Fukushima e l’Isola di Pasqua

21 / 3 / 2011

Senza una seria riflessione sui rischi di questo modello di sviluppo, la nostra civiltà sembra destinata a ripercorrere – in grande – il cammino degli abitanti dell’Isola di Pasqua: abbattuto l’ultimo albero, è cominciata una lunga e inesorabile decadenza.

La domenica di Pasqua del 1922 l’esploratore olandese Jakob Roggeveen sbarcò sull’isola del Pacifico che proprio dal giorno in cui fu “scoperta” prese il nome: l’Isola di Pasqua. Vi trovò una popolazione di circa 3000 persone, con un livello di civiltà – in termini di organizzazione sociale e sapere tecnologico – molto inferiore a quello necessario per costruire i moai, le famose statue caratteristiche dell’isola. Ma sopratutto, essendo il territorio privo di alberi, non si capiva come questi pesantissimi busti di pietra potessero essere stati trasportati senza il legname sul quale farli rotolare (gli indigeni, al tempo dell’arrivo degli europei, ritenevano semplicemente che le statue avessero camminato fin lì da sole).In verità – come è stato indicato dagli studi più recenti – l’isola non è sempre stata priva di vegetazione. Al tempo della sua prima colonizzazione da parte di un gruppo originario della Polinesia il territorio era ricoperto di una fitta foresta di alberi di palma. L’ottima disponibilità di cibo e di risorse ambientali (legno per costruire imbarcazioni, abbondante pesce nel mare, numerose specie di uccelli da cacciare nelle foreste, terra fertile da coltivare) fece crescere enormemente la popolazione fino a farle raggiungere la cifra di circa 10.000 individui fra il 1100 e il 1400 d. C. L’articolazione sociale si strutturò in maniera abbastanza complessa da dar vita ad una classe di artigiani dediti alla costruzione delle statue che ancora oggi ammiriamo (in tutto sull’isola si contano 638 moai).Ma l’impetuoso incremento della popolazione determinò un consumo di risorse maggiore di quanto fosse la loro capacità di rigenerazione: venivano abbattuti più alberi di quanti non facessero in tempo a ricrescere, così che nel tempo il terreno si inaridì, gli uccelli scomparvero e non vi fu più legname con il quale costruire le imbarcazioni da pesca. Inevitabili giunsero i conflitti nella comunità e il declino dell’intero sistema sociale.Questo racconto, che può apparire un suggestivo apologo sui rischi di uno “sviluppo” del tutto svincolato da considerazioni sulle sue conseguenze di lungo periodo, è in realtà la storia di una civiltà – per quanto piccola – che ci ha preceduto (o meglio che si è sviluppata parallelamente alla nostra). E ci ammonisce sul fatto che non sempre il “corso degli eventi” porta con sé le soluzioni ai problemi che via via sono sollevati dal processo di sviluppo: deve intervenire l’intelligenza umana, la consapevole presa d’atto dei rischi che si stanno correndo, la capacità di scegliere fra opzioni differenti. Un’intelligenza – che si potrebbe definire di tipo pratico-morale – non alternativa ma complementare a quella razionalità di tipo cognitivo-strumentale che è alla base del progresso tecnico. Purtroppo in questi giorni la nostra classe dirigente – per nostra si intende quella italiana, perché ben diversa è stata la consapevolezza della gravità della situazione dimostrata dagli altri leader europei e mondiali – non sta dando grande prova di intelligenza. Prima i roboanti annunci sulla necessità di «andare avanti» sulla strada del nucleare senza cedere al ricatto di chi «specula sulla paura» causata dal disastro della centrale di Fukushima. Poi la scomposta retromarcia, fotografata dalle umilianti parole del ministro dell’ambiente Prestigiacomo: «È finita, non possiamo mica rischiare le elezioni per il nucleare. Non facciamo cazzate. Bisogna uscirne ma in maniera soft. Ora non dobbiamo fare nulla, si decide tra un mese». Umilianti perché – a prescindere dalla posizione di merito pro o contro il nucleare che si può considerare più giusta – rilevano tutta l’incapacità da parte di questa classe politica di essere “classe dirigente”, ovvero di dirigere, orientare, fornire una visione. Ha ragione Francesco Merlo quando parla di «scilipotismo politico» nel descrivere questi personaggi come «banderuole dell’opportunismo e dell’inaffidabilità» che non hanno nemmeno il coraggio di sostenere le proprie posizioni e si uniformano «pubblicamente a quegli umori che in privato disprezzano».Ora l’ultima trovata pare essere l’utilizzo della parola magica “territorio”. «Non possiamo fare scelte che non siano condivise da tutti. Scelte non condivise da chi vede installata nel proprio territorio una centrale», ha dichiarato il ministro dello sviluppo Paolo Romani (quello dell’«Avanti tutta!» di qualche giorno fa). Gli ha fatto eco Umberto Bossi: «È il territorio che decide», dove per territorio immaginiamo si debbano intendere gli organi rappresentativi delle Regioni. Ma per quale motivo i cittadini – e i rappresentanti – dell’Emilia Romagna non dovrebbero ad esempio avere interesse e competenza sulle decisioni in materia di costruzione delle centrali nucleari che potrebbe prendere il governatore della confinante regione Lombardia? Al di là degli aspetti strettamente tecnico-giuridici della questione – secondo l’articolo 117 della Costituzione questa è materia in cui vige una potestà bipartita fra Stato e Regioni – è evidente come il fantomatico “territorio” del quale sarebbe opportuno incassare il consenso è l’intero territorio nazionale: un’eventuale nube tossica sprigionatasi in Lombardia non si fermerebbe certo sul Po in omaggio alla gloriosa riforma del Titolo V della Costituzione… Senza considerare che il nodo energetico è parte fondamentale di un complessivo modello di sviluppo che non può che essere affrontato a livello, almeno, di Sistema-Paese. Sappiamo bene che il fronte anti-nuclearista fino ad ora si è fatto forte dell’opposizione di moltissime Regioni al ritorno del nucleare per contrastare il piano del Governo. Ma la battaglia può essere vinta anche in campo aperto. Ora questo “territorio” di cui tanto si parla ha la possibilità di esprimersi il prossimo 12 e 13 giugno con un referendum: tutti i sondaggi parlano di una schiacciante maggioranza di contrari al nucleare, ma è dal 1995 che non viene raggiunto il quorum. Occorre una grande mobilitazione: occorre che i cittadini italiani si facciano “classe dirigente”.

Tratto da: