Europa - Una partita a carte per una vittoria concordata

Verso l'appuntamento di Blockupy del 6 e 7 febbraio a Berlino

3 / 2 / 2016

Tempi difficili per chi ha sempre immaginato gli Stati Uniti d’Europa. Una formula tanto ambigua quella di una federazione del Vecchio Continente quanto “di nicchia”, se pensiamo che i suoi maggiori teorici rimangono gli editorialisti di Repubblica e qualche politico erede dell’eurocomunismo (salvo poi essersi completamente dimenticato della seconda parte della parola). Il nuovo anno ha esordito con un dibattito pubblico esacerbato dalle divisioni tra Stati-nazioni in merito ai confini (interni ed esterni), alla gestione del flusso delle migrazioni, alla flessibilità del bilancio. Molti analisti e giornalisti hanno letto in varia misura in questa frattura la fine del progetto Europa. Gli unici – dicono sui giornali nostrani e internazionali – che starebbero tentando di tenere le fila europee sarebbero Renzi e, in seconda battuta, Merkel. Il (non acuto) fiorentino viene disegnato come il paladino dei sani principi della Comunità europea, dell’unione monetaria, della libertà di circolazione. Ma vediamo più in profondità cosa muovono le “sincere” intenzioni di Renzi, che sicuramente, anche se non acutissimo, cala le sue carte con scaltrezza per ottenere qualche concessione dalle istituzioni sovranazionali di cui continua ad essere, comunque, esecutore – non che ci fosse mai stato dubbio. 

Trovare una giusta sistemazione di questo ruolo ricoperto da Renzi può aiutare a comprendere un’altra questione, più importante senza dubbio della prima: cosa rimane dell’Europa? Davvero diventa impensabile immaginarsi un europeismo al di là di coloro che ne sono, a detta di molti, gli “ultimi baluardi” come il Primo Ministro italiano e la Cancelliera? Non possiamo cadere nell’errore, proprio adesso, di far prendere il passo a quelle teorie e analisi che da sinistra e da destra puntano alla cosiddetta “rottura della gabbia dell’Europa” per un ritorno alla sovranità nazionale.

Partiamo dall’Italia. Lo scambio di battute tra Renzi e Juncker, oltre ad aver scoperto il lato permaloso di quest’ultimo (dice di essersi offeso per l’attacco sferzato dall’Italia), sembrava aver congelato l’aria tra l’Europa e la Penisola in un periodo niente affatto positivo. Ci mancava soltanto che l’Italia iniziasse a fare pretese nel periodo in cui Tusk doveva andare a colloquio con Cameron per scongiurare il pericolo Brexit, la stessa Commissione aveva (e ha tuttora) la fretta di chiudere l’accordo con la Turchia, Svezia e Danimarca intanto chiudevano le frontiere con la Germania. Ma se leggiamo attentamente la vicenda ci accorgiamo che la narrata freddezza era in realtà una richiesta di amicizia, di quelle che stanno nelle cerchie più strette. Renzi ha bisogno di avere il beneplacito del Presidente Juncker, nonché di Merkel, per far passare liscio il provvedimento sulle bad banks e tentare di risanare i titoli tossici nei maggiori istituti di credito italiani: checché se ne dica, sarà un bell’investimento di denaro pubblico per l’acquisto di tali titoli. Il pungolo tra le coste della regola aurea nel bilancio non permette molta tolleranza per eccedere il 3% di disavanzo statale. Già lo scorso anno Renzi riuscì ad entrare tra i favoriti di Juncker e Dijsselbloem ottenendo il margine di flessibilità in quanto a capo di un Paese giudicato meritevole per gli sforzi effettuati negli ultimi tempi (cioè taglio al pubblico nella sanità e nella scuola, finanziamento alle grandi opere, precarizzazione formale del lavoro col Job’s Act). 

Le accuse, le prese di posizione, il ribellismo dell’Italia hanno aggiudicato a Renzi l’appellativo di troublemaker, perché ha intenzione di far sentire la voce di una fedelissima del progetto neoliberale dell’Europa, incrinandone tuttavia alcuni cardini. Ma davvero stiamo parlando di questo? Il fiorentino inizia una nuova stagione di abbandono dell’austerità? Tralasciando che i margini di flessibilità sul bilancio sono e restano insufficienti, Renzi sembra piuttosto intenzionato a mantenere un quadro di compatibilità con e per le istituzioni europee. Con queste, perché non ci sarà mai alcuna frizione stile Grecia con Berlino e Bruxelles. Per queste, poiché hanno bisogno di crearsi una nuova legittimità per arginare la bestia nera del populismo, che sia di destra o di sinistra. In una lettera pubblicata sul Guardian Renzi svela le sue motivazioni riformatrici che non parlano assolutamente di diritti sociali, libertà, democrazia, bensì della conservazione dello status quo neoliberale, minacciato da chi, appunto, professa l’abolizione totale di Schengen e un ritorno alle sovranità nazionali. Renzi esorcizza la parola “austerità”, dicendo che deve essere tolta dal vocabolario delle agende di governo per essere sostituita dalla “crescita”. Si dimentica che le due non sono in contraddizione e che “crescita” equivale ad aumento del (loro) profitto e della (loro) rendita a scapito del lavoro.

