Fasten your seatbelts

6 / 9 / 2011

Troviamo la strada. O apriamone una nuova (Annibale)

L’Europa tra dittatura finanziaria e rivolta

È la storia di una società che precipita e che mentre sta precipitando si ripete per farsi coraggio fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene, ma il problema non è la caduta ma l’atterraggio. (M. Kassovitz – L’odio)

Mentre in molti si godevano la sempre più risicata vacanza estiva è caduta, a colpi di declassamenti finanziari e crolli di borsa, un’altra maschera malcelata del capitalismo globale attualmente in crisi: non sono le misure dei governi degli stati a determinare l’andamento di uscita dalla crisi stessa.

È semmai l’andamento dei mercati finanziari a dettare le regole del gioco, ma anche questa spiegazione non basta più, e lascia il campo, a chi non fa l’economista, al bisogno di capire cosa ci sia dietro quest’entità fatta di scambi che chiamano appunto mercati finanziari.

Il mio ottimismo si fonda sulla certezza che questa civiltà sta per crollare. Il mio pessimismo su quello che farà per trascinarci nella sua caduta. (Guy Debord)

Un invisibile giro di boa lungo decenni: il fallimento del neoliberismo, sono i titoloni dei giornali che notiziano il declassamento storico dell’economia Usa da parte dell’agenzia di rating S&P, le manovre confuse dei tecnocrati europei, i fuochi dei riot londinesi ad annunciarlo.

L’inflazionata ma efficace immagine dell’affondamento del Titanic, con i ricchi che brindano sulle poche insufficienti scialuppe di salvataggio e i passeggeri di terza classe imprigionati nella gabbia d’acciaio che li aveva ospitati durante la roboante navigazione, può descrivere bene la situazione in cui viviamo, senza costringerci ad attenerci all’esito.

Oggi, piuttosto che nel 1500, gli anabattisti straccioni ed eroici, amici dei contadini e in perenne guerra con vescovi e principi per l’autonomia e l’indipendenza delle città tedesche, raccontati dall’allora collettivo Luther Blisset (oggi Wu Ming), avrebbero più credito a parlare dell’imminenza dell’Apocalisse.Grande è la confusione sotto il cielo, dunque tutto è meraviglioso, avrebbe detto qualcuno, e invece no.

Bisogna riconoscere, al di là di ogni interpretazione, che siamo di fronte a un mutamento epocale dei rapporti di forza che attengono al potere statuale, e che di fatto si è già dato in termini complessivi, e che ciò c’impone di mettere in discussione in modo permanente le nostre chiavi di lettura del presente se, come dice Nietzsche la verità è che la verità cambia. Che c’è un’alterazione dei meccanismi di governance globale.

Che esiste e si fa strada sempre più, nella complessità dei processi di globalizzazione, un’arma irriducibile, decisamente più irriducibile e incisiva delle armi propriamente dette: il debito.

Il debito delle famiglie con i mutui subprime che ha generato la crisi, il debito sovrano degli stati classificato in base alla possibilità di essere restituito, il debito pubblico che pesa sulle vite dei cittadini senza che si sappia chi l’ha contratto con chi, il misterioso debito monetario legato a qualunque banca centrale in grado di stampare moneta, fino al debito dei singoli e delle famiglie con le famiglie stesse e i loro risparmi, con gli istituti di credito, le finanziarie, le agenzie di riscossione dei debiti, che come una spada di Damocle hanno cancellato il ceto medio, istituito il ricatto e fondato la precarietà esistenziale, al di là dei rapporti di lavoro e di sfruttamento che si producono comunque senza mai spezzare neanche un elemento di quella tenaglia, e anzi rafforzandone l’intensità.

Le cose che possiedi alla fine ti possiedono, diceva Tyler Durden in Fight Club, e probabilmente lo pensa qualcuno di chi oggi contrae prestiti e finanziamenti per evitare di privarsi dei beni cui il consumismo lo ha abituato. (Fight Club finisce con l’esplosione e il crollo dei grattacieli che ospitano le banche dati della finanza di mezzo mondo piazzate da Tyler per azzerare le tracce dei debiti di milioni di persone).

