Eni - Il colonialismo è climatico

13 / 3 / 2019

Se il noto rapporto dell'Ipcc sul cambiamento climatico sostiene che già entro il 2030 potremmo arrivare a un aumento di temperatura tale da prefigurare conseguenze drammatiche per la vita sul pianeta e se afferma che sarà necessario, entro il 2050, raggiungere lo zero di emissioni nette[1], allora è chiaro perché diventa imprescindibile fermare le grandi multinazionali del petrolio - Eni compresa - mettendole di fronte alle proprie responsabilità.

È in questo quadro che dobbiamo collocare il blocco della raffineria ENI di Porto Marghera, fatto dai centri sociali del Nord-Est lo scorso 2 marzo. Un blocco di quattro ore, conclusosi solo con l’intervento di un blindato della polizia, che ha mandato su tutte le furie la direzione dell’impianto. Sul piede di guerra sono scese anche Confindustria e Cgil, sempre più a braccetto quando si tratta di difendere in maniera sterile l’esistente. Industriali e sindacato si sono nascosti dietro la foglia di fico del green washing, incensando la bio-raffineria come uno degli impianti più “puliti” sul piano delle emissioni di CO2. Peccato che questa “riconversione” non tenga conto dell’azione di land grabbing che si cela dietro ogni impianto che utilizza biomasse per produrre energia. In particolare, l’Eni di Porto Marghera utilizza in gran parte olio di palma, proveniente da foreste tropicali che si stanno letteralmente svuotando al fine di creare aree nelle quali coltivare monocolture intensive di palme da olio. L’impatto sull’ecosistema è facilmente intuibile, come intuibile è la contraddizione insita nel concetto stesso di capitalismo verde, specchietto per le allodole per quanti credono che la sostenibilità sia solamente una nuova combinazione di assetti produttivi che garantisca meno emissioni in alcune parti del pianeta.

Ridurre drasticamente le emissioni di CO2 è certo un imperativo, abbandonare un'economia e un modello di vita legati a doppio filo ai combustibili fossili è una necessità non più rimandabile. Se i comportamenti individuali consapevoli (dal consumo alla mobilità, fino all'alimentazione) sono importanti, sanzionare Eni significa fare un passo in più, un passo necessario. Infatti, la crisi climatica non si risolverà limitandosi all'attenzione agli stili di vita o alla riconversione di stabilimenti industriali, poiché essa è stata storicamente accelerata da un modello economico ben preciso, dal neoliberismo, in cui il profitto è legato a doppio filo all'estrazione di risorse naturali (spesso rapinate) e al consumo scellerato di fonti non rinnovabili che mette oggi a rischio l'intera biosfera.

"Keep it in the ground" è stato lo slogan con cui si è spiegata l’iniziativa, un monito internazionale che spinge a tenere le fonti fossili là dove sono, sottoterra, al riparo della bramosia di Eni e delle altre compagnie petrolifere. Perché il cambiamento climatico inverta la sua rotta è necessario realmente un cambio di paradigma, sia in termini produttivi che di gestione delle risorse e dei territori. Un sistema che, quando c'è di mezzo il petrolio, si presenta come combinazione di estrattivismo e colonialismo, due facce della stessa medaglia.

Sotto questo aspetto Eni non è seconda a nessuno. Dal dopoguerra in poi la "nostra" multinazionale è presente in Libia, dove, è bene ricordarlo, gli italiani si sono macchiati di indicibili massacri a partire dai primi decenni del ventesimo secolo. Non solo non abbiamo mai fatto i conti con il nostro passato in Libia, ma, in nome del profitto, Eni ha attinto agli enormi giacimenti petroliferi della regione. Ha fatto (e continua a fare) affari d'oro prima con l'ex presidente libico Muammar Gheddafi e oggi con i vari potentati che lo hanno sostituito; affari con governi e milizie che hanno in massimo spregio i diritti umani, come provano i terribili lager in cui vengono imprigionate centinaia di migliaia di migranti spinti dall’Africa “nera” verso l'Europa.

È bene non dimenticare i cosiddetti migranti climatici, milioni di persone che vengono spinte verso l'Occidente dalla desertificazione e dalla rapina delle risorse naturali africane. Ed è impossibile non scorgere il macroscopico intreccio tra il crimine climatico/ambientale di Eni (e delle altre multinazionali estrattive presenti in Africa) e il fenomeno migratorio. Eni è presente in molti paesi africani oltre la Libia, massicci sono i suoi interessi in Congo e Nigeria. Qui si macchia di veri e propri delitti ambientali come il gas flaring, la pratica di bruciare in atmosfera (senza recupero) il gas naturale in eccesso estratto assieme al petrolio, oppure come la produzione di greggio a partire da sabbie bituminose, combustibili tra i più inquinanti al mondo[2].

