Economia ed antropologia della violenza nel "bellum omnium contra omnes"

29 / 7 / 2016

Anche martedì mattina non è tardata ad arrivare. Come una sveglia, una routine, si aprono le pagine online dei quotidiani aspettandosi di trovare qualcosa – cioè quella cosa – e immediatamente si invera ciò che sta dietro l’attesa: la notizia dell’ennesima strage, dell’ennesimo omicidio o attacco. Non perpetrati fuori dai confini dell’Occidente, ma addirittura nei Paesi limitrofi al nostro – Germania e Francia.

La spirale di violenza e di sangue degli ultimi dodici giorni sembra infatti rispettare una sorta di assioma che la fa avviluppare con regolarità nel tempo e nello spazio. Prima l’aggressione su di un treno in Baviera, poi Nizza, Monaco, Ansbach e Rouen. Per non tralasciare, un po’ più distante da casa nostra, l’attentato a Kabul di tre giorni fa ed il massacro di Orlando di giugno. E, andando fuori dagli eventi più spettacolarizzati dai nostri sistemi di informazione, non vanno lasciate sommerse le sequele di episodi di omicidio degli afroamericani da parte della polizia, dei femminicidi nella nostra penisola e l’assassinio di Emmanuel a Fermo.

Messi così, uno di fila all’altro, perdono di senso nella loro specificità e acquistano una significazione comune, come se appartenessero ad un disegno complessivo. Il terrorismo sembra diventare la matrice di ogni attacco, l’ISIS sembra irrimediabilmente infiltrato in ogni angolo delle nostre città e in grado di aggregare tra le sue fila tutti coloro che sono affetti da disagio psichico. Ogni evento che accade in cui siano implicate aggressioni fisiche e omicidi viene ripreso dalla stampa e accostato a tutti gli altri, lasciando intendere implicitamente la loro connessione. E’ accaduto così quando Repubblica, nella mattina di lunedì, ha messo in prima pagina l’allarme bomba a Londra, nel quartiere ebraico (quando quotidiani come The Times ed il Guardian non avevano nemmeno riportato la notizia fin quando non è stato dato un rapporto ufficiale da parte delle autorità ,che hanno smentito l’allarme). Oppure il fatto che l’uccisione di una donna polacca in stato di gravidanza per mano di un giovane siriano sia stato messo in parallelo con l’attentato di Ansbach e di Monaco.

Negli ultimi giorni siamo stati letteralmente bombardati da questa economia dell’informazione sulla violenza. Credo che, a fronte di questa responsabilità che hanno i media nostrani, sia importante comprendere il discorso trasmesso dalla strategia comunicativa in questione e trovare le condizioni di possibilità, le rivendicazioni, le sfumature che dipingono la contemporanea antropologia della violenza. E’ bene distinguere quella che sopra ho chiamato economia della violenza dalla seconda perché, come sempre, il discorso dominante che nasce attorno (e non solo) agli episodi sopracitati, in quanto generatore di verità, non è mai esule dai rapporti di potere propri di una determinata strategia politica.

Economia della violenza

Sia chiaro, non voglio parlare in questa sede né degli interessi economici che stanno dietro alle guerre imperiali e neocoloniali in Medio-Oriente né del guadagno sulle tirature dei giornali che spettacolarizzano la violenza. Per economia della violenza vorrei intendere un’altra cosa, molto semplice e che agisce a livello psicologico e sociale delle persone e delle comunità e che riguarda l’organizzazione, la selezione e la qualificazione degli episodi violenti.

In linea di massima si può dire che queste tre operazioni abbiano come campo d'indagine la stampa, i leader politici e la percezione collettiva. Prendere degli eventi in cui vi sono state diverse tipologie di aggressione (che possono andare dalla violenza di genere all’attacco terroristico islamista o ad una sparatoria di massa), asserragliarli assieme, tagliarne fuori alcuni, non è un atto neutrale: lo si fa perché si vuole veicolare un enunciato ben preciso che trova il suo posto nella griglia di comprensione di una comunità.