L’invincibilità del debito rappresenta la fine del capitalismo per come lo conoscevamo: l’accumulazione del denaro non ha più come fine il controllo dei mezzi di produzione, a meno che non consideriamo rendita, speculazione e denaro come dei prodotti che hanno un valore d’uso oggettivo.

Le democrazie liberali che nei decenni addietro hanno in qualche modo autorizzato il processo, oggi abdicano nei confronti dei diktat.

Il risultato lo racconta la manovra del governo italiano: uno spropositato aumento dello squilibrio nella distribuzione della ricchezza sociale, un’operazione di sottrazione massiccia del potere d’acquisto dei salari, dei redditi diretti e indiretti, del welfare e di ciò che rimaneva dello stato sociale assistenzialista. Una sorta di rapina in banca rovesciata, con i banchieri e i colossi della finanza che fanno incetta di ogni bene e servizio in circolazione avvalendosi di una fitta rete di estorsori pubblici e privati.

In questo quadro dobbiamo leggere tutto: dalla guerra in Libia, alla corsa alle riserve aurifere degli stati, dalla voce grossa della Cina all’incertezza del vecchio continente.

Che cos’è Matrix? È controllo. Matrix è un mondo virtuale elaborato al computer, creato per tenerci sotto controllo, al fine di convertire l’essere umano in questa [Mostra una batteria]. (Morpheus)

Un nuovo ordine mondiale che assomiglia a una dittatura finanziaria si profila appunto come il nuovo quadro del comando e della gestione delle popolazioni. La crisi è il dispositivo che lo realizza e ne modula la percezione a più livelli. Un inganno palese e tuttavia fatto per essere incontrovertibile. Ma tutte le verità taciute diventano velenose. Non c’è da aspettarsi di sentirsi chiedere come in Matrix “pillola rossa o pillola blu” per rispondersi “Wake Up!”. Alle dittature bisogna disobbedire.

Se le rivolte che incendiano mezza Europa, dai riot nei quartieri neri delle cities britanniche alle marce degli indignados in Spagna, dagli scioperi rabbiosi in Grecia ai tumulti stile 14 dicembre dei giovani precari italiani, vanno lette dentro questo quadro storico, anche i più complessi movimenti di rivoluzione nei paesi arabi, o i conflitti che si accendono nelle università cilene o nelle più sperdute fabbriche delle periferie cinesi, per noi estremamente più difficili da comprendere, non possono comunque prescindere da esso.

La vicenda di paesi come l’Islanda, che ha riconosciuto come illegittimo il debito contratto con le banche olandesi e inglesi, ha rifiutato di pagarlo e si è messa a riscrivere la propria costituzione, rappresenta un fatto eccezionale.

Il conflitto non è una merce. La merce invece no, la merce è sopratutto conflitto. (Guerrilla Marketing)

Lo “shopping alla londinese” che ha accompagnato le rivolte seguite all’assassinio di Mark Duggan di quest’estate, non è semplicemente consumismo allo stato bestiale, come sapienti quanto paternalisti sociologi e psicologi hanno voluto raccontare, né la gestualità insensata e disperata del No Future, ma la rottura estemporanea e violenta di uno schema biopolitico, che nelle città inglesi ha fatto della proprietà privata e dell’accesso al consumo una gabbia materiale e immateriale più potente di un panoptycon penitenziario. Nel leggere gli affanni a spiegare cosa succede nelle periferie inglesi sembra di sentire le parole di un’opera di Shakespeare: che epoca terribile quella in cui degli idioti governano dei ciechi. O ci provano.

Non sono i popoli a dover temere i governi, ma i governi a dover temere i propri popoli. (T. Jefferson)

L’occupazione delle piazze, che ha caratterizzato le mobilitazioni “indignate” propagatesi in mezza Europa, ma che deve tanto in termini di immaginario alla piazza Tahrir simbolo delle rivoluzioni arabe e radice della rovina dei regimi dittatoriali del nordafrica (e forse anche qualcosa al BookBlock e alla Piazza del Popolo del 14 dicembre che sfiduciava dal basso il governo Berlusconi), rappresenta nell’immaginario collettivo la riappropriazione dello spazio pubblico in termini simbolici e materiali, e l’assedio ai palazzi che l’hanno usurpato coi loro privilegi inaccettabili. Lo sapeva anche Napoleone che per gli stomaci vuoti non esistono nè obbedienza nè timore. La democrazia del tumulto ha disegnato scenari imprevedibili, e altri ancora ne tiene in serbo.

