"Dobbiamo svuotare ancora di più le chiese
della sinistra e sbarrarne le porte!!"
T.Negri, M.Hardt
"Come tornare a produrre discorsività politica?
Quali strumenti teorici e pratici e quali saperi possono
mettere in funzione una nuova semantica che nasca dalla
condivisione di esperienze eterogenee di militanza
e di movimento?"
M.Cavallari
"La fantasia non è l'opposto della realtà, ma ciò che la realtà esclude e,
di conseguenza, ciò che definisce i limiti della realtà stessa,
ponendosi come il suo fuori costitutivo.
La promessa critica della fantasia, qualora e laddove essa esista,
è di sfidare i limiti contingenti di ciò che verrà, o meno, chiamato realtà.
Essa ci offre l'opportunità di immaginare noi e gli altri in maniera diversa;
essa fa sì che il possibile ecceda il reale, indicandoci un altrove e,
qualora sia incarnato, conducendo l'altrove a casa"
J. Butler
Dentro le lotte…
Sì, lo sappiamo, ci sono state le
elezioni con tutte le loro conseguenze, ma noi partiamo, come siamo
abituati a fare, dalle lotte. Lo facciamo pur essendo convinti che, con
ogni probabilità, come ci ha ricordato recentemente Andrea Fumagalli,
l'attuale crisi strutturale del capitalismo occidentale abbia delle
radici "endogene" e che dunque non sia stata provocata direttamente
dalle lotte della moltitudine. D'altra parte lo facciamo tenendoci alla
larga da un rischioso "idealismo deterministico" che individuerebbe
nella storia un processo meccanico dove le lotte e il conflitto sociale
spingerebbero quasi per inerzia e in modo trascendentale
l'organizzazione capitalistica a rinnovarsi e la società verso un
modello più libero ed equo.
Dire che partiamo sempre dalle lotte significa in sintesi assumere con
forza che il capitale è un rapporto sociale aperto a dinamiche
imprevedibili determinate dall'ostilità tra sfruttati e sfruttatori
(espropriatori ed espropriati dovremmo dire oggi), che il potere esiste
soltanto dentro una relazione e che dunque l'esito del suo scorrere e
infiltrarsi nella società dipende dai processi materialmente messi in
atto dai molti poli di questa relazione. Il terreno su cui ci
posizioniamo è quello solcato dai devastanti effetti sociali della crisi
del capitalismo finanziarizzato, da mobilitazioni intense, ma col fiato
corto, e da un groviglio spesso frammentato, quasi sempre politicamente
"scomposto", di processi di soggettivazione autonomi ed eccedenti
rispetto al tentativo di cattura dei dispositivi di controllo e
disciplinamento.
Le lotte, dicevamo. Dall'Onda Anomala alle mobilitazioni delle scuole
superiori passando per la Valsusa, le contestazioni alla riforma Gelmini
e le lotte degli operai della Fiom. Senza dimenticare le rivolte e i
conflitti che hanno scosso, fino ad arrivare a provocare mutamenti di
regime politico-istituzionale, il Nord Africa, New York e paesi europei
come la Grecia e la Spagna. Si tratta di un ciclo di lotte le quali
contengono tutte elementi comuni da tenere in considerazione in
prospettiva futura. Quelle europee e statunitensi in particolare sono
connotate da un discorso convergente che con forza e semplicità dobbiamo
assumere per rimettere in moto un processo, o forse meglio un progetto,
capace di attaccare il capitale almeno con la stessa intensità con cui i
suoi dispositivi di sfruttamento s'infiltrano tra noi tentando di
asservirci agli interessi del mercato e della finanza.
Dagli accampamenti di Occupy Wall Street alle piazze spagnole, dalle
barricate greche ai blocchi e alle occupazioni delle città italiane
trasuda, certo con formule e modalità non sempre adeguate al livello
dello scontro, il desiderio radicale di una moltitudine numerosa,
intelligente e creativa di soggetti di riprendere in mano le proprie
vite rivendicando più libertà e più diritti a partecipare attivamente
alla ricchezza collettivamente prodotta. Combattere le cosiddette
politiche di Austerity, termine con cui le oligarchie
politico-economico-finanziarie cercano di nascondere un tentativo di
riaffermazione radicale delle strategie neoliberiste, deriva proprio da
questo desiderio vivo e irrinunciabile.
