Fotografia del contingente: perché le rivolte nelle carceri?

10 / 3 / 2020

Ciascuno, al suo posto, rinchiuso in una cella, è visto di faccia dal sorvegliante; ma i muri laterali gli impediscono di entrare in contatto coi compagni. È visto, ma non vede; oggetto di una informazione, mai soggetto di una comunicazione. La disposizione della sua cella, di fronte alla torre centrale, gli impone una visibilità assiale, ma le divisioni dell'anello, quelle celle ben separate, implicano una invisibilità laterale, che è garanzia di ordine. Se i detenuti sono dei condannati, nessun pericolo di complotto, o tentativo di evasione collettiva, o progetti di nuovi crimini per l'avvenire, o perniciose influenze reciproche; se si tratta di ammalati, nessun pericolo di contagio; di pazzi, nessun rischio di violenze reciproche; di bambini, nessuna copiatura durante gli esami, nessun rumore, niente chiacchiere, niente dissipazione. Se si tratta di operai, niente risse, furti, coalizioni, nessuna di quelle distrazioni che ritardano il lavoro, rendendolo meno perfetto o provocando incidenti. La folla, massa compatta, luogo di molteplici scambi, individualità che si fondono, effetto collettivo, è abolita in favore di una collezione di individualità separate. Dal punto di vista del guardiano, essa viene sostituita da una molteplicità numerabile e controllabile; dal punto di vista dei detenuti, da una solitudine sequestrata e scrutata

(dal Panopticon di Bentham)

Le rivolte nelle carceri italiane si stanno moltiplicando.

Incendi di carte e stoffe, picchetti sui tetti, scontri con la polizia penitenziaria e soprattutto una tremenda notizia: 8 detenuti morti a Modena, 3 a Rieti, tutti in circostanze sulla quale si sta indagando (overdose da psicofarmaci dopo l’assalto alle infermerie delle due carceri, si è reso noto).

A Foggia, la protesta ha prodotto un’evasione di massa: 70 detenuti fuori dalle mura, di cui 23, ad oggi, ancora in fuga.

Sono attualmente 27 gli istituti di pena interessati dalle rivolte diffusesi ormai in tutto il Paese, da San Vittore a Milano e a Rebibbia a Roma. Poi nelle carceri venete, campane, piemontesi e altro.

Tutto ha avuto incipit dallo stop forzato ai colloqui tra detenuti e familiari dovuto alle misure di contenimento per l’emergenza corona virus.

Ma la situazione è molto più complicata di quanto appare in superficie.

Le rivendicazioni dei detenuti vanno oltre i colloqui, “assicurati” in via telematica – ove possibile - dal decreto ministeriale dell’8 marzo 2020, dove, all’art.2 lett. u, si legge: “i colloqui visivi si svolgono in modalità telefonica o video, anche in deroga alla durata attualmente prevista dalle disposizioni vigenti. In casi eccezionali può essere autorizzato il colloquio personale, a condizione che si garantisca in modo assoluto una distanza pari a due metri. Si raccomanda di limitare i permessi e la libertà vigilata o di modificare i relativi regimi in modo da evitare l'uscita e il rientro dalle carceri, valutando la possibilità di misure alternative di detenzione domiciliare;”

Lo stop ai colloqui rappresenta una goccia che ha fatto traboccare un vaso già ampiamente strabordante, in una situazione penitenziaria che era già emergenziale di per sé prima ancora della venuta del Covid19.

Al 30 aprile 2019, infatti, erano 60.439 i detenuti presenti nelle carceri italiane. Quasi 10.000 in più dei 50.511 posti letto ufficialmente disponibili, con un tasso di sovraffollamento pari al 119,6% (a fronte della media EU del 93%).

Nonostante l’andamento della popolazione carceraria abbia subito una diminuzione cospicua a seguito della condanna della Corte Europea dei Diritti Umani all’Italia nel gennaio 2013 con la Sentenza Torreggiani, è dal 2016 ad oggi che questo è nuovamente in tendenziale aumento. 

E se la percentuale di sovraffollamento non rende la gravità della situazione, basta indicare il rapporto tra il numero dei detenuti ed il numero dei posti letto disponibili: nel carcere di Poggioreale sono alloggiati 731 detenuti in più di quelli che l’istituto potrebbe contenere mentre in quello di Secondigliano 418. Il carcere di Rebibbia Nuovo Complesso, ospita oltre 400 detenuti in più della sua capienza. A Regina Coeli lo scarto è di 381 unità, a Milano Opera di 387, a Torino di 341, a Taranto di 305, a Bologna di 303 mentre a Lecce ben 415 detenuti vanno a sommarsi a quelli per i quali il posto letto è regolamentare[1].

