del Nord ha garantito la copertura finanziaria.
A Sud invece come è ben chiaro si sperimentano le forme dello scontro tra poveracci. Da un lato gli operai meridionali dall’altro quelli polacchi.
Questa Panda dove la metto ? A Pomigliano o in Polonia ?
Dipende da quanto posso schiavizzare i meridionali e quanto i polacchi.

Qualche anno fa eravamo certi che questo non era l’unico mondo possibile. Oggi sembriamo chiusi nella maledizione di questo fottuto mondo e da qui cerchiamo facili scorciatoie. Se non siamo capaci di costruire sogni difficilmente avremo la forza di praticare conflitti.
Ed i sogni son desideri…