Entrando più nel merito crediamo che quattro anni di assemblee,
incontri, occupazioni, blocchi, dibattiti, azioni, cortei selvaggi e
scontri ci consegnino tre elementi capaci di rappresentare le coordinate
solide di nuovi terreni di lavoro politico: insofferenza e radicale
disaffezione verso la rappresentanza, centralità del tema della
soggettività e progressiva, anche se lenta, presa di consapevolezza
delle parti in gioco nello scontro e di quello che forse è il vero nodo
intorno a cui questo deve svilupparsi, e cioè l'irrisolvibile tensione
tra la nostra viva e autonoma "produttività" materiale ed immateriale e
il tentativo incessante di rapinarla e metterla a valore. Lotta di
classe avremmo detto in altri tempi.
Strapparsi da sè, costruire il comune…
Torniamo però di nuovo alla materialità
delle ultime lotte con le loro strategie, la loro forza e i loro limiti.
C'è da dire subito una cosa. Tutte le volte che ci troviamo a suggerire
una visione delle cose questa nasce imprescindibilmente dal fatto che
siamo stati sempre "dentro" le lotte, piccole e grandi, e che le abbiamo
vissute intensamente contaminandole e lasciandoci contaminare di
continuo con tutta la carica soggettivante che questo può comportare.
Abbiamo animato con molti altri collettivi le mobilitazioni
universitarie del 2008 e del 2010, vivendone sia la carica innovativa
che le contraddizioni; abbiamo contribuito a organizzare prima la rete
nazionale Uniriot, senz'altro una delle sperimentazioni politiche più
interessanti degli ultimi anni, e poi la rete Unicommon che attraversa
un momento di evidente empasse politica e dunque organizzativa; siamo
stati presenti in Valsusa con passione e con la stessa passione siamo
stati nelle piazze romane del 14 dicembre 2010 e, in modo più
problematico, del 15 ottobre 2011; abbiamo partecipato con curiosità e
in modo laico agli esperimenti di "Uniti contro la crisi" e poi di
"Uniti per l'alternativa" ben consapevoli che quella con i sindacati non
potesse essere una relazione al ribasso. Allo stesso tempo abbiamo
cercato di mantenere un lavoro costante sul territorio lavorando sui
temi dell'autodeterminazione e su questioni legate al genere e alla sua
costruzione sociale con il collettivo Fuxia Block, rilanciando poi con
il progetto del Di. S. C. (Dipartimento dei saperi critici), quello che
da anni rappresenta per così dire il nostro cavallo di battaglia e cioè
l'Autoformazione. Abbiamo infine cercato di interagire attivamente con
le mobilitazioni degli studenti medi nello scorso autunno, mobilitazioni
che hanno ribadito che il terreno di scontro può essere riaperto in
ogni momento e anche in modo radicale, ma hanno anche mostrato tutta la
difficoltà dell'attivazione di dinamiche "ricompositive" e quella della
sedimentazione duratura dei conflitti all'interno di veri processi
costituenti. È prima di tutto da tutto questo che oggi vogliamo partire,
molto più che dalle miserie del capitale e della sua volgare violenza.
Certo consci che con questa si debba fare sempre i conti.
Torniamo all'immagine del potere che ci suggerisce Michel Foucault e
che noi abbiamo progressivamente assunto come la più adeguata, ancor di
più ora, nella cornice del biocapitalismo cognitivo. I dispositivi di
controllo sociale contemporanei si affannano incessamente per fare sì
che i soggetti stiano "al loro posto", inquadrati in ruoli ed identità
socialmente costruite secondo le linee di genere di colore e di classe
stabilite dal capitale, ma allo stesso tempo siano lasciati esprimere
quelle porzioni di creatività ed autonomia sempre più determinanti per
la valorizzazione stessa del capitale. È il neoliberismo stesso ad
alimentare i processi di moltiplicazione delle soggettività, di volta in
volta includendole differenzialmente, neutralizzandole o
criminalizzandole, al fine di governare la vita stessa e metterla a
valore. Sì, siamo sempre più convinti che dentro questa sempre mutevole e
aperta relazione di potere il capitale dipenda dalla nostra espressione
libera e che si nutra di questa in modo parassitario. Siamo sicuri che
molto si giocherà intorno a questa complicata ambivalenza. Non si può
non cogliere in questo la grande occasione che ci troviamo davanti,
anche per liberarci da facili vittimismi che vedrebbero nella realtà un
Matrix da cui è impossibile sfuggire. Se come suggerisce Toni Negri il
potere "sopravvive unicamente dalla nostra volontà di partecipare al
rapporto", allora non abbiamo dubbi che "diserzione e disobbedienza sono
armi sicure contro la servitù volontaria”.
