Di CIE si muore.
Se ne facciano una ragione i politicanti di verde vestiti, che
continuano al di là di ogni logica a propagandarli come hotel a 5
stelle.
Se ne renda conto quella massa acritica che al muro di Gradisca e agli
altri muri d’Italia si è rapidamente abituata, rigettando qualsiasi
impulso a domandarsi cosa essi nascondono.
Di CIE si muore, e il 30 aprile 2014 un ragazzo è morto.
Non si è mossa foglia attorno a lui per mesi.
Una parvenza di movimento suscitò la notizia della sua caduta dal tetto
del mostro di Gradisca, ad agosto. Quell’agosto in cui una pioggia di
lacrimogeni cadde sui migranti "colpevoli" di voler festeggiare la fine
del Ramadan all’aperto.
Notti di agosto in cui i detenuti salirono sul tetto del CIE per vedere
il cielo, sfuggire all’aria impestata dai CS e gridare ad una cittadina
indifferente che non ne potevano più di quell’isolamento.
Per un attimo sembrava che le vite dei reclusi senza nome del CIE
potessero avere un valore mediatico, perché una notte di agosto Majid è
caduto dal tetto, ed ha battuto la testa.
Per un attimo solo i riflettori si sono accesi sul CIE di Gradisca
mostrandolo per quello che è, un luogo di negazione, non solo di diritti
ma della vita stessa.
Poi però il sipario è velocemente calato.
Calato su quei successivi giorni di caldo e ansia, in cui i compagni di
sventura di Majid hanno cercato in ogni modo di rintracciare la sua
famiglia in Marocco, perché sembrava che le autorità avessero altro a
cui pensare, o forse non era così importante dire ad una madre che suo
figlio giaceva in coma in un paese straniero.
Calato sull’ospedale di Cattinara, a Trieste, dove i finalmente
rintracciati cugini di Majid, residenti in Italia, hanno cercato di fare
visita al loro congiunto e si sono trovati di fronte un muro fatto di
burocrazia e negligenza. Perché, disse loro una solerte dottoressa,
“dall’ispettore del CIE” arrivava l’ordine di non fare entrare nessuno
in quella stanza. Perché i cugini andavano identificati, non fosse mai
che due finti cugini cercassero di vedere un ragazzo in coma per chissà
quali loschi fini.
Nessuno si curò di renderlo noto, come se fosse normale che la longa
manus del CIE arrivasse addirittura fin dentro ad un ospedale, come se
Majid fosse un sorvegliato speciale, come se ci fosse un interesse
superiore da tutelare nel tenerlo isolato.
Nessuno si curò neanche di facilitare la venuta del fratello di Majid
dal Marocco. Perché si sa, quella frontiera che l’Europa difende a costo
di migliaia di vite è invalicabile, se non si possiede un visto. E quel
visto, ai familiari di Majid in Marocco, nessuno ha pensato di
concederlo.
I mesi sono passati, e il silenzio è stato il fedele compagno della
lotta di Majid in un letto d’ospedale. Luci spente, perché gli ultimi
non saranno mai i primi, non in questa vita.
Sei giorni prima della sua morte, abbiamo chiesto al nuovo Prefetto di
Gorizia se un’indagine fosse mai stata aperta su quanto accadde la sera
della caduta dal tetto. “Non mi risulta”, detto con la stessa
partecipazione emotiva che si potrebbe avere dicendo che no, stasera in
centro non c’era traffico.
Chissà se al Prefetto risulta che questo ragazzo è morto, e se si rende
conto che il CIE, diretta emanazione di uno stato segregazionista, lo ha
ucciso.
Chissà se ora il Prefetto sa spiegare perché la famiglia di Majid è stata avvisata della sua morte con una settimana di ritardo.
Chissà se sa spiegare perché è stata disposta un’autopsia senza interpellare la famiglia.
Abbiamo
visto Majid qualche giorno prima che morisse, i suoi occhi guardavano
un punto intangibile di uno spazio a noi sconosciuto. Quel ragazzo
descritto dai cugini come una forza della natura stava ancora lottando, e
sicuramente non ha smesso di farlo fino all’ultimo.
Noi sommessamente abbiamo lottato per lui in questi mesi, ma non è servito a tenerlo in vita.
Ora lottare significa fare in modo che di Majid ci si ricordi.
Tenda per la Pace e i Diritti