Flashback: tecnocrazia nella pandemia

3 / 2 / 2021

«Tanto tuonò che piovve». Apro questa breve riflessione forse nel modo più scontato possibile, ma probabilmente bisogna armarsi della più banale proverbialità nazional-popolare per comprendere al meglio quanto sta succedendo nella politica italiana. Dopo mesi di agonia e continui strappi, il fallimento delle trattative portate avanti da Roberto Fico ci consegna una certezza: non esiste più una maggioranza politica in grado di sostenere un nuovo esecutivo capeggiato da Giuseppe Conte. Lui, quello che da più lati è stato definito “novello Andreotti”, capace di surfare tra gli schieramenti politici nazionali nell’apice della loro polarizzazione, perde la partita con Matteo Renzi, diventato ormai l’uomo delle crisi, l’ago della bilancia perpetuo, il “guastatore” per eccellenza che solo alcuni anni fa voleva interpretare i ruolo di grande condottiero del “partito-nazione”.

Lo dico per chiarezza: non avrò alcuna nostalgia di Conte e credo che lui sia vittima, oltre che di farseschi giochini politici, anche di una concezione managerial-patriarcale della politica che lo ha accompagnato in questi due anni e mezzo (vedi la task force sul Recovery Fund o, andando indietro di qualche mese, il Piano Colao che avrebbe dovuto accompagnare la “ripartenza” nella cosiddetta fase 3). Il problema vero è che a Conte potrebbe succedere Mario Draghi, “dalla padella alla brace” per continuare sulla scia dei proverbi banali.

Lascio il condizionale perché non è assolutamente scontato che attorno all’ex governatore della BCE si raccolga una maggioranza stabile. Chi trema è soprattutto il MoVimento 5 Stelle, partito che più di ogni altro sarà costretto a ridefinire la propria stessa esistenza all’interno dello scenario che si va aprendo. Qualora l’“effetto Carelli” producesse un terremoto interno, trainato dal parlamentare che ieri ha abbandonato il gruppo pentastellato per unirsi al centro-destra, potremmo aspettarci a breve qualcosa in grado di capovolgere totalmente gli equilibri attuali, proprio a partire da un mancato sostegno a Draghi.

La scelta annunciata dal Presidente Mattarella ieri sera potrebbe avere effetti indesiderati anche nel Pd, che da un lato è stato incapace di rafforzarsi internamente dopo la vittoria alle regionali in Puglia e Toscana, dall’altro è stato più volte relegato al ruolo di inutile comprimario nella diatriba Conte-Renzi degli ultimi mesi. Anzi, sono molti gli analisti pronti a scommettere che l’obiettivo reale di Matteo Renzi fosse proprio quello di fomentare una spaccatura del Pd e rimettere in discussione la leadership del “centro sinistra” e –chissà – anche del suo ex partito.

Sarà interessante, inoltre, vedere gli sviluppi politici di quella melma di “responsabili” o “costruttori” emersa dall’oscurità nella fase terminale del governo Conte-bis. Professionisti del grottesco e del trasformismo contemporaneo, stanno probabilmente già affilando le armi per giocare un ruolo politico decisivo all’interno di un governo tecnico decretando per l’ennesima volta una continuità quasi raccapricciante tra Prima, Seconda e Terza Repubblica. D’altronde, ricordando un’espressione di Ciriaco De Mita, «l’Italia si governa al centro».

Infine non c’è nulla di scontato neppure a destra, al di là dei proclami di rito fatti da Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Di sicuro il leader della Lega era l’ultimo a volere una crisi di governo in questa fase, con il suo partito che non è riuscito a trovare un argine all’emorragia di consensi nei sondaggi che ha investito la Lega negli ultimi mesi. E sono convinto che non la volesse troppo neppure Giorgia Meloni, conscia che il centro-destra è ancora ben lontano dal formulare una proposta governativa stabile in questa fase così delicata.

Ci sono due considerazioni che vanno fatte all’alba di una possibile “era Draghi” all’interno della politica nazionale.

