Greenpeace e ReCommon fanno causa a ENI.

Questa mattina la conferenza stampa alla Sala stampa Associazione Stampa Estera: «l’operato della società peggiora la crisi climatica e viola i diritti umani».

9 / 5 / 2023

«Questa mattina è stato notificato un atto di citazione per l’apertura di una causa civile nei confronti di Eni, del Ministero dell’Economia e delle Finanze e di Cassa Depositi e Prestiti S.p.A.». Questo quanto annunciato da ReCommon e Greenpeace Italia, autori dell’azione legale insieme a 12 cittadinɜ colpiti dai cambiamenti climatici.

Quella che i promotori definiscono #LaGiustaCausa - lanciando la campagna a supporto dell’azione - è la prima causa civile contro un’azienda privata italiana per la violazione dell’accordo di Parigi sul clima. Antonio Tricarico di ReCommon aggiunge che «continuare a contribuire al riscaldamento globale genera fatti a cui sono associate gravi violazioni dei diritti umani, a partire da quelli sanciti dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e dalla Costituzione».

Dai documenti pubblici di Eni e attraverso l’attribution science si vogliono stabilire in sede legale le responsabilità dell’azienda rispetto agli effetti presenti e futuri del cambiamento climatico, che si traduce in fenomeni estremi e improvvisi (vedi l’alluvione di una settimana fa in Emilia-Romagna), squilibri negli ecosistemi sempre più tangibili e l'impatto nella vita delle persone, anche in termini di danno psicologico determinato da una continua esposizione a una minaccia fisica e patrimoniale.

«L’operato di Eni contribuisce ad aggravare notevolmente la crisi climatica, con conseguenze sempre peggiori per me e il mio territorio, il Polesine. Nei pressi del Delta del Po, il mare avanzerà sempre di più nelle nostre terre, e con la risalita del cuneo salino rischiamo di trovarci a vivere in un vero e proprio deserto o di essere costretti ad abbandonare la nostra casa e la nostra terra» spiega Vanni, uno dei cittadini coinvolti nella causa.

E mentre questi fenomeni diventano sempre più parte delle nostre vite, il colosso energetico che inquina più dell’Italia intera sceglie di dare priorità alla tutela degli interessi degli azionisti, con l’appoggio del potere finanziario, politico e mediatico.
In pubblico e sui media Eni si presenta proponendo finte soluzioni e definendosi in linea con l’accordo di Parigi. «Eni nasconde la polvere sotto un tappeto verde» racconta Simona Abbate di Greenpeace, «agendo con disinformazione e greenwashing»: il 55% della comunicazione è “verde” e l’azienda acquista una iperpresenza nella nostra quotidianità permeando in ogni settore: l’intrattenimento, lo sport, la formazione (rendendo di fatto difficili ricerche indipendenti sul suo conto). In questo modo ottiene una licenza sociale di azienda green e responsabile. Ma andando a scavare sotto il progetto di transizione verde di Eni “Plenitude” si scopre come la metà di questo riguardi il gas e «per ogni euro speso in Plenitue quindici vengano investiti in fonti fossili», sottolinea Abbate.

L’azienda non dimostra alcun interesse a cambiare e nessuna disponibilità al dialogo, basti pensare che l’assemblea degli azionisti Eni di domani sarà a porte chiuse in nome dell’emergenza covid, fatto che si commenta da solo. Portare il colosso del fossile in tribunale vuole essere un modo per condannare Eni e imporgli di rivedere la strategia industriale che abbia come obiettivo la riduzione del 45% di emissioni entro il 2030.

Inizia così un’azione legale di climate mitigation, come vengono definite le circa 2276 cause sul tema climatico che si sono raddoppiate dal 2015. Tra queste viene ricordata come precedente storico la sentenza in primo grado alla Shell: un tribunale dei Paesi Bassi ha accolto la richiesta di organizzazioni e cittadini imponendo alla compagnia britannica di ridurre le proprie emissioni.

Lo strumento legale, come sottolineato dalle organizzazioni stesse in conferenza stampa, si affianca a lotte e iniziative condotte fuori dalle aule di tribunale. Ogni mezzo è necessario a mettere in accusa aziende che incarnano un sistema economico che si presenta come soluzione alla crisi climatica mentre trae profitto a scapito delle classi subalterne, che maggiormente subiscono le conseguenze degli sconvolgimenti degli ecosistemi.