Negli ultimi giorni si è scelto di accostare i fatti di cronaca relativi a sparatorie (Monaco e Fort Meyers in Florida) ad episodi di violenza (l’uccisione della donna incinta a Reutlingen e l’aggressione su di un bus di un afghano armato di ascia) e a veri e propri attacchi terroristici (Ansbach, Rouen e sembra Nizza). Se ci fosse stata l’onestà intellettuale di restituire realmente il clima di violenza della quotidianità, perché i maggiori quotidiani italiani non hanno riportato l’uccisione di Adama Traoré, giovane di Beaumont-sur-Oise ucciso dalla polizia tre giorni fa durante la notifica di una denuncia? E ancora: nonostante l’indubbia tragedia rappresentata dalla sparatoria di Port Meyers, perché la stampa italiana ha sempre difficoltà a dare evidenza alle uccisioni degli afroamericani, almeno fin quando non scoppiano rivolte o non si susseguono altre sparatorie come a Dallas? Non da ultimo, quanti roghi, incendi ed attacchi sono accaduti in Germania ai danni dei centri di accoglienza senza che trapelasse una parola nel Belpaese? Oppure, per restare nei nostri confini, quante volte i casi di femminicidio non escono fuori dall’opinione pubblica locale?

Non faccio queste domande per cinismo e per svalutare gli episodi citati dalla stampa o dai politici in questo periodo; piuttosto, voglio render conto in maniera problematica del perché sia fatta una selezione degli episodi, che necessariamente porta a qualificarne alcuni e a sminuirne altri.

La violenza ottiene una definizione ristretta ad un ventaglio di pochi significati. Tutti, però, fanno emergere un’indubbia percezione di insicurezza (su cui c’è poco da discutere, sebbene bisognerebbe capire cosa sia la sicurezza) causata da una “devianza psichica”, da un nemico interno ed esterno, da un’infezione che abita il “basso” della società.

La violenza perpetrata dall’alto – di natura fisica, economica o simbolica – e le responsabilità delle istituzioni, delle misure governative, delle decisioni economiche sembra che non c’entri niente con una tale condizione di guerra e di morte violenta che sembra solo recentemente aver concentrato tutte le sue manifestazioni in maniera devastante. Una narrazione così orientata della violenza non può che condurre in primo luogo a deresponsabilizzare chi ricopre incarichi istituzionali o prominenti nella cosiddetta società civile rispetto alle scelte in ambito politico, sociale ed economico fatte sinora; in secondo luogo a legittimare maggiormente quell’interventismo militare spregiudicato e ipocrita, per gli obiettivi che colpisce e per la complicità che le forze occidentali continuano ad avere con la Turchia e le petrol-monarchie del Golfo.

Da quest’ultimo punto di vista è importante mettere in luce come la stampa stessa, a dispetto di una ricerca scrupolosa e di un codice deontologico, sia solerte nel dare subito adito alle prime impressioni o interpretazioni di un atto di violenza nella direzione della matrice islamista e/o del protagonismo di una cellula dell’Isis. Di non differente entità è il continuo rimando del discorso politico ad una stretta sui flussi migratori e sulla sicurezza interna, un concetto ed una pratica che non sono volte alla prevenzione degli attacchi, bensì alla fortificazione dei confini interni e alla limitazione della libertà di tutti nelle nostre città.

Soprattutto per quanto riguarda la Francia, un tale ragionamento non è affatto estraneo alla riabilitazione dovuta dell’operato delle forze dell’ordine e dell’azione di governo, i quali tentano di guadagnare di nuovo consenso dopo mesi di sfiducia dal basso che hanno ricevuto dai movimenti sociali nati contro la loi travail. Il paradosso: cercano di guadagnare consenso dopo gli ulteriori fallimenti di prevenzione dagli attacchi tramite i dispositivi della sicurezza (più atti ad arrestare attivisti politici in questi mesi che sventare cellule terroristiche).

Con ciò non si vuole affatto negare la presenza e la minaccia dei jihadisti all’interno dell’Europa, anzi: discernere le informazioni, approfondirle, comprenderle nella loro giusta portata è proprio un modo per individuarne la traccia e per debellarne l’adesione ideologica con i giusti mezzi. In un certo senso, per l’economia della violenza è facile ridurre e semplificare gli eventi anche grazie alla stessa funzione che si è data l’ISIS: quella della rappresentazione, come dice Bascetta, dell’unico, grande Male. Gli organi di propaganda del Califfato rivendicano tutto, danno il proprio beneplacito ad ogni cosa possa essere fatta contro i cittadini europei, anche se i presunti emissari non sono proprio l’archetipo del rigore religioso e anche se non hanno mai aderito nello specifico all’ISIS in quanto organizzazione militare. Insomma, l’ISIS per primo rende vero ciò che dice il discorso occidentale dominante, così come il contrario: è il dibattito, il ragionamento, la nostra sempre più capillare percezione quotidiana a produrre un collegamento tra ogni attacco ed il Califfato, cosa su cui l’ISIS stesso si appoggia. Un circolo vizioso che ci fa entrare in questa stretta morsa dell’economia della violenza.