Disertare e disobbedire deve significare letteralmente strapparsi da sè
e frantumare costantemente ruoli sociali e identità a cui le nostre
soggettività vengono ricondotte. Significa assumere ed agire con
coraggio e in termini assolutamente politici il nostro divenire
molteplice, tradire i quadri identitari che proprio noi abbiamo creato
intorno a noi stessi, sfruttare tutta la potenza espressiva e produttiva
che la nostra singolarità è in grado di produrre e togliere il terreno
sotto i piedi del capitale. Detto in termini ancora più concreti vuol
dire scatenare processi di soggettivazione singolari e collettivi
all'interno dei quali i dispositivi affettivi e sessuali del potere, e
il loro tentativo di eteronormazione delle nostre vite, siano
neutralizzati di fronte alla constatazione che l'unica norma è quella
che ogni singolarità produce autonomamente spinto dal desiderio di
vivere in modo molteplice, inaspettato e imprevedibile il proprio sè e
il rapporto con gli altri corpi. Vuol dire partire da corpi liberi per
far diventare le nostre cooperazioni infinite spine nel fianco dei
dispositivi di controllo del capitale.
Vuol dire ancora dare un colpo definitivo a quel cosiddetto discorso
sicuritario con cui da anni cercano di incasellare le soggettività in
coppie binarie funzionalmente costruite: stranieri e autoctoni,
laboriosi e pericolosi, violenti e non-violenti, regolari e irregolari,
criminali e onesti, neri e bianchi. Il rifiuto di questa segmentazione
razziale della società lungo le linee di colore deve essere radicale, e
radicale deve essere, nel nostro tentativo di costituire ogni giorno noi
stessi, la convinzione che non è stando arroccati nei nostri piccoli
feudi che avanzeremo la nostra battaglia per la libertà. Se la
migrazione è chiaramente un evento che attiva potentemente le
possibilità di vivere il nostro essere molteplici e la nostra resistenza
alle reti di cattura rappresentate da ruoli ed identità allora non solo
dovremo fomentare la contaminazione reciproca con chi viene da altri
luoghi ad abitare i nostri quartieri, ma cercare sempre di più di essere
noi stessi dei migranti.
Vuol dire infine, ed è forse qui che la sfida si fa cruciale, sottrarsi
culturalmente all'etica capitalista del lavoro e, ogni volta questo
risulti possibile, sabotare direttamente l'espropriazione continua della
nostra produttività, della nostra stessa vita, e attaccare il capitale
frontalmente e sui fianchi costringendolo ad arretrare sempre di più.
Riprendere del tutto il controllo su ciò che noi stessi produciamo
attivando l'intera attività della nostra vita.
Come sottolineato in precedenza, le possibilità che si aprono sono
davvero interessanti. La produzione di soggettività ai tempi del
capitalismo cognitivo non è più soltanto al centro di dinamiche di
controllo tese a prevenire e reprimere dissensi e conflitti. La
produzione di soggettività diviene centrale per gli stessi processi
economici e finanziari e il soggetto di cui il capitale ha bisogno è un
soggetto/limite che deve offrire volontariamente la sua creatività ed
autonomia agli apparati parassitari del mercato del lavoro, ma allo
stesso tempo controllarne quella potenziale eccedenza ribelle e
conflittuale. Per questo dobbiamo stare sempre sull'attenti e non
permettere che questo gioco possa funzionare, dobbiamo incepparne da
dentro gli ingranaggi, questo dobbiamo fare innanzitutto!
Dirottare continuamente la nostra produttività creativa ed autonoma
verso l'ideazione costante di comportamenti singoli e collettivi
eccedenti la logica capitalistica, verso la costituzione di porzioni
sempre più rilevanti del "comune", laddove, ricordiamolo sempre,
costruire il "comune" è sempre e comunque allo stesso tempo assumere il
conflitto come postura soggettiva "normale" e produrre nuova società,
nuova cultura, nuova politica, in definitiva nuova vita grazie alla
cooperazione di soggetti autonomi.
Lavorare sulla soggettività in questo è in qualche modo una condizione
ontologica che libera la possibilità di lotte mature, radicali e
all'altezza della nuova offensiva capitalistica.