Le macerie e l’orizzonte del comune

E dunque, dentro questo contesto di attacco che oltre alla ricchezza sociale non risparmia alcun sistema di diritti e tutele, che abolisce la contrattazione sociale attaccando i contratti collettivi e atomizzando le condizioni di lavoro che si uniformano sempre più a una sorta di caporalato universale, che stringe le maglie della precarietà in una vera e propria “guerra ai poveri”, è comunque in atto un processo di resistenza sociale che ha già manifestato la sua forza in mesi di mobilitazioni, che ha lasciato i suoi segni anche in termini di partecipazione a bassa soglia, come quando ha impresso il suo marchio quando nel nostro paese ha prodotto l’anomalia in termini di rappresentanza politica evocata dai movimenti arancioni protagonisti delle elezioni amministrative a Napoli e a Milano, e ancor di più nell’imponente partecipazione al voto che ha abolito legalmente la possibilità di privatizzare un bene come l’acqua, di rimettere in moto un processo di speculazione inutile e pericoloso sull’energia nucleare, di abolire il principio anche solo formale della “legge uguale per tutti”. Mobilitazioni che hanno fatto del concetto di beni comuni una bussola culturale e linguistica potente e obliqua, uno strumento legislativo, una rivendicazione politica, mettendo in discussione il fondamento sistemico stesso del funzionamento dell’economia liberale, della regolazione dei rapporti sociali, dell’utilizzo sociale di beni e servizi impropriamente incasellata negli schemi di pubblico e privato. Bussola che s’incarna potentemente in battaglie dure, lunghe e ricche di determinazione, come quella del No Tav in Valsusa. Bussola che ridisegna una grammatica della solidarietà e della cooperazione che allude a un modello sociale radicalmente alternativo.

Non è il caso né di aver paura né di sperare, bisogna cercare nuove armi. (G. Deleuze – La società del controllo)

Un processo con molte anticipazioni (l’Onda o il movimento contro il CPE in Francia erano tra queste, a raccogliere il precipitato vivo del movimento No Global) che ha saputo raccogliere e a tratti ricomporre, attorno alla centralità di figure come quelle del precariato cognitivo di nuova generazione come nuova composizione tecnica del lavoro/non lavoro su cui si articola il disegno della precarietà esistenziale, una serie di figure sociali attaccate direttamente o indirettamente nei processi di crisi (studenti, lavoratori, migranti, donne). Dove c’è stata ricomposizione c’è insorgenza sociale. Dove c’è stata partecipazione c’è conflitto. E tuttavia la direzione, a tratti carsica e a tratti televisiva, dei movimenti di opposizione alla crisi è tutt’altro che lineare e prevedibile. E questo spaventa non solo la controparte diretta (i governi, la classe dirigente, la media e grande imprenditoria), ma anche e soprattutto i cosiddetti partiti di opposizione, il partito di Repubblica e finanche pezzi di ceto sindacale più impegnati a gestire un progetto di alternanza nominale nella gestione del potere che qualsiasi ipotesi di alternativa reale, impensieriti forse più di ogni altro da qualsiasi movimento sociale che non sia semplicemente di opinione o testimonianza.

Per fare la rivoluzione ci vuole carisma, ma un po’ di culo non guasta. (Subcomandante Marcos)

L’estate sembra finita con largo anticipo e il 6 settembre viene proclamato uno sciopero generale che se da un lato serve alla Cgil per rendere gestibile il malcontento sociale, che individua sempre di più la Fiom nella relazione con Uniti contro la crisi come un aggregatore in grado di produrre appuntamenti dall’esito potenzialmente esplosivo data l’accumulazione di rabbia sociale e di contraddizioni oggettive nel paese, con l’obbiettivo di depotenziarlo, dall’altro fa immediatamente luce sulle contraddizioni aperte dall’iniziativa del governo sulla manovra finanziaria, che rappresentano, al di là di ogni modifica possibile al testo, una rapina percepibile come tale nei bilanci mensili, settimanali delle famiglie, e l’ennesimo scippo in termini di welfare e servizi sociali alle infinite forme di vita della precarietà, difficilmente sostenibile in sé.

