Genere e Violenza

Una riflessione collettiva dopo i fatti di Via Mezzocannone

7 / 6 / 2013

La notizia arriva in serata, veloce e improvvisa. Una ragazza qualunque, una studentessa.

Qualche ora prima in pieno centro storico di Napoli, nella zona universitaria, mentre le aule e le biblioteche erano ancora aperte, mentre la gente prendeva ancora il caffè, in un vicolo si consumava un incubo. L’ennesimo.

Percorrere il dedalo di decumani che abbraccia il centro storico non è sempre una passeggiata piacevole: stringere la borsa al petto, guardare in tutte le direzioni prima di infilare l’ingresso del palazzo, la costante attenzione all’arrivo dei motorini che in un attimo, come una  mano invisibile, sferrano l’attacco: dallo schiaffo, alla manoinculo, fino al più classico dei soprusi sessisti partenopei, lo scippo; la descrizione di ogni breve tratto del tragitto fa comprendere più facilmente l’immediatezza con cui ognuna ha sentito di poter essere al suo posto in quel momento e l’urgenza di esprimere la rabbia, forte ed inarrestabile, perché stavolta qualcuno fosse andato oltre.

Allora ci siamo incontrate, riconosciute ,organizzate, con un appuntamento pubblico girato in poco meno di una notte, con il tam tam sui social network, per riprenderci queste strade, queste piazze, questi vicoli, per riempirli di parole.

Parole pronunciate da voci femminili, urlate al megafono, scritte direttamente sui nostri corpi e su uno striscione di venti metri cui in tante abbiamo fatto da gambe in giro per il quartiere, seguendo e facendoci seguire sotto un messaggio chiaro ed inequivocabile: Mai più! Basta violenza sulle donne!

Ci importa poco sapere chi è stato, nelle prime ore in cui la vicenda è stata raccontata dai giornali, è stato identificato un presunto responsabile, un clochard.

Troppo facile. Troppo scontato individuare il colpevole nell’ennesimo stereotipo di marginalità sociale, su cui è altrettanto scontato costruire immediatamente la narrazione mediatica del “mostro”, che giustificherebbe poi l’epurazione dal centro delle città di quella cittadinanza silente, privata dei più basilari diritti sociali ed economici, sottratti al welfare dalla scure dei tagli e della crisi, esteticamente inappropriata  all’immagine da cartolina del centro storico di una grande città che aspira a sentirsi metropoli.

Barbone, banchiere, biologo, barista, benzinaio, ballerino... la violenza sulle donne non svolge un preciso mestiere, non proviene per forza da una determinata classe sociale, né si esaurisce nella rappresentazione dell’immagine del violento energumeno. La violenza sulle donne è un problema degli uomini, di tutti gli uomini, c’era scritto su un cartello durante il corteo, tenuto al collo da un attempato signore che non ne andava certo fiero.

Se ne parla da un po', è vero. Da qualche mese sulle home dei principali quotidiani on line ed anche su quelli cartacei, campeggiano titoli che richiamano al femminicidio, ed alla recrudescenza del fenomeno della violenza sulle donne come ad un emergenza che in questo paese si sarebbe manifestata solo negli ultimi tempi, con l’acuirsi della crisi economica, da quando stranamente sui social network è sempre più frequente imbattersi nella condivisione delle notizie relative all’argomento, scoperte su qualche quotidiano di periferia e che la rete poi  riesce a moltiplicare e diffondere, amplificandole ancora.

C’è anche un vero dibattito politico nel paese, il governo, alla luce della scoperta dell’acqua calda, ordina la costruzione di una task force contro il femminicidio che aumenti le pene dei responsabili delle violenze e faccia sentire le donne meno sole e finalmente protette e difese .

Intanto, quando lo stesso governo finalmente si decide ad approvare la Convenzione di Istanbul (un trattato internazionale che obbliga gli stati alla promozione di politiche sociali coordinate alla rimozione delle condizioni di subalternità delle donne e all’intervento tempestivo in caso di comportamenti violenti, prevedendo finanche il risarcimento economico!) l’aula è vuota, le parole delle parlamentari riecheggiano nell’aria e vengono ascoltate certo, da altre donne che però le conoscevano  già.

Il problema c’era prima e c’è adesso, le soluzioni pure.

Purtroppo, infatti, come molti dei problemi che avvincono il presente, anche quello della violenza sulle donne ha un prezzo, si risolve con i SOLDI.