Orizzonti possibili…
Noi intendiamo farlo in diverse
direzioni e, convinti che l'illusione dell'autosufficenza non porti da
nessuna parte, sentiamo la necessità impellente e irrinunciabile di
aprire un confronto con coloro che lo riterranno utile per tentare di
dare vita a discorsi e pratiche politiche comuni.
Innanzitutto vogliamo, alla luce di questa centralità della questione
della soggettività, rilanciare nuovi percorsi di autoformazione. I
dipartimenti dei saperi critici devono essere fucine di una nuova
produzione e organizzazione di soggettività. Devono essere capaci di
uscire una volta per tutte dall'isolamento, diventare virali e capaci di
palesare la pochezza della didattica ufficiale, di colpire con forza le
relazioni gerarchiche, clientelari e mafiose che caratterizzano la vita
nell'Università "riformata". Devono tendere a diventare,
moltiplicandosi in tutti gli Atenei in cui ciò risulti possibile, vere e
proprie istituzioni del comune, saper essere strumenti diretti di
conflitto biopolitico e non piccole isole intellettuali di cui
compiacersi.
I Dipartimenti dei Saperi Critici non solo non si devono configurare
come isole di resistenza contro-culturale, ma irrompere nella scena
rappresentando laboratori vivi di produzione di conoscenza e discorso
politico che vengano subito "esportati" e fatti scorrere fuori dalle
mura dei dipartimenti.
In secondo luogo, ma nella stessa direzione, si proietta "Saperi
Precari", un progetto di inchiesta militante con cui proveremo a
riattivare processi di soggettivazione tra i ricercatori precari
dell'Università che sappiano mettere al centro non tanto la coscienza
delle proprie condizioni di sfruttamento, ricatto e alienazione, ma le
condizioni di una materiale "ricomposizione" politica che permetta a
questi soggetti di uscire dall'invisibilità sociale e dai sentimenti di
rassegnazione a cui sono sottoposti. La retorica della "meritocrazia" e
della sua subdola funzione soggettivante sarà ovviamente al centro delle
discussione di questo progetto. Una discussione molto vivace che ha
preso vita durante un dibattito a Padova a cui hanno partecipato alcuni
compagni di altre città ci ha fatto riflettere sul fatto che proprio
quello del merito potesse essere un tema per certi versi "ricompositivo"
e cioè in grado di dare vita a progetti comuni su scala nazionale.
Il discorso costruito intorno alla meritocrazia, insieme alla ben nota
retorica della "responsabilità personale", è stato negli ultimi anni
un'arma discorsiva micidiale del potere per depotenziare i conflitti
attraverso una costante distorsione dei quadri percettivi dei soggetti
più colpiti dalla crisi. Il dispositivo del merito diviene oggi un
paradigma di neutralizzazione dei posizionamenti e dei conflitti
sociali, mistificando le relazioni di potere e valorizzazione che
sottendono lo sfruttamento capitalistico. La meritocrazia come
"catch-all concept" rischia sempre di più di depotenziare un discorso
critico sui rapporti di potere nella società, separando la classe dei
"potenti" dalla loro funzione sociale, economica e politica e invadendo
il discorso pubblico di un rancore sociale deviato verso un blocco di
soggetti storicamente definito e quindi contingente (ovvero avulso dai
rapporti di potere capitalistici). Questo ordine discorsivo esonda di
fatto l'ambito strettamente universitario e scolastico (che restano
sempre i laboratori di sperimentazione principali per le politiche
neoliberiste) e si riversa sull'intera società, arrivando addirittura a
inglobare e caratterizzare le proposte di reddito di cittadinanza e
nuovo welfare. Demistificare la retorica meritocratica diventa
prioritario per costruire un discorso politico all'altezza delle
prossime sfide.
Vogliamo mettere a disposizione l'esperienza di Saperi Precari come
bene comune da far crescere e sviluppare insieme per permettere a
molteplici intelligenze di esprimere insieme la loro potenza collettiva.
Saperi Precari e la costituzione di Dipartimenti dei Saperi Critici
sono percorsi intorno a cui abbiamo necessità e voglia di confrontarci
con tutti quelli che intorno a questi nodi tematici e progettuali
intendono investire tempo ed energie.