Il fatto che i sindacati di base, seppur con limiti e spaccature, siano tendenzialmente portati a supportare l’appuntamento della Cgil (anzi della Fiom visto che prima dello sciopero era stata la Fiom ad indire una giornata di mobilitazione straordinaria per il 6 settembre contro la manovra) è indicatore del fatto che il delicato sistema di pesi e contrappesi che bilancia e scadenza la temporalità delle mobilitazioni supportate dalle grandi organizzazioni sindacali e di movimento è costretto oggi a rincorrere un immaginario collettivo proteso verso un nuovo scenario di ribellione sociale, per tentare di mantenere un equilibrio gestionale di questi processi sempre più difficile.

Vie di fuga: dignità, solidarietà, reddito, organizzazione

Dobbiamo rassegnarci all’idea: ai più importanti bivi della vita, non c’è segnaletica. (E. Hemingway)

Il 15 ottobre, data individuata dagli Indignados spagnoli come appuntamento europeo dei movimenti che si battono contro la crisi e contro le misure di austerity imposte dalla BCE ai governi europei, che paventano addirittura l’inserimento dell’obbiettivo del pareggio di bilancio nelle carte costituzionali degli stati membri (una misura mortale per le fasce sociali più deboli, nonché insensata rispetto a come funziona il meccanismo del debito), è ormai un fatto: si moltiplicano ogni giorno appelli a montare tendopoli in ogni piazza che abbia una qualche valenza simbolica nelle città, ad assediare i palazzi per sabotare il livello decisionale dei parlamenti totalmente asserviti ai diktat della finanza globale pur di mantenere i propri privilegi, a violare zone rosse materiali e immateriali, come fanno gli hacker di Anonymous attaccando i server di polizie, banche, governi e multinazionali di mezzo mondo, a costruire iniziative di lotta con l’obbiettivo di stravolgere materialmente spazi e tempi delle forme di vita che affollano il tessuto della precarietà metropolitana.

Questi fenomeni ci indicano in pratica, fuori dalla teoria, cosa potrebbe essere uno sciopero precario che ha la caratteristica di essere autoconvocato e di essere slegato da una serie di vincoli che ne limitano normalmente il grado di incisività. Non a caso questi scenari si nutrono nell’immaginario collettivo di immagini come quelle che attraversano pellicole come V for Vendetta. A noi della Generazione Zero risulta quasi naturale dirsi che non abbiamo niente da perdere se non i loro debiti.

Le scuole e le università, sono state un motore delle lotte degli ultimi anni, e tuttavia, oltre le riforme, le trasformazioni degli ultimi anni non hanno risparmiato il mondo della formazione: chi lo attraversa passa attraverso le sue macerie, spacciate per modernità e meritocrazia. Questo processo ha modificato appunto le forme di vita di milioni di giovani, producendo nuove contraddizioni e dunque nuove rivendicazioni. Costruire l’università del comune, rivendicare la produzione autonoma del sapere, lottare per le risorse e per la trasformazione dal basso di scuola e università oggi non può prescindere da un fatto: la formazione non costituisce più alcuna garanzia di mobilità sociale né di emancipazione o dignità. In ciò risiede la necessità di non tralasciare, quando si attraversano i luoghi di formazione, la consapevolezza che qualunque lotta possa rimettersi in moto da lì o trovare lì il suo punto di connessione con altre lotte, così come sostenuto da anni, non può prescindere dalla rivendicazione di reddito.

“A cosa miri pirata, che prendi possesso del mare?” – “A ciò a cui miri tu impadronendoti di tutta la terra; ma io, che lo faccio con una barca insignificante, vengo chiamato ladro mentre tu, che lo fai con una grande flotta, vieni chiamato imperatore.” (Alessandro Magno a un pirata catturato, dagli scritti di Agostino d’Ippona “De Civitate Dei” 4,4.)

Il nodo vero di ricomposizione “di classe” per dirla in termini marxiani è appunto il tema del reddito. Esso rappresenta il comune denominatore di spinte differenti, oltre che il terreno possibile di generalizzazione delle lotte.