Quasi la stessa cosa che ha ripresentato al colloquio con Merkel, dicendo che l’Italia non è assolutamente contro l’accordo con la Turchia del (sultano) Presidente Erdogan, bensì voleva avere soltanto alcune delucidazioni sui tre miliardi di euro; delle delucidazioni del tutto innocue.

Insomma, Renzi ha cavalcato l’onda del giovane Presidente ribelle per spendersi meglio alle prossime elezioni amministrative, proprio nelle città che più hanno sofferto la perdita di autonomia e lo schiacciamento dovuto al patto di stabilità. Una cosa è certa, almeno dal colloquio con Merkel: l’Italia si schiera dalla parte di quel nucleo interno dell’Unione Europea che vuole rimanere ancorato al suo estremismo di centro. Né con l’Est di destra, né con il Sud inadempiente, né con gli euroscettici del Nord. L’idea di “un’Europa forte e unita” accomuna sia la Germania sia l’Italia, entrambe consapevoli del danno economico che arrecherebbe un’eliminazione completa di Schengen e la destituzione delle istituzioni sovranazionali.

Ovviamente, attuare ciò che gli accordi di Schengen già prevedono in senso restrittivo è sempre possibile: la porosità delle frontiere sta proprio in questo, permettere il passaggio ad alcuni e differenziare gli altri a seconda delle linee di classe e di etnia. Proprio per questo motivo l’Europa concepita da Renzi, Merkel, Juncker potrebbe portare ad una sua divisione su due aeree a due velocità: una prima che mantiene tutti i benefici di mobilità di merci e persone, una seconda che continua ad usare la moneta comune e un rapporto di mercato con il nucleo più interno, ma che non adotta Schengen e non risponde direttamente alle decisioni della governance europea. Così se c’è da creare competizione tra diverse economie in Europa, non ci sarebbe alcun problema: vai con la battaglia tra chi abbassa di più il costo del lavoro!

Una delle maggiori preoccupazioni per i neoliberali resta, infatti, il meccanismo della decisione per ovviare ai colpi di mano che potrebbero avere i cadaverici Stati-nazione, come dimostrato nella gestione dei confini. Lo stato di emergenza permanente può sì portare a una profonda riforma della costituzione (formale e materiale) dell’Europa, ma anche ad un ritorno della ragion di Stato nazionale. Qui gli ultras del progetto Europa potrebbero, dunque, ripensare ad una zona più “intima” in cui la sovranità statuale viene svuotata definitivamente a favore di istituzioni centrali, differentemente da un’area più estesa che non condividerebbe questo assetto istituzionale – e il “pericolo” Gran Bretagna potrebbe rientrare.

E’ opportuno aggiungere una breve (non per importanza) nota sulle frontiere. E’ interessante come anche la Germania parli di Schengen come un’opportunità e di Europa unita per quanto riguarda il suo aspetto politico, di diritti civili e di intervento militare. Ancora più curioso, però, è che non parli di welfare comunitario e di diritti sociali nel Continente. Proprio la Germania che ha limitato l’accesso al suo welfare per i migranti interni all’Unione. Ridisegnare Schengen, a seguito dei flussi migratori all’esterno, non è un modo per bloccare e differenziare i passaggi all’interno dello spazio europeo?

L’ipotesi di una riforma dall’alto dell’Europa è nell’aria, anche se nessuna proposta concreta è stata fatta . Del resto, dopo la crisi dei rifugiati e l’inefficacia delle quote di distribuzione, tutti i leader europei sanno che bisogna ritoccare Schengen, certo, ma anche lo stesso trattato di Lisbona. Che ci sia l’idea di una revanche per la Costituzione dell’Europa? A dati incerti, meglio non azzardare le divinazioni con la sfera di cristallo. Certo è che tutte le condizioni per un ripensamento della struttura politico-giuridica del Vecchio Continente ci sono, in primis il tempo di guerra. E quando c’è la guerra, diventa molto facile inserire in una carta fondante un continente: lo stato di emergenza (la Francia insegna). Senza scordarci che chi decide in tempo di guerra, è sovrano. Saranno coloro che preferiscono un’Europa unita o coloro che vogliono il contrario? In ogni caso, la decisione arriverà sempre dall’alto.

E’ proprio su questo piano che dovrebbero riflettere i movimenti europei, in occasione dell’importante appuntamento di Blockupy del 6-7 febbraio a Berlino (traduzione a cura di DinamoPress). Comprendere se la spinta costituente possa venire dal basso per immaginarsi, contro ogni ritorno allo Stato nazione, una nuova Europa unita fondata sui principi promossi dai migranti, dai precari, dai disoccupati, da chi difende i suoi territori praticando democrazia radicale - in una parola, dai nuovi e vecchi poveri. Forse l’iniziativa e la progettualità dei movimenti sono rimasti l’unico spazio per un’Europa unita, estesa, oltre i confini e l’austerità?