Ancora sul tema della soggettività e dei nuovi ordini discorsivi che
dobbiamo costruire su noi stessi e sulle relazioni in cui siamo immersi,
crediamo che l'assemblea nazionale "queer" tenutasi recentemente a
Bologna possa essere un passaggio importante di un percorso da
articolare nei prossimi mesi. Lo è soprattutto perchè può rappresentare
uno spazio politico ideale dove intrecciare solidamente il tema della
soggettività con quello del conflitto, uno spazio nel quale individuiamo
la possibilità di posizionare dinamiche di libertà ed
autodeterminazione dei soggetti dentro e contro le dinamiche di
sfruttamento capitalistico e non in un altrove consolatorio dove
costruire rivendicazioni "compatibili" con gli ingranaggi del sistema.
Partire da sé, nominare il proprio desiderio e ricombinarlo con i nostri
corpi e con le molteplici relazioni che li attraversano devono tornare
ad essere i temi centrali delle nostre analisi, nei percorsi di
inchiesta, di autoformazione, di intervento e di invenzione di nuove
pratiche politiche di soggettivazione e ricomposizione che dobbiamo
mettere in atto da qui in avanti. Ipotesi di mutualismi o
sperimentazioni di forme di welfare che rispondano alle nuove esigenze
prodotte dalla crisi e dal mutamento antropologico che si sta producendo
sotto ai nostri occhi non possono che scaturire da prospettive situate e
incarnate.
Tutto questo però non basta.
Fomentare ricomposizione…
Questa nuova rivoluzione antropologica
su cui insiste il pensiero queer e femminista contemporaneo deve essere
subito accompagnata da un progetto politico e da campagne politiche che
sappiano andare nella direzione della "ricomposizione" dei soggetti
attualmente esposti all'espropriazione capitalistica, che sappiano
calare il concetto di "comune" dentro specifiche strategie politiche,
assumerlo come in grado di fare ciò che nella nostra agenda non può che
essere al primo posto e cioè costruire ricomposizione e organizzazione
politica.
Badate bene che non c'è intenzione alcuna di eludere tutte le
difficoltà in cui siamo invischiati, considerando le quali farebbe quasi
da sorridere l'idea di attaccare il capitale e costruire una
prospettiva rivoluzionaria. Non vogliamo rassicurarci imbottendoci di
astratti ideali rivoluzionari. Vogliamo solo sottolineare che le
traiettorie che qui proviamo a tratteggiare, anche quando si
materializzano in pratiche biopolitiche "microfisiche" o apparentemente
compromissorie e interlocutorie, vengono disegnate come tali solo e
soltanto perchè siamo intimamente convinti che alludano costantemente a
uno stravolgimento dei rapporti di potere stabiliti dal capitale e a una
prospettiva di rivoluzione biopolitica incentrata sulla costruzione del
"comune".
Recentemente in Italia si sta discutendo in diversi luoghi delle
modalità concrete con cui si possa concretizzare l'opposizione
all'Austerity e al diktat neoliberale. In questo senso il fatto che
dalle elezioni sia uscito un segnale netto contro l'Austerity è un punto
che va valorizzato e sfruttato nel modo giusto.
Le problematiche aperte non sono poche. Basti pensare alle
contraddizioni delle lotte sui salari che mettono al centro il lavoro e
la sua quasi sacralità, o alle enormi difficoltà di dare vita a lotte e
conflitti nel mondo della precarietà, o a superare le rigidità di chi
come risposta al nuovo attacco capitalistico pensa ancora alla
reiterazione anacronistica di vecchi diritti e vecchi modelli di
welfare.
La pratica politica del comune è come se racchiudesse quell'insieme di
elementi in grado di tratteggiare un conflitto sociale che non sia
compatibile e subalterno, che non si presti facilmente a essere
riassorbito e riutilizzato capitalisticamente, che sappia fare male
davvero e cioè sia in grado allo stesso tempo di colpire il capitale
costringendolo a radicali riposizionamenti e arretramenti e,
simultaneamente, all'interno di un attacco politico radicale, sia in
grado di produrre porzioni autonome di vita ed esperienza collettiva
autonormata. Praticare ed istituire il comune vuol dire sottrarsi,
costruire insieme cooperando e attaccare contemporaneamente. Il nuovo
mutualismo, o, che dir si voglia, una nuova forma sindacato deve essere
in questo senso al centro dei nostri ragionamenti, portando la massima
attenzione al rischio di riprodurre dinamiche compatibili e subalterne
al capitalismo stesso.