Antropologia della violenza

Ora, se ogni tipo di discorso è un misto tra realtà e finzione (e non per questo ha meno effetti di verità, ci direbbe Foucault), non possiamo negare il clima sociale che, seppur in maniera differenziata, a livello transnazionale si sta determinando. Sopra ho citato anche gli “eventi sommersi” relativi all’incremento dei cosiddetti hate crimes (razzismo, misoginia, omofobia, transfobia, ecc…), perché credo che debbano essere tenuti di conto per avere un quadro più chiaro della contemporanea antropologia della violenza. Certo, bisogna coglierne la particolarità e i punti di divergenza dalla violenza mirata, organizzata e ideologizzata dell’ISIS. Ma bisogna anche essere in grado di capirne la comune radice, per mettere in luce il fatto che anche gli attacchi terroristici sono “i mostri del neoliberalismo”, come ha efficacemente detto lo psicoanalista e sociologo Roland Gori.

Abbiamo già scritto più volte su Global Project che siamo in guerra a causa della crisi (economica, sociale e politica). Un conflitto orizzontale, a bassa ed alta intensità, dentro e fuori l’Europa, che si destreggia tra la guerra simulata e la guerra guerreggiata. Un conflitto che, più che la guerra permanente imperiale, ricorda il bellum omnium contra omnes di Thomas Hobbes, la condizione di diffidenza diffusa e di identificazione dell’altro con il pericolo di morte violenta. Gli ultimi avvenimenti magari ci portano a pensare questo rischio di morte violenta nel suo senso fisico; in generale, il rischio di morte intende un’incompatibilità di fondo, anche simbolica, tra il proprio sé individuale o comunitario e ciò che è giudicato alterità. Ognuno si concepisce come una monade, un involucro impenetrabile e chiuso alla relazione qualitativa con gli altri perché in aperto scontro con loro. Anzi, seguendo il binomio amico/nemico, ognuno di noi costituisce la sua identità proprio nell’antitesi con l’altro che ha davanti – un altro che è, appunto, un nemico.

Possiamo parlare, dunque, di deterioramento di una tipologia di legame sociale che si fondava sulla cooperazione, sulla relazione virtuosa tra due individui, che in un certo modo andava a trasformarli arricchendoli dell’eterogeneità derivante da questa relazione? Sicuramente. Bisogna anche dire, però, che questa condizione antropologica e sociale iper-individualizzata non è priva di legame sociale. Lo stesso Hobbes, nelle pagine del Leviatano in cui descrive la guerra, parla del desiderio di riconoscimento e di potere come una delle cause del conflitto; l’altro non sparisce, non è solo da annientare, si vuole fare in modo che riconosca in noi un potere, un merito, un’identità migliore (l’orgoglio allo stato di natura è tanto importante quanto la sopravvivenza). Niente di così diverso, a parte il contesto e la genealogia, da quella dimensione psichica iper-egoica dell’individuo neoliberale contemporaneo, per cui tutto viene filtrato attraverso un sé individualizzato che vede come riflesso del suo merito e del suo potere, oppure il contrario, ogni azione e ogni accadimento. Ciò che ci muove è in funzione di un accrescimento puramente individuale che serve, appunto, ad incrementare la considerazione della nostra identità in antitesi a quella degli altri. Cosa succede quando questo riconoscimento non viene in alcun modo dato, avvilendo l’io, a causa delle diseguaglianze sulla linea di classe, della razza o del genere/orientamento sessuale? Qui si genera la guerra, in primis simulata e di diffidenza. Il passo per poi andare a quella guerreggiata sembra breve. Non è, del resto, l’annientamento e l’aggressione verso l’altro la forma estrema, cruenta della sottomissione per il proprio riconoscimento?

L’epoca di crisi che viviamo ha riattivato delle identità chiuse e radicalizzate, dal fondamentalismo al nazionalismo. Delle identità che, ancora, faticano ad affermarsi e che negli individui producono questa discrasia tra ciò che loro sono e la realtà. L’unico modo per affermarle sembra essere quello della violenza. I valori neoliberali, in particolare quello per cui si è liberi in quanto individui, non sono mai riusciti ad essere universali e si stanno incrinando anche per coloro che ne sono stati portatori. Di qui la ricerca di un’identità monolitica che possa far fronte a questa crisi.