La prima riguarda la crisi che l’ha prodotta e che, in virtù delle cose scritte sopra, sembra essere una crisi fuori dal tempo, da un lato figlia di vizi tipici della politica italiana, dall’altro prodotta da una cultura governamentale che costantemente ha necessità di riprodursi attraverso lo “stato-crisi”. Ma, allo stesso tempo, questa crisi è profondamente inserita nel tempo storico della pandemia e della gestione della stessa, quantomeno per le tematiche che l’hanno provocata. Appare chiaro ormai da mesi che la partita viene giocata sul modo in cui verranno utilizzate le risorse del Next Generation EU, definitivamente sbloccate da Bruxelles a dicembre. Di per sé sarebbe anche un dibattito politico sano, quello che interessa il come, il quando e soprattutto il quanto verrà distribuita questa enorme massa di denaro, ricordiamolo quasi completamente finanziata a debito. Il problema è che il dibattito di fatto non c’è e non c’è mai stato, rimanendo sempre confinato nel gossip politico-giornalistico o, ancora peggio, nelle logiche poltronare.

Non che ci aspettassimo qualcosa di diverso, si intenda, né da Conte né quantomeno da Renzi, né da qualsiasi altro esponente della classe dirigente. Però bisogna essere in grado che questa volta si va oltre la solita miseria della politica, perché si è trasformato in una contrattazione da mercato rionale un piano di rilancio su cui ancora pesano come macigni i 90 mila morti che il Covid ha causato in Italia e i quasi 750 mila morti nel continente europeo. Questi dati, in drammatico aggiornamento quotidiano, non vanno mai dimenticati, perché altrimenti significherebbe scindere completamente la politica da qualsiasi consistenza di tipo morale.

Proprio la partita sul Recovery Fund apre alla seconda, e forse più importante, considerazione. Il senso della scelta di Mario Draghi come possibile leader del nuovo esecutivo sta tutta nelle parole di Mattarella: «c’è bisogno di un governo di alto profilo al di fuori della politica». Di fatto: spoliticizzare qualsiasi scelta riguardante il Recovery Fund e consegnare pienamente la gestione delle risorse alla tecnocrazia. Il “profilo” di Mario Draghi è proprio ideale nel perseguire questa logica e questi obiettivi. Su questo portale non c’è bisogno di ricordare come la sua figura sia inesorabilmente legata a quel primato della moneta (più che dell’economia) sulla politica che ha condizionato l’ultima fase del capitalismo globale. Non basta di certo un’intervista d’ispirazione keynesiana per cancellare lo strangolamento della Grecia o il regalo fatto ai cartelli finanziari dalle politiche di Quantitative Easing messe in atto nell’ultima fase della sua presidenza alla BCE.

Anche qui, in realtà, si va a riprodurre un “vecchio vizio” della politica italiana, una tragica coazione a ripetere che vede l’entrata in scena di personaggi legati a doppio filo con il mondo bancario e finanziario nei momenti in cui le scelte politiche devono essere direttamente soggette ai grandi interessi. Era accaduto con Ciampi dopo il crack della Lira nel settembre 1992, che provocò l’uscita dell’Italia dal Sistema Monetario Europeo, all’alba dell’Europa di Maastricht. Era accaduto con Mario Monti dopo la fase più acuta della crisi dei debiti sovrani che investì pienamente l’Italia e che inauguro la drammatica stagione dell’austerità. Ricordiamo anche che il processo che porto alla formazione del governo tecnico presieduto da Monti iniziava proprio con la famosa letterina firmata da Jean-Claude Trichet e – appunto – Mario Draghi, nella quale erano contenuti i diktat che hanno condizionato le scelte italiane in materia di politica economica e di contrazione dei diritti sociali fatte negli anni a venire.

Con Mario Draghi a Palazzo Chigi il sogno tecnocratico europeo continua. E lo fa in un momento in cui le scelte in materia di redditi, salari, welfare e – soprattutto – sanità non possono in nessun modo essere relegate alla “neutralità” del tecnicismo, perché sono scelte che impongono l’uscita dal modello neoliberale che, a detta di tutti, è stato l’artefice del disastro che stiamo vivendo.

In questo terribile flashback, nella mia bolla social mi comparivano le immagini delle manifestazioni contro la BCE con i passamontagna arcobaleno, quelle contro la Banca d’Italia e altre evocazioni che rimandano a un passato che sembra ormai remoto. Sono flashback anche questi, e che siano finalmente di buon auspicio perché, diciamolo con grande onestà, mai come in questa fase c’è bisogno di un movimento forte.

*Foto della manifestazione contro la sede di Banca d'Italia del 2 marzo 2015 a Venezia