Di certo costruire nel deserto della crisi, tra militanti e attivisti,
sperimentazioni di vita e socialità altra capaci di mettere alla prova
dei fatti la virtuosità possibile della nostra cooperazione è una cosa
giusta, ma ancora più prioritario è non dare tregua al capitale e ai
suoi dispositivi di potere. Per questo dobbiamo individuare tutti gli
spazi strategici dove ogni giorno si compie, spesso indisturbata,
l'espropriazione del general intellect e, di volta in volta con formule
diverse, tentare di attivare, suscitare, dinamiche diffuse di rifiuto e
insubordinazione, immaginarci come agitatori che smascherano di continuo
le retoriche del capitale e fomentano l'insorgenza e la moltiplicazione
di ribellioni. Dobbiamo in definitiva fare passare l'idea che tradire
il patto sociale con il capitale è l'unica via d'uscita dalla miseria
della crisi.
Come fare tutto questo? Come rompere l'affiliazione volontaria o
involontaria di molti soggetti con il modello sociale di sviluppo che
sta facendo regredire le sorti dell'umanità? Quali sono le condizioni
politiche necessarie? La risposta non è certo nuova, ma nuovi possono
essere i percorsi politici da costruire insieme.
Di nuovo, ripartire dal reddito…
Come molti non smettono di ripetere da
tempo il reddito d'esistenza ci può mettere sulla strada giusta. Può
tornare decisivo nel vincere la ricattabilità estrema che porta un
universo di precari ad avere il fiato e la sicurezza necessaria per
risollevarsi. Può essere funzionale a colpire radicalmente le retoriche,
le rappresentazioni e la realtà materiale dell'"uomo indebitato" con
tutto ciò che ne consegue in termini di libertà dal debito e cioè da una
nuova forma di vera e propria schiavitù.
Il reddito sganciato dalla prestazione lavorativa migliora le
condizioni materiali della vita permettendoci di smarcarci dal rapporto
capitalistico, per poi darci modo di irrompere di nuovo dentro quel
rapporto di potere più forti e capaci di fare male. D'altra parte ci
dice anche che autorganizzarsi dentro reti di cooperazione autonome va
bene, ma allo stesso tempo bisogna andare a riprenderci la ricchezza che
creiamo, metterli con le spalle al muro ed esigere insieme che tirino
fuori il denaro. In forma di reddito d'esistenza diretto e in forma di
nuovo welfare. I soldi ci sono, vanno presi e spesi bene!
Le reti e gli ambiti teorici che hanno lavorato in questi anni sul tema
del reddito hanno dato un contributo essenziale alla crescita politica
del movimento in Italia. Nei prossimi mesi, a partire da una campagna
articolata sul nostro territorio, vogliamo verificare se altri hanno
intenzione di ricomporre con noi l'insieme dei progetti e delle campagne
che negli anni hanno già prodotto molto, dentro un percorso comune con
cui debbano realmente fare i conti governi e amministrazioni. Del
reddito e delle sue virtuosità si è parlato e discusso fin troppo. Ora
dobbiamo organizzarci, mobilitare una grande coalizione sociale, fare
pressione e andare spediti nella direzione della sua concreta
erogazione. Crediamo che questa sia davvero la condizione che sblocca
qualsiasi sperimentazione nella direzione della costruzione del comune.
Un primo passo in questa direzione, anche per valorizzare
sperimentazioni già presenti su alcuni territori, potrebbe essere la
costituzione di nuovi sportelli di inchiesta e intervento politico che
fungano da vere e proprie "unità di crisi" attive nei territori. E'
sempre più urgente aprire spazi di elaborazione e inchiesta in grado di
ricostruire le cartografie parziali delle nostre città e metropoli,
rovesciando le rappresentazioni dominanti plastificate della realtà e
monitorando all'interno dei territori la complessa situazione in cui
varie categorie di soggetti si trovano a vivere nella cornice della
crisi. Come può essere intuibile non è un intento meramente sociologico a
farci muovere in questa direzione. Vogliamo conoscere per fare nascere
relazioni che non siano "neutre" e vogliamo dare vita a interazioni
"partigiane" per innescare immediatamente forme di cooperazione che
rendano il nostro discorso politico, in particolare quello sulla
soggettività e quello sul reddito, finalmente assunto da molti. Queste
"unità di crisi" devono evitare a tutti e costi di rappresentare isole
di resistenza. Devono anzi essere laboratori laici di inchiesta,
cooperazione e nuova pratica politica, capaci di contaminare in modo
dinamico e propositivo tutto il tessuto sociale di città e metropoli,
strumenti comuni di attacco alla nuova fase dell'offensiva neoliberale.