Questo tipo di discorso vale per ogni tipo di violenza che viene fatta, dalla furia con una matrice religiosa a quella tra i generi e contro i migranti. E’ la ricerca di un’affermazione del proprio potere - e di un riconoscimento da parte dell’altro - il cui fine è dichiarare l’incompatibilità e l’inimicizia con l’alterità, a muovere queste azioni. Se teniamo a mente questo contesto biopolitico, credo che possiamo analizzare meglio due questioni, una relativa al disagio psichico sofferto dalla maggior parte degli aggressori degli ultimi giorni, un’altra rispetto all’attacco in sé.

Lungi dall’essere una giustificazione tout court, mi sembra ovvio che molte delle cosiddette psicopatologie nascano dalle condizioni sociali e culturali nelle quali si trovano gli individui. La sofferenza psichica non è data solo da disfunzioni anatomiche o fisiologiche, ma anche dal rapporto tra conscio e inconscio, entrambi determinati dallo spazio interiore e dall’ambiente esterno. Questo rapporto può derivare da situazioni precedenti l’attuale fase sociale (famiglia, scuola, ambienti sportivi e ludici), ma ciò non significa che non interferisca con l’attuale assetto descritto brevemente più sopra. E’ un caso che i soggetti già precedentemente più esposti a questa sofferenza abbiano compiuto gli atti di violenza più efferati? Poi, visto che nessun articolo nazionale o internazionale ha fatto un focus sulla cosa, la domanda che sorge è: perché sono stati abbandonati dalle cure mediche e di accompagnamento psicologico? Che fine hanno fatto i servizi ed il sistema medico nazionali? Questo vale per il ragazzo francese di Rouen, per il siriano che ha fatto esplodere una bomba ad Ansbach e per il ragazzo che ha aperto il fuoco a Monaco.

Sugli attacchi bisogna invece operare un discrimine. In primo luogo, non possiamo di certo dire che l’esplosione di violenza sia tutta da addossare a problemi psichiatrici o psicologici (come talvolta fanno i media), sia perché non è vero se si pensa a tutti i casi di attacco terroristico e di violenza in generale, sia perché un tale discorso oscura proprio quell’antropologia della violenza generalizzata che ha profonde ragioni politiche ed economiche.

Nel quadro di crisi e di affermazione identitaria che viviamo, come dicevamo, la religione diventa un dispositivo tramite cui costruire il proprio io e le sue caratteristiche antagoniste agli altri. La religione, e con essa l’appartenenza etnico-culturale, l’ideologia politica e la posizione subalterna (che si accompagnano sempre alla religione), diventa meta-motivo. E’ il caso degli attacchi terroristici organizzati a Parigi (entrambe le volte) e in Belgio, perpetrati da cittadini europei radicalizzati e appartenenti dal punto di vista organizzativo all’ISIS. Questi sono, però, da distinguere da Ansbach, Nizza, Rouen e Wurzburg perché in questi ultimi casi i modi di arruolamento sono stati inusuali e, talvolta, non diretti; si è trattato, dunque, di emulazioni e di adesione all’idea-ISIS più che ad una struttura militante clandestina. Le violenze avvenute nelle tre città rivelano le relazioni sociali e politiche che sottendono all’antropologia della violenza, quella situazione limite di una condizione di guerra simulata e a tratti aperta.

L’ideologia, il fondamentalismo religioso, le rivendicazioni politiche riempiono di senso il vuoto dovuto alla crisi del neoliberalismo e alla stratificazione delle diseguaglianze degli ultimi decenni.

Un caso a se stante deve essere rappresentato, invece, da Monaco, in cui il movente dell’azione sembra essere molto più vicina all’ideale della purezza razziale e a quello dello stragismo, piuttosto che essere riconducibile all’islamismo dell’assalitore, soltanto perché di origini iraniane. A se stante, perché non può essere assimilato alla matrice islamista lata o stretta, ma che avvalora la presenza di questa antropologia della violenza, che manifesta la sua sfaccettatura più estrema proprio attraverso l’assimilazione di una identità totalizzante e in guerra con tutto ciò che ritiene possano negarle l’esistenza e il riconoscimento del suo potere.