Aumentare le pene dei responsabili di una violenza, in un sistema penale che ha disconosciuto il delitto d’onore appena trent’anni fa, non solo non costa niente, non è  un investimento, ma non determina neanche come effetto immediato il desistere dal perpetuarla, non influisce sulla volontà di chi crede che quel comportamento non sia implicitamente un abuso, ma un gesto quasi dovuto, basato sul retaggio di un potere ispirato da millenni di ingiustizia, da un modello culturale in disequilibrio, da una sperequazione enorme e permanente nei rapporti sociali tra generi che cerca di ricacciarci con forza  nel classico ruolo di fidanzate, amanti, madri e  molto spesso da per scontata la soddisfazione di un desiderio  sessuale unilaterale.

Né ci sentiremmo più sicure e tranquille se le strade che attraversiamo tutti i giorni si riempissero di volanti o camionette. Non cediamo infatti alle facili strumentalizzazioni securitarie sui nostri corpi, saremmo violate due volte: prima dall’abuso fisico, poi dall’onnipresenza del controllo, della vigilanza, dell’imposizione di rispetto  e normalità, pretesa per giunta da altri uomini, nel classico spiraglio del cane che si morde la coda.

Siamo convinte come sempre di poter fare da sole.

Come quando con un corteo spontaneo e selvaggio, abbiamo attraversato la città, urlando forte che non siamo disposte a cedere difronte ad un atto di barbarie, che se pur non vero nel caso dell’episodio in sè, è tuttavia profondamente attuale e che nello stesso momento in un'altra città o latitudine, possa  riguardare un’altra donna non è difficile, anzi.

Come si fa da anni nei centri antiviolenza, dove il taglio dei fondi e delle sovvenzioni pubbliche impedisce di seguire da vicino i casi di quelle donne che hanno il coraggio di farsi ascoltare, dopo anni di abusi e violenze domestiche, arrivano addirittura a denunciare.

Addirittura. Sì, perché la denuncia rappresenta l’ultimo stadio di un escalation di soprusi e cattiverie, di sudditanza psicologica silenziosa e solitaria all’interno della propria casa da cui ad un certo punto è anche possibile scappare, una fuga  che si scontra presto con l’inadeguatezza economica delle soluzioni possibili.

Non ci sono abbastanza posti letto in case famiglia protette, per accogliere  le donne che scappano dai luoghi di violenza, molto spesso insieme ai figli, non ci sono i soldi per pagare psicologi, assistenti sociali, personale attrezzato ad affrontare una situazione di emergenza vera, come quella di chi scappa lasciandosi tutto alle spalle, non ci sono i soldi per finanziare progetti nelle scuole di educazione sessuale e crescita sociale dei futuri cittadini, non ci sono soldi per garantire i servizi sanitari essenziali al corpo femminile negli ospedali, sempre più affollati da giovani carrieristi obiettori che costringono tante a rivolgersi all’estero o agli studi che praticano aborti clandestini, non ci sono neanche i soldi per garantire un servizio dello STATO, il numero d’emergenza contro la violenza sulle donne il 1522, cui in alcune parti d’Italia rispondono le operatrici pagando di tasca loro le bollette! (come ben ci ha raccontato Riccardo Iacona in una puntata del suo Presa diretta in prima serata sulla tv nazionale).

Nel esatto momento in cui la violenza si scopre, paradossalmente siamo lasciate a noi stesse, rese ancora più vulnerabili dalla mancanza di un dibattito che scopra i nodi reali del problema e non lo tratti né come un fenomeno emergenziale né come merce di scambio politico.

La notizia che tanto ci ha colpito in poche ore si è poi rivelata un falso, questo non ci ha impedito di affrontare il tema della violenza sulle donne come un dato vero, molto più reale di quello che si crede nella nostra società, affezionata tanto alle cattolicissime famiglie-prigione sempre più teatro di prevaricazione di genere e violenze sottaciute, che alla figura dell’”UOMO PER BENE ”, il fidanzato, il marito, il compagno, orgoglioso della donna, la SUA donna, ubBidiente e accondiscendente ad ogni più torbido desiderio, pronto a spegnere con la violenza e la sopraffazione fisica ogni nascente sintomo di rivolta ed autodeterminazione. 

Ecco perché  ci interessa poco quello che è successo, ci interessa piuttosto quello che davvero è accaduto.

È accaduto che a Napoli, pur se per poche ore, la rabbia e la gioia, le parole, tante, urlate e scritte, i volti, i corpi, il protagonismo delle ragazze, delle signore, delle donne tutte, ha invaso di luce e colore i vicoli della città, per questa volta che per fortuna non è vero ma l’abbiamo saputo tutte , per tutte le volte in cui la violenza è vera, brutale, inevitabile e sono tante, purtroppo la maggioranza, e nessuna sa niente.

E allora non è semplicemente successo, è accaduto perché l’abbiamo fatto accadere.

#stop violenza sulle donne

Le compagne di Mezzocannone12Occupato // AuditoriumAutogestito "Carla e Valerio Verbano" // DAdA // Lab.Occ. Insurgencia