Egitto: riflessioni sulla rivolta

4 / 2 / 2011

Chi pensava che il popolo egiziano fosse caratterialmente passivo, prono alla volontà di uno stato e di un potere occhiuti e autocratici, ha dovuto ricredersi. Lanciando quella che si può considerare un’autentica rivoluzione, nel mese di gennaio 2011 le masse egiziane sono scese in piazza reclamando la fine del trentennale regime di Hosni Mubarak. È ancora presto per comprendere in quale direzione si evolverà il movimento. Quello che si può fare a caldo è di individuarne le luci e le ombre.

Senza dubbio luminosa è la partecipazione popolare a un moto per larga parte spontaneo e non coordinato, che ha attraversato trasversalmente la società egiziana e ha visto manifestare in primo luogo donne e giovani. Le difficili condizioni economiche in un paese in cui sono diffuse dolorose sacche di povertà; il retaggio di alcuni anni di lotte sociali, soprattutto nel settore industriale, che non hanno quasi mai assunto carattere di rivendicazione politica, ma che erano spia di un disagio profondo; l’esasperazione per il controllo dispotico del governo sull’espressione democratica della partecipazione e del dissenso, a cominciare dalle elezioni (ultime quelle del novembre 2010), inficiate da brogli e violenze; il rifiuto della corruzione e della clientela che avevano solcato il regime tutto dei Mubarak e del Partito nazionale democratico – tutti questi elementi componevano una miscela esplosiva che prima o poi una scintilla avrebbe finito per far esplodere.

La contestazione al regime ha dovuto assumere un carattere di massa poiché i pur numerosi partiti di opposizione appaiono lontani dall’interpretare la volontà popolare, spesso elitari spesso irretiti in insanabili lotte intestine che ne compromettono la funzionalità. Questa debolezza delle organizzazioni partitiche di opposizione è stata individuata da numerosi osservatori come una delle ragioni della longevità del regime e del blocco del contesto politico egiziano. Gli stessi Fratelli Musulmani, potenzialmente una delle più accreditate correnti conflittuali col sistema, hanno spesso assunto un atteggiamento rinunciatario, non partecipando alle lotte sociali degli anni trascorsi e preferendo subire le persecuzioni della polizia e dei servizi di sicurezza, così come i brogli elettorali (che ne hanno decurtato la rappresentanza al Parlamento da 88 a un solo deputato!), piuttosto che rischiare di portare in piazza i propri pur numerosi sostenitori. È vero che oggi i Fratelli Musulmani si sono, dopo qualche incertezza e ambiguità, espressi favorevolmente al movimento. È vero che essi potrebbero interpretare in senso religioso una rivolta che apparentemente ha caratteri del tutto secolari. È vero dunque che l’atteggiamento dei Fratelli Musulmani potrebbe costituire una variabile importante per capire la direzione che potranno prendere gli eventi.

La situazione è ulteriormente complicata dal fatto che nel settembre 2011 sono previste le elezioni presidenziali. Il Partito nazionale democratico al potere e il gruppo familiare raccolto attorno a Hosni Mubarak avrebbero voluto lanciare alla presidenza il figlio di quest’ultimo, Gamal, rappresentante di un blocco di moderati riformisti, tecnocrati e uomini d’affari che rappresentavano la “nuova guardia” del partito dominante. La rivoluzione del gennaio 2011 ha spazzato via questa possibilità e ha annullato anche le chances di rielezione dello stesso Hosni, visto come il male minore e la soluzione di ripiego per garantire continuità al regime. La designazione a vice presidente, quindi in pectore a successore di Hosni Mubarak a settembre, di Omar Sulayman, capo dei servizi segreti, sembra a tutti gli effetti una scelta di continuità col precedente sistema intesa a salvare il salvabile. È certamente vero, come alcuni uomini della strada hanno detto, che Mubarak vuole cambiare tutto per non cambiare nulla. E tuttavia la designazione di Sulayman cancella le aspirazioni del clan Mubarak o per lo meno le ridimensiona in maniera decisiva. Sarà da verificare quanto altri pretendenti alla corsa presidenziale, come Muhammad al-Baradei, premio Nobel per la pace, o Amr Musa, segretario generale della Lega araba, possano avere la possibilità – e l’autorità – di sfidare i tentativi del regime di rimanere in sella. Molto dipenderà dall’intensità con cui la piazza e i movimenti sapranno imporre la propria voglia di discontinuità. Al-Baradei non è uomo che possa essere considerato davvero rappresentativo della volontà popolare, essendo rimasto per molti anni all’estero, impegnato in organizzazioni internazionali come l’Agenzia per l’energia atomica. Inoltre al-Baradei non può contare sull’appoggio del Parlamento, cui compete l’elezione del presidente della repubblica (poi confermato da una consultazione referendaria), parlamento che, dominato al 90% dal Partito nazionale democratico, dovrebbe ergersi come bastione istituzionale alla rivolta delle masse.

E qui si tocca un punto dolente e delicato, che rende diversa la situazione egiziana da quella tunisina. Le proteste in Egitto dovranno o debbono incanalarsi in un quadro istituzionale garantito e supportato da una Costituzione che enuncia precise regole non solo per l’elezione degli organi dirigenti ma anche per garantire al presidente nominato un controllo padronale sulle leve del potere? Indubbiamente questo è quanto tenteranno di fare i sostenitori del regime, che (a tema di smentite addirittura nelle prossime ore) paiono più consolidati e sicuri dei loro omologhi tunisini. Mi pare di poter affermare ciò perché l’esercito, sempre autentico ago della bilancia della vita politica egiziana, si è espresso a favore della stabilità e del controllo degli aspetti più esasperati della protesta. L’esercito non è intervenuto; soldati e manifestanti hanno fraternizzato, ma non credo che i militari permetterebbero un’esplosione incontrollata di violenza. Una riscrittura della costituzione e nuove elezioni nei binari istituzionali prestabiliti è del resto anche quanto dovranno decidere di fare le masse se vorranno mantenere la rivoluzione nel binario della operatività. Siccome infatti non credo alla spontaneità dei movimenti di piazza e alla loro capacità di raggiungere obiettivi veramente consolidati sulla base dell’autogoverno e dell’autodirezione, credo si avverta fin da ora (per esempio nel rischio che la lotta si trasformi in guerra civile o che gruppi di provocatori ne approfittino per gettare il paese in un caos pericolosissimo per il suo equilibrio interno) la mancanza di un organismo dirigente della rivoluzione, di un partito soprattutto che possa svolgere una funzione egemonica di guida e che sappia interpretare la rivolta in termini istituzionali.

La velocità e la profondità con cui la rivolta è dilagata molto poi devono alla potenza dei moderni mezzi di comunicazione di massa e alle moderne tecnologie, da internet ai social network, da Facebook a Twitter. Questo può insegnare parecchio su come si dovranno gestire nel presente e nel futuro le stesse manifestazioni politiche. Non è un caso che, al dilagare della rivolta, il governo egiziano abbia risposto subito oscurando i computer e le reti, le TV satellitari e le comunicazioni telefoniche.

*** Docente associato Università di Trento - Arabista, autore nel 2005 di Storia dell'Egitto contemporaneo (ed. Lavoro)