È tutto nero?

Crisi della rappresentanza, assenza in Italia di un campo progressista e necessità di un programma autonomo per i movimenti sociali.

28 / 9 / 2022

Giorgia Meloni “si prende” l’Italia. Con una schiacciante affermazione di Fratelli d’Italia, emerge per la prima volta dal 2008 una maggioranza politica potenzialmente in grado di governare il Paese per i prossimi cinque anni. Non c’è stato alcuno sfondamento, visto che le preferenze numeriche raccolte dalla coalizione di centro-destra sono le stesse di quattro anni fa. Il Pd riesce a fare peggio delle scorse elezioni politiche, quando si parlò di vera e propria debacle segnando la fine dell’epopea renziana. L’astensionismo vola al 36%: il più alto di sempre.

Questi i dati oggettivi che la tornata elettorale del 25 settembre ci consegna e sulla base dei quali vorrei ragionare attorno a tre elementi: la netta virata a destra come maturazione storica del lungo processo di crisi della rappresentanza; l’assenza in Italia di un campo progressista; la necessità di un programma autonomo dei e per i movimenti sociali.

Il lungo corso reazionario e la “ragione populista”

Sul primo punto non mi dilungo su una serie di aspetti teorici che in questi ultimi decenni hanno analizzato la crisi della rappresentanza all’interno della dissoluzione dell’attuale forma Stato e degli enti politico-istituzionali che hanno composto l’arena della democrazia liberale a partire dal XIX secolo.

Mi concentro su alcune questioni. La prima è senza dubbio come leggere l’ascesa di Giorgia Meloni all’interno di quel processo che in Occidente ha determinato la nascita di un nuovo ordine simbolico reazionario, fondato sulla difesa del “maschio bianco etero-normato”. È attorno a questo simulacro che oggi si riconosce una fetta di popolazione che è disposta a vivere peggio pur di non perdere gli atavici privilegi che si sono affermati attorno alle linee di classe, colore e genere. Si tratta di un fenomeno per l’appunto di “reazione”, che ha tentato di controbilanciare la decomposizione definitiva dello Stato nazione e dei suoi capisaldi nella globalizzazione capitalista. In termini più generali, questa sorta di “restaurazione identitaria” fa il paio con una tendenza a cui abbiamo assistito nel lungo ciclo di (ri)accumulazione iniziato negli anni ’70: l’inclusione/esclusione differenziale di alcuni pezzi di società (donne, migranti, soggetti marginalizzati) all’interno del mercato del lavoro e dei dispositivi di cittadinanza.

Il secondo aspetto che vorrei mettere in evidenza riguarda le continuità e discontinuità che le elezioni di pochi giorni fa hanno con quelle del 2018, quelle che dettero vita alla farsa della “Terza Repubblica” e che da molti analisti sono state considerate come la massima espressione del “momento populista”. Senza entrare nel merito dei fenomeni che hanno reso farsesco il passaggio dalla Seconda alla Terza Repubblica - che quantomeno ha comportato la fine dell’anomalia bipolare nel nostro Paese, in linea con tutto il quadro politico europeo -, c’è una relazione ambivalente tra l’attuale scenario e quello determinatosi quattro anni fa.

Da un lato si può leggere il travasamento di voti verso Fratelli d’Italia come un vero e proprio compimento di quella “ragione populista” che si era data in Italia come fenomeno incompiuto. Se in molti hanno identificato il populismo come un “significante vuoto”, Giorgia Meloni è riuscita nel compito di riempire in maniera chiara quel significante con tutti gli elementi che analizzavamo sopra. E lo ha fatto sfruttando al meglio tutte le carte che aveva: l’opposizione al governo Draghi, flirtando ma non troppo con le piazze No Vax e No Green Pass, ma soprattutto mettendo nel mirino quel bacino elettorale che nel 2018-2019 si era coagulato attorno alla Lega ponendosi come riferimento più credibile e leggibile di Matteo Salvini. 

Dall’altro lato, a Giorgia Meloni manca volutamente uno dei pilastri del discorso populista: il presentarsi coma “anti-establishment”. La leader di Fratelli d’Italia non ha mai avuto nessuna intenzione di rappresentare sé stessa e il suo partito come un punto di rottura rispetto all’establishment, europea, globale o finanziaria che dir si voglia. Anzi, l’essenza del suo programma è quello di ristabilizzare l’establishment attorno a una linea programmatica liberal-conservatrice che da decenni è europeista, atlantista e convintamente legata ai valori della destra economica. Non dimentichiamo che i post(?)fascisti sono stati “normalizzati” da circa un trentennio e Giorgia Meloni fa strutturalmente parte di quella “destra di governo” che tra il 1994 e il 2011 è stata co-protagonista dello smantellamento delle conquiste sociali e politiche avvenute nei decenni precedenti. Anche la questione della “riforma della Costituzione” non è un fatto nuovo ed ha illustri precedenti anche a “sinistra”; basti pensare al referendum voluto da Renzi nel 2016 e alla bicamerale di dalemiana memoria.

