Eurocontinuità?

Dal 1 novembre Ursula von der Leyen sarà presidente della Commissione Europea

27 / 7 / 2019

Scongiurata l’avanzata dei populismi sovranisti, il Ppe ha giocato il suo asso nella manica per impedire l’elezione del socialista Franz Timmermans a prossimo Presidente della Commissione europea: Ursula von der Leyen, «madre, medico e politica», come si è descritta lei stessa nel suo discorso di apertura al Parlamento europeo. Candidata tra le fila della CDU da luterana della Chiesa Evangelica tedesca fin dagli inizi del nuovo millennio, von der Leyen si è distinta per la carica ricoperta di Ministra della Famiglia, del Lavoro e della Difesa (la prima donna in Germania ad aver ricoperto questa funzione). La futura Presidentessa della Commissione, in carica dal primo di novembre prossimo, è stata eletta a seguito di un accordo di voti tra i popolari, il gruppo di Visegrad e l’Italia.

Più che sulla dinamica di scambio tra voti, all’interno della quale i pesi e contrappesi della maggioranza del Governo italiano non sono stati di secondaria importanza, ci pare utile passare in rassegna il discorso che von der Leyen ha tenuto di fronte all’emiciclo a Bruxelles. Assicurata l’elezione di Sassoli al Parlamento, blindata la candidatura di Lagarde alla Bce, il blocco dominante (Ppe e socialisti) dell’Unione europea sembra avere intenzione di cambiare strategia, stando almeno a quanto affermato in questi prodromi di nuova legislatura, senza, ovviamente, mettere in questione i trattati di fondazione dell’Unione europee.

Nel suo discorso, da un lato la Ministra per la Difesa della Germania ha reso manifesto che gli indirizzi della sua presidenza verteranno principalmente sul contrasto al cambiamento climatico, sull’integrazione e omogeneizzazione europea, sulla parità di genere e sull’immigrazione. Dall’altro, non ha usato mezze misure nel dichiarare suoi avversari politici i leader sovranisti e populisti. Al di là della retorica, occorre precisare che un pezzo del fantomatico “blocco sovranista” abita proprio all’interno del Ppe ed ha votato compatto per la delfina di Angela Merkel. A questo si aggiunge che il Ppe ha provato fino all’ultimo a cercare il sostegno dell’Alleanza Europea dei Popoli e delle Nazioni, la coalizione capeggiata Matteo Salvini che vede al suo interno anche il Rassemblement National di Marine Le Pen e l’Afd.L’obiettivo era quello di costruire macro-alleanze a geometrie variabili, che avrebbero dato al Ppe un margine d’azione più elastico e libero dalla marcatura stretta dei socialsti, ma soprattutto da Renew Europe, il nuovo gruppo parlamentare compost dai liberal-democratici nel quale troneggia La République En Marche di Emanuel Macron.

Entriamo ora nel merito degli assi su cui il blocco dominante continentale vuole erigere il nuovo castello europeo.

In primo luogo, il contrasto al cambiamento climatico. La prossima Presidentessa ha presentato la proposta del Green Deal: entro il 2050 l’Europa deve diventare il primo continente al mondo a impatto zero, passando per una tappa intermedia di riduzione delle emissioni del 50-55% entro il 2030. In aggiunta, von der Leyen si è detta favorevole all’introduzione di una tassa sul carbonio, all’istituzione di una Banca del clima e di un fondo per una transizione equa; quest’ultima misura provvederebbe a sostenere le regioni con una crescita minore nello sviluppo di un’economia non impattante. Ogni singola proposta dovrebbe essere analizzata nello specifico, prendendo in considerazione tutte le eventuali conseguenze e contraddizioni che potrebbe generare. Ciò che, in ogni caso, appare chiaro, è la radicale convinzione dell’inviolabilità dello spazio di mercato europeo, leggasi della legge della concorrenza e, dunque, del capitalismo estrattivista. L’assioma del mercato, da difendere nella sua commistione tra libertà e sicurezza, porta con sé delle eventualità che in nulla sono in rottura con le modalità di produzione, distribuzione e consumo delle energie fossili, ad esempio l’outsourcing, che scaricherebbe le emissioni di carbonio al di fuori del Vecchio continente, e il mantenimento del sistema dei crediti di carbonio. A questo livello della discussione sulla crisi ambientale, posto che si dovranno valutare le misure effettive del caso, von der Leyen sembra voler parlare soprattutto al capitalismo green, rassicurare le imprese (tra cui i grandi colossi dell’estrazione di risorse fossili) e investitori, strizzando allo stesso tempo l’occhio ai Verdi, che in Germania sono il secondo partito, e alle coscienze delle giovani generazioni in mobilitazione in tutta Europa sotto lo slogan di Fridays for Future.