Sempre andando oltre i dibattiti teorici che non interessano più nessuno (Quando il dito indica la luna lo stolto guarda il dito!), esaurito completamente il mantra del produci-consuma-crepa, si va rafforzando la parola d’ordine che il meccanismo di protezione, di difesa collettiva dall’attacco delle politiche della crisi è evidentemente il reddito nelle sue diverse declinazioni: salario, welfare, diritti, servizi. Che c’è bisogno di una forma di reddito universale slegato dalla prestazione di lavoro e in grado di rispondere al dramma sociale posto dall’economia in disfacimento che la crisi produce.

Attorno a questa consapevolezza si rafforzano e si generalizzano i percorsi di lotta che fanno della conquista di reddito, e della lotta per il diritto universale al reddito il centro motore del proprio agire (dai disoccupati ai precari, dai movimenti di lotta per la casa, a quelli per l’autoriduzione, alle esperienze di indipendenza lavorativa ed esistenziale).

Se il debito è lo strumento principale di riproduzione del comando capitalistico nella crisi, e il diritto all’insolvenza dei singoli (assicurato per grazia divina a banche e finanziarie) è il meccanismo di difesa e protezione che viene rivendicato e praticato, le forme di riappropriazione diretta di reddito (non per forza di reddito monetario, cioè denaro) rappresentano l’ipotesi di un contrattacco per tutti i precari che non vogliono più pagare la crisi.

Accanto al reddito, il disfacimento dello stato sociale pone e porrà sempre di più l’esigenza di pensare a forme di mutualismo, di costruire welfare dal basso, reti sociali di solidarietà tra i soggetti precari che vivono l’espulsione da sistemi di tutela (diritti, servizi, assistenza). Su questo punto si sconta un’arretratezza quasi ottocentesca che è possibile colmare soltanto riprendendo lo strumento dell’inchiesta sociale, per indagare le forme con cui tali tentativi si manifestano in modo autorganizzato nella società, e costruendo sperimentazioni in continuità con esse.

E non si possono condividere delle ricchezze, se non si condivide un linguaggio. C’è stato bisogno di un mezzo secolo di lotte intorno ai Lumi per forgiare la possibilità della Rivoluzione francese, e un secolo di lotte sul lavoro per partorire un terribile «stato sociale». Le lotte creano il linguaggio nel quale si organizza il nuovo ordine. (Comitèe Invisible – L’insurrectiòn que vient)

Percorsi come Precaria, il festival del precariato metropolitano in preparazione per fine settembre a Napoli, cui composizioni larghissime di movimento e società civile esprimono la volontà di partecipare, con la complessità di contraddizioni, linguaggi e percorsi che si portano dietro, rappresentano al di là della qualità dell’evento in sé un’occasione, da un lato per produrre un terreno di ricomposizione vera, di presa di parola collettiva in grado di raccogliere attorno al tema della precarietà i drammi, le aspettative, i bisogni e i desideri dei precari della città, e dall’altro di farsi materialmente strumento di organizzazione in grado di produrre appuntamenti credibili in grado di costruire una cartografia attiva della precarietà metropolitana, di segnalare e incidere sui luoghi dove la tenaglia della precarietà si chiude sui corpi, sui desideri e sui portafogli dei precari, di costruire linguaggio politico in grado di tradursi in iniziative di lotta.

Bisogna saper stare dove c’è fermento, essere come l’acqua che sfrutta i dislivelli del terreno per acquisire energia dinamica e potenza.

Quelli che danzavano erano visti come pazzi da quelli che non sentivano la musica. (F. Nietzsche)

Una cosa è certa: si ballerà. Non sappiamo bene quando, né come. Non sappiamo chi aprirà le danze, qual è la pista, né la portata certa della posta in gioco. Nella danza però è fondamentale il ritmo. Non basta la tecnica, occorre estro e audacia. E i tempi sono tutto. Quando si balla in gruppo poi contano anche i flussi. Tempi, flussi, portate: ma non c’è un modello fisico del cambiamento che si possa definire lineare. Non tutto può essere ricondotto a razionalità. E in questa fase senza retorica sembra che vada meglio chi è disposto ad osare qualcosa in più!

In ogni conflitto le manovre regolari portano allo scontro, le manovre irregolari alla vittoria. (Sun Tzu – L’arte della guerra)

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