Se guardiamo allo scenario italiano diventa palese il fatto che non sia
questo il momento di immaginare le componenti della sinistra
istituzionale e del sindacato come alleati o sponde su cui fare
affidamento per tutto questo. Noi ci rivolgiamo ai compagni che hanno
fatto una scelta precisa, che fanno vivere collettivi, reti e centri
sociali, che hanno assunto in modo maturo le trappole e i rischi
rappresentati dalla dimensione della "rappresentanza", che pur adottando
molteplici e differenti modalità di lotta individuano come prioritario
il fatto che le pratiche biopolitiche di attivismo debbano essere sempre
immanenti alla materialità dei processi sociali. Detto questo non v'è
dubbio che la composizione sociale con cui ci confrontiamo, anche
attraverso la dinamica elettorale, mostra un desiderio di cambiamento
radicale delle proprie condizioni materiali. In questo senso dovremmo
assumerci la responsabilità di stare dentro le contraddizioni del
governo del "capitale" che in questa fase politica sembrano palesarsi,
proprio a partire da quel bisogno di trasformazione radicale che anche
le ultume elezioni hanno portato alla luce e senza purismi identitari,
deleteri in questa fase.
Oltre il Reality, perchè occupare è giusto…
La nostra realtà politica sta
attraversando un momento decisivo. Dopo quasi 4 anni abbiamo preso una
decisione difficile e importante, quella di trasformare e rilanciare
l'esperienza del Reality Shock, ripartendo dal conflitto. Più che la
voglia di terminare qualcosa è stata quella di iniziarne un'altra (certo
lungo le traccie della precedente), ad averci portato a questa
decisione. Il Reality ha rappresentato una sperimentazione che ci ha
fato crescere politicamente permettendo a un collettivo universitario di
diventare a tutti gli effetti una realtà politica cittadina, ha
rappresentato uno strumento con cui il nostro sguardo sul reale, grazie
alle decine di incontri e seminari, ha vissuto un salto di qualità
decisivo, ha dato vita a un intreccio di relazioni e socialità di cui la
nostra città aveva di certo molto bisogno. Ripartiamo ora dal Reality
tornando a lavorare intorno a una pratica che ci ha appartenuto fin dai
nostri primi passi e che troviamo tutt'ora estremamente preziosa e
produttiva, la pratica dell'occupazione. Crediamo che quest'ultima
ritrovi oggi un importanza decisiva in quanto pratica costituente, come
risposta concreta al saccheggio messo in atto dall'austerity e come
spazio di cooperazione che da più punti espande viralmente la sua
potenza all'esterno, che si propone come agenzia di conflitto molto più
che zona di resistenza.
Infine una cosa su cui siamo stati da sempre particolarmente sensibili.
Da qualche tempo i dispositivi formali e informali della limitazione
della libertà sembrano essersi rimessi in moto in modo massiccio. Il
tema dei dispositivi polizieschi e penali non può essere lasciato
semplicisticamente a chi del meccanismo
repressione-resistenza-repressione si nutre in mancanza di idee
politiche all'altezza dei tempi e delle condizioni che viviamo. È forse
giunto il momento, dopo tanto tempo, di dare un segnale solido e
articolato contro il nuovo tentativo di usare l'arma penale e
provvedimenti detentivi sproporzionati come arma per arginare i
conflitti sociali.
Detto questo andremo avanti cercando di ricordarci sempre che dobbiamo
essere conflitto in ogni gesto, in ogni comportamento, in ogni istante
delle nostre relazioni e che solo così possiamo riconoscere noi stessi.
Dobbiamo poi organizzarci e trovare il modo migliore per stare insieme e
attivare la potenza della nostra intelligenza collettiva. Farlo non per
dirci che siamo bravi, o più bravi di altri, ma per lasciare delle
traccie visibili, per fare male davvero.
Ogni colpo inflitto è un piccolo sollievo per noi, un motivo per
svegliarci la mattina sapendo esattamente, come diceva Gert Dal Pozzo,
"quello che dobbiamo fare"!
Reality Shock
Di.S.C.
Fuxia Block