«Negli ultimi 50 anni ci sono stati oltre diecimila sversamenti di petrolio nell’area del delta del Niger e in nessuno di questi casi, in nessuno, si è provveduto a una adeguata opera di bonifica ambientale», così denuncia l’avvocato Godwin Ojo che rappresenta la comunità nigeriana degli Ikebiri in una causa civile contro Eni, procedimento avviato dopo uno sversamento di petrolio causato da una falla di un impianto di proprietà della multinazionale italiana. Ojo prosegue: «Le compagnie multinazionali che operano in Nigeria sono spesso coperte da uno status di totale impunità. Agiscono al di sopra delle nostre leggi nazionali: sono praticamente intoccabili[3]».

È così dunque che aiutiamo le popolazioni africane "a casa loro"? E' così che il fiore all'occhiello delle nostre imprese nazionali interviene? Distruggendo l'ambiente, rapinando le risorse di popolazioni già derubate dal colonialismo, costringendole alla miseria, alla migrazione e infine aggravando la crisi climatica i cui effetti si avvertono con sempre maggior chiarezza anche "a casa nostra"?

Qui il colonialismo vecchio e nuovo – che giustifica la violenza sui popoli e i territori in nome del nazionalismo economico - e l'orgoglio italiano per una "eccellenza nostrana" come Eni si uniscono alla tendenza suicida a insistere su un settore, quello dei combustibili fossili che dovrebbe invece, in nome della salvezza della biosfera, drasticamente ridimensionarsi da subito.

Ma con quali mezzi Eni (questo orgoglio tricolore) si procura clienti e occasioni? Non è l'efficienza della macchina a convincere (come prova la situazione del delta del Niger, devastato da perdite ed inquinamento), non è nemmeno la puntualità delle cosiddette compensazioni, spesso presentate in forma di erogazione di servizi sociali ed energetici, promessa e mai completamente elargita, come dimostrano le molte indagini di Ong indipendenti[4].

Cosa c'è dietro le concessioni ad Eni? A giudicare dalla cronaca giudiziaria, la multinazionale italiana paga enormi  tangenti ai corrotti politici locali per poter trivellare. In Nigeria, per il giacimento Opl 245, l'accusa è che Eni abbia pagato una tangente di circa un miliardo di dollari. Il processo è in corso. L'Osservatorio dei diritti parla della "più grande tangente della storia". O che dire dell'enorme giacimento di gas del Congo Francese che quattro faccendieri legati ad Eni si sono recentemente aggiudicati ad un prezzo stracciato, a suon di tangenti[5]?

E in Italia? Qui Eni si comporterà meglio? Non sembra. Nel 2004 Eni pagò tangenti per sbloccare alcune trivellazioni in Basilicata, diversi amministratori pubblici finirono nell'inchiesta (fonte: la Gazzetta del Mezzogiorno). Nella stessa regione, venendo all'oggi, è in corso un procedimento contro alcuni dirigenti Eni, responsabili del locale Centro Olio, le accuse sono di avere smaltito (a fini di profitto) rifiuti inquinanti facendoli passare come innocui. Attività rischiosissima per la possibilità di contaminazione delle falde acquifere[6].

Ecco le molte ragioni per cui il blocco della raffineria di Porto Marghera è solo l’inizio di una campagna politica che individua nell’Eni un chiaro nemico, da smascherare e combattere. Proprio nel solco tracciato nel nostro Paese dai movimenti antirazzisti e da quelli ambientali, che il prossimo 23 marzo scenderanno in piazza a Roma, è fondamentale individuare alcuni punti chiave di questa campagna. In primo luogo la giustizia climatica, perché la riconversione ecologica del pianeta non sia solo un’occasione per creare nuovo business e nuove disuguaglianza, ma parta innanzitutto dal superamento dell’attuale modello di sviluppo. In secondo luogo la decolonizzazione, che ponga fine alla rapina del sud globale che costringe milioni di persone a lasciare le proprie case, a vivere l'incubo dei lager, del razzismo, dello sfruttamento e dell'espulsione. Infine la lotta a una gestione degli affari politici internazionali basata su guerra, corruzione e destabilizzazione costante di intere porzioni di mondo.



[1] Fonte: IPCC: Special Report 15

[2] Fonte: Fondazione Culturale Responsabilità Etica

[3] Fonte: "Environmental Rights Action"

[4] Fonte: Campagna per la riforma della Banca Mondiale

[5] Fonte: L'Espresso

[6] Fonte: Valori.it