Dal punto di vista del lavoro, von der Leyen ha sottolineato la necessità di trovare un accordo tra sindacati e imprese per la stesura di un ordinamento europeo sul salario minimo, da attuarsi per regione o per categoria, nonché l’intenzione di istituire un fondo comune assicurativo contro la disoccupazione. In particolare, tra i soggetti più vulnerabili vengono citati i giovani, che soffrono un tasso di disoccupazione del 14% a livello europeo, per i quali sarebbe pensata un’implementazione del programma Garanzia giovani. Nel discorso traspare l’urgenza di rispondere ai vari processi di delocalizzazione delle imprese, che traggono vantaggio dalle sacche di dumping sociale diffuse per tutto il continente, e di normare il mondo del web/digitale. Per attuare questo programma, von der Leyen appoggia la flessibilità dei conti pubblici degli Stati entro i margini del patto di stabilità. Sembrerebbe che la linea politica della Commissione si discosti dall’operato dell’ultima legislatura a trazione Junker, così come dall’intransigenza di Ministri dell’Economia come Schäuble, il cui fallimento si è materializzato nella gestione della Grecia nel 2015 e nell’ondata di sfiducia, traducibile in parte con l’esplosione populista, verso l’élite europea. Sebbene il salario minimo europeo incontri le difficoltà del mondo del lavoro e tocchi dei nodi molto importanti per la qualità della vita dei e delle lavoratrici, è anche vero che, in assenza di una prospettiva concreta, potrebbe tramutarsi in una nuova schiavitù del salario, soprattutto se la corresponsione fosse al ribasso. Peraltro, programmi come la Garanzia giovani, in Paesi come l’Italia, non fanno presagire nulla di buono in termini di riduzione della precarietà e della ricattabilità a cui sono costretti milioni di giovani, segnatamente nei primi anni di occupazione. D’altronde, lo stesso salario minimo non intaccherebbe il problema della discontinuità del salario, della dipendenza personale dal datore di lavoro e della mancanza di un supporto materiale che permetta di avere possibilità di scelta dell’occupazione. Per fare questo, bisognerebbe concepire un sistema previdenziale finanziato con gli introiti derivanti dalla cancellazione di buona parte dei debiti sovrani e dai prestiti della Bce.

Infine, il passaggio dedicato ai migranti e alle donne. Sui primi, si è ribadita la linea del blocco neoliberale dell’Europa centrale, con una apertura alla riformulazione del trattato di Dublino: creazione di corridoi umanitari dell’Unione europea, blocco dell’immigrazione clandestina con la fortificazione delle frontiere per tramite di un ampliamento dei corpi di polizia comunitaria. Niente è stato detto sui negoziati con i Paesi terzi, sulla situazione dei campi profughi nei territori esterni alla frontiera europea (Libia), sull’accessibilità di questi corridoi umanitari, che potrebbero ridursi ad un’estensione europea della politica dell’accoglienza tedesca del 2015, ovvero ad un’idea di migrazione di classe e etnica specifica. Un modo, questo, per muovere una stoccata ai populismi reazionari, brandendo la spada dello Stato di diritto europeo, senza tuttavia ripensare daccapo il regime dei confini. Il colpo inferto ai populisti dei Paesi di confine, Italia in primis, lo vediamo nell’appropriazione di una delle rivendicazioni di destra, cioè un miglioramento del meccanismo di redistribuzione dei migranti. Von der Leyen porta all’estremo tale prerogativa, dicendo di voler riscrivere il trattato di Dublino, cioè ciò che la Lega non vuole fare in assoluto. Al netto del volto più umanitario dell’animo politico della futura Presidentessa, la voce dei migranti in tutto questo è nuovamente silenziata.

Sulle donne, invece, si è fatto riferimento alla violenza e alla parità nelle istituzioni. In linea con il suo impegno da Ministra della Famiglia del primo governo Merkel, nel quale ha varato una serie di misure volte a sostenere le madri che lavorano, von der Leyen ha incalzato gli Stati membri affermando che la sua Commissione dovrà essere composta per la metà da donne; inoltre, ha espresso la volontà di assumere a trattato europeo la convenzione di Istanbul contro la violenza di genere. La Ministra della Difesa tedesca ha rimarcato nel suo intervento il fatto di essere la prima donna a essere stata eletta alla guida della Commissione, plaudendo alla progressiva inclusione delle donne all’interno delle istituzioni politiche. Il suo stesso vissuto è rappresentativo di un certo protagonismo femminile in politica e della contraddizione tra lavoro di cura domestica e in ufficio: ginecologa prima, politica dopo, von der Leyen è madre di sette figli. Anche in questo caso, l’intervento all’emiciclo, e l’esperienza incarnata di chi lo espone, parla alle biografie di molte donne emerse in questi anni di nuova ondata del movimento femminista globale, con tutta la critica al lavoro domestico come prerogativa femminile. Detto ciò, parimenti alla presa di posizione ecologista, sappiamo bene che dietro l’angolo si nascondono appropriazioni neoliberali del lessico femminista, ovvero lo schiacciamento del discorso sull’inclusione delle donne all’interno del mercato del lavoro, il che non prevede una radicale ridiscussione dei termini con cui tale inclusione si dà. L’attenzione alla conciliazione tra la carriera professionale e i figli a casa, per quanto tocchi aspetti importanti della vita delle donne, unita a un passaggio in cui von der Leyen indica la demografia come un problema centrale per l’Europa, farebbe pensare a iniziative politiche e sociali che riproducono l’immagine della donna-madre-lavoratrice, lasciando ai margini le voci di molte altre donne che non vi si riconoscono.

Da tutto questo, e dalla chiusura del discorso in cui si rilancia la democratizzazione dell’Unione europea per assumere una prospettiva globale comune, si evince che il blocco egemone si sta rinnovando parzialmente al fine di presentare un’identità compatta nello scacchiere delle potenze globali – un’identità atlantica, si intende, ma comunque in tensione con i populismi sovranisti, dunque anche con Trump. Quanto di questa identità sia irricevibile a causa del silenziamento sistematico di tutti e tutte coloro che non corrispondono alla sua immagine, sta ai movimenti e ai singoli dichiararlo. Così come è responsabilità nostra capire le contraddizioni all’interno del sistema, i tentativi di cattura e di indebolimento del conflitto.