Facendo un salto in avanti nell’analisi, non possiamo non notare che l’assunzione di un’identità incompatibile con le altre passa anche per la costruzione della mascolinità e l’attaccamento ad una forma di vita non più egemone nei termini delle relazione tra i generi (femminicidio e omofobia), oppure un ritorno al nazionalismo e alla razza, distinta in base al colore della pelle. Al riguardo basta vedere tutti i casi di aggressione agli immigrati e ai centri di accoglienza, nonché la riprese della violenza poliziesca nei confronti dei neri e dei maghrebini nei territori laddove la storia coloniale e di gerarchie razziale è sempre stata forte e si è negli anni modificata sotto l’insegna di un più sottile “razzismo democratico”.

Abbiamo parlato finora degli estremi. Ma, per tornare all’apertura di questo paragrafo, se di antropologia bisogna parlare, allora è chiaro che questa postura violenta – di cui quella neoliberale è in parte madre e in parte ne è partecipe – abita in tutti noi, nei segnali quotidiani, nell’attività di lavoro o di formazione, nelle istituzioni e nelle amministrazioni, nella dimensione simbolica, sebbene a diversi livelli ed intensità. Non dimentichiamoci che in tutta Europa i movimenti di estrema destra, soprattutto in Germania e in Francia, stanno crescendo esponenzialmente a livello politico e sociale. Ciò che non deve sfuggirci è che anche alcune pratiche quotidiane e alcuni discorsi operano una violenza immateriale, materiale e simbolica, componendo diverse sfumature dello stesso spettro cromatico a cui appartiene anche la violenza omicida.

Il problema della guerra, della relazione e dei diritti sociali non sono più rimandabili né singolarmente né in forma separata. Finora ho parlato di un certo tipo di legame sociale che non c’è più e di diseguaglianze su più fronti. Per essere più schietti, si tratta dell’abbattimento del welfare e dei servizi, che non solo lasciano senza la giusta assistenza chi prova sofferenza psichica, ma lasciano senza casa e senza reddito milioni di persone in Europa. Una privazione dei diritti basilari che annienta qualsiasi senso solidaristico e cooperativo tra gli abitanti, ognuno costretto a pensare all’altro come colui che si impossessa illegittimamente di ciò che sarebbe suo, invece. Ma c’è di più: si parla anche dell’assenza di quel tessuto sociale di relazione, di quel legame essenziale tra persone che ha sempre garantito qualità della vita, ulteriori opportunità e una sussistenza minima qualora non ci fossero le istituzioni o le loro misure fossero insufficienti; per intenderci, ciò che nel Sud Europa continua a persistere in modi, tempi e spazi differenti e che comunque in alcune nostre città sta iniziando a vacillare. La forma di vita neoliberale l’ha completamente distrutto per ripiegare sull’individualismo, molto più libero dai vincoli sociali che non lo farebbero entrare in competizione con altri, che di riflesso produce forme di comunitarismo identitario non aperto all’eterogeneità (che altro non è che un individuo collettivo) nel momento in cui non funziona. Posto che in tutti i Paesi europei migranti e cittadini non hanno pari diritti, anche solo rimanendo all’interno del campo degli “autoctoni”, il mito della libertà garantita a tutti è sfumato. Perché, nonostante sulla carte si possano avere diritto agli stessi benefici e garanzie, in Europa la cittadinanza è sempre andata a due, se non tre velocità. Si può anche avere l’RSA dallo Stato francese se si è di seconda generazione oppure non provenire da situazioni economiche non svantaggiate, ma se l’accesso al riconoscimento simbolico e alcune possibilità sociali ed economiche (lavoro, aree urbane della città, socialità) rimangono precluse, non si è cittadini come gli altri. Se alcune soggettività rimarranno sempre marginali, subordinate, stigmatizzate, si continuerà ad alimentare questa antropologia della violenza alla base del processo di soggettivazione di molti.

Il raddoppiamento dell’apporto alle truppe in missione in Siria annunciato da Hollande dopo Nizza non è in alcun modo una soluzione a lungo termine. Lo smantellamento del welfare e la distruzione di un legame sociale virtuoso non si affrontano con le missioni all’estero o con lo stato d’emergenza interno. Se la prevenzione può sicuramente colpire le cellule terroristiche sul territorio, dall’altra parte può poco e nulla per arginare la violenza del quotidiano che non è riconducibile all’ISIS. Abbandonare il dogma del rigore e della moneta per finanziare le strutture di welfare, estendere diritti, abbattere le diseguaglianze e ricostruire il legame sociale per far vivere un’idea del comune, è una delle strade da percorrere per sopravvivere alla barbarie del presente. Da qui bisogna ripartire se vorremo parlare di lotta di classe al posto della guerra di tutti contro tutti, e rifondare così la nostra cittadinanze nei termini della libertà e dell’uguaglianza.