È tuttavia al 2006 che risalgono gli standard elaborati dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (CPT), volti a indicare agli Stati membri le modalità con le quali dovrebbero essere trattate le persone private della libertà. Questi standards addivengono a specificare che una cella di polizia (singola) dovrebbe “auspicare” alle dimensioni di 7 mq per ogni detenuto. In Italia, ad oggi, come ribadito più volte dalla Cassazione, nel caso in cui lo spazio pro quota-detenuto sia inferiore a 3 mq si incorrerà in una presunzione di trattamento disumano e degradante, per violazione dell’art.3 della Cedu che dispone: “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti.”

Il diritto europeo ha certamente ampliato le garanzie dei detenuti, che si sommano a quelle già tutelate (almeno su carta) dalla legge dell’ordinamento penitenziario del 1975.

L’ordinamento penitenziario, tutela, ad esempio, quale presupposto fondamentale, il mantenimento delle relazioni familiari e affettive anche in quanto validi punti di riferimento per la persona detenuta. L’art. 15 le colloca tra i principali elementi del trattamento mentre l’art. 28 afferma che “particolare cura è dedicata a mantenere, migliorare o ristabilire le relazione dei detenuti e degli internati con le famiglie”.

Il diritto alla salute è poi ampiamente valorizzato attraverso l’utilizzo del Servizio Sanitario Nazionale, che garantisce le prestazioni sanitarie (prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione) pari a quelle di tutti i cittadini.

Il carcere non è dunque considerato un non-luogo o un limbo giuridico. Tutt’altro! Esso è spazio territoriale dello Stato ove si applicano tutte le garanzie fondamentali così come accade per i cittadini in libertà.

In questo quadro giuridico così sintetizzato, il Governo, invece di mettere in campo urgenti tutele per i detenuti nelle carceri, magari mediante un massiccio provvedimento di de-carcerizzazione, ha immediatamente attuato una misura precauzionale “di facciata” che non fa altro che sbrandellare la già delicata situazione dei detenuti e delle detenute nelle carceri italiane.

Le carceri, infatti, sono un luogo “chiuso all’esterno” per i soli detenuti, non per altri.

È innegabile l’esistenza di un via-vai di personale penitenziario, amministrativo e giuridico che si affolla di giorno in giorno tra quei corridoi.

Lo stop-colloqui impedisce l’unica occasione di contatto con l’esterno dei detenuti, ma non comunque la diffusione eventuale del virus.

Nell’eventualità in cui il virus si diffondesse nelle carceri la situazione creerebbe un disastro sotto tutti i punti di vista: in termini preventivi, i detenuti non potranno tenersi ad un mt. di distanza tra loro né in cella né altrove, dovranno rinunciare alle ore d’aria e alle occasioni lavorative o di socialità (come l’utilizzo della biblioteca – ove presente – del refettorio, delle infermerie, della sala televisione), in termini di cura: l’inefficienza della tutela del diritto alla salute in carcere avrebbe riverbero nella già esasperata situazione sanitaria extramuraria, il tutto però con eventuale accompagnamento di sentinelle di sorveglianza per ogni eventuale detenuto in rianimazione.

È per forza di cose, dunque, indifferibile e urgente un provvedimento di amnistia straordinario, oltre che di sospensione delle nuove esecuzioni di pena per condannati liberi, dei rientri serali per chi usufruisca dell’istituto della semilibertà.

Bisogna predisporre una vera e propria riforma del diritto penale attuando profonde depenalizzazioni soprattutto all’interno dell’inefficace e repressiva legislazione sulle droghe, potenziamenti delle pene alternative alla detenzione e dell’istituto della messa alla prova per gli adulti.

La funzione della pena è obbligatoriamente rieducativa, tale, non può, finanche in una situazione d’emergenza nazionale, tramutarsi in funzione repressiva-retributiva.

Chi fugge da questo stato di cose non deve essere rappresentato in base al capo di imputazione per la quale si ritrova in cella. Non parliamo di omicidi, rapinatori, spacciatori, semplicemente, si tratta di esseri umani che versano in uno stato di necessità, e in quanto tale meritano tutte le garanzie e tutele del caso.

La richiesta di repressione furente e di legittima licenza ad uccidere gli evasi non è nient’altro che la risposta di uno Stato Leviatano, che invece di porre rimedio alle enormi mancanze e responsabilità, reprime e rinchiude, fuori da ogni logica di Stato di Diritto.

Il grado di civiltà di un Paese, in fondo, si misura dalle proprie carceri.


[1] https://www.antigone.it/quindicesimo-rapporto-sulle-condizioni-di-detenzione/numeri-della-popolazione-detenuta/