In definitiva, il governo capeggiato da Meloni sarà molto più compatibile con la cosiddetta “agenda Draghi” – che per intendersi non è quella emersa nelle cronache elettorali dei mesi scorsi, ma esiste da quando sono state inaugurate le politiche di austerity nel 2011 – di quanto venga dipinto dai media nazionali ed europei. Lo specchio di tutto questo lo ritroviamo nelle prime tre sedute di Piazza Affari, che non risentono minimamente del nuovo corso politico, come era invece accaduto 4 anni fa.

Esiste ancora un altro elemento di comparazione, che riguarda un ultimo aspetto del populismo su cui ad esempio ha insistito molto il filosofo Mario Pezzella1. Si tratta della relazione paternalistico/familistica tra masse e leader che ha accumunato in questi anni il lessico e la postura di molti Master dominanti del populismo occidentale. Giorgia Meloni ha da sempre incarnato questo spirito, con una retorica che ha reso ridondante il suo essere “madre”, “sorella d’Italia”, arrivando spesso a creare un’identificazione quasi spirituale tra l’idea di famiglia (ovviamente tradizionale) e quella di comunità nazionale. Non mi soffermo sul risvolto della questione in termini di rovesciamento del femminismo, rimandando a un ottimo articolo di Ida Dominjianni su L’Essenziale, ma su quello esplicitamente elettorale. Gli aspetti emozionali di questa identificazione (quelli che lo stesso Pezzella legge come parte della “società spettacolare) hanno sì creato dei crack in termini elettorali – si pensi a Matteo Renzi nel 2014, a Luigi Di Maio nel 2018 e a Matteo Salvini nel 2019 -, ma si sono rivelati estremamente effimeri, perché hanno legato il consenso a bolle mass-mediali più che a progetti politici. Sappiamo che la volubilità dei flussi elettorali è fenomeno molto più complesso di come io lo stia descrivendo, perché legato tanto alla crisi della rappresentanza di lungo periodo quanto alle contingenze politiche che hanno segnato l’ultima fase storica. Ma soffermarci su questi aspetti rende l’idea di quanto le urne non definiscano mai quadri politici bloccati e duraturi.

Tra sconfitte e sogni 

C’è un must che ha caratterizzato la sinistra dopo quasi tutte le tornate elettorali che si sono succedute dal 1948 a oggi: la famigerata “analisi della sconfitta”. Si tratta di quel misto tra frustrazione fantozziana, analisi degli errori e speranze di cambiamenti che sistematicamente vengono tradite. Di errori che hanno spalancato le porte alla destra ce ne sono stati, e tanti. A partire dalla legge elettorale, per proseguire con le macchiettistiche negoziazioni per il fantomatico “campo largo” e finendo con una campagna elettorale completamente priva di riferimenti sulle principali tematiche di attualità. Non a caso, il Pd è il primo partito solo nella fascia d’età degli over 65, a testimonianza di un voto che si trascina più per inerzia che per convinzione. 

Per quanto riguarda le forze “a sinistra del Pd”, tralasciando l’inconsistenza di una serie di compagini, una nota a parte va fatta sul Movimento 5 Stelle. Dalla caduta di Draghi in avanti, Giuseppe Conte è riuscito nell’operazione di accreditarsi come unica reale forza in grado di raccogliere alcune urgenze sociali, in particolare attorno alla questione del reddito di cittadinanza. Che sia una scelta strategica o un’operazione di trasformismo lo scopriremo nei prossimi mesi, ma sta di fatto che alcuni dati emersi dalle urne premiano i pentastellati, in particolare in relazione all’ampio consenso raggiunto nelle regioni del Sud e nelle fasce di popolazioni più povere. Questo dato ci interessa non tanto per riaprire in altre salse un’improbabile dialettica tra movimenti e rappresentanza, quanto per puntualizzare quanto una serie di questioni (reddito diretto e indiretto, salario minimo, impoverimento di massa) siano prioritarie all’interno di una possibile agenda di mobilitazioni sociali.

Ci sarebbe molto altro da dire sull’analisi del voto in sé, ma il punto della questione che vorrei toccare è un altro. È ancora immaginabile una forza o una coalizione che traduca le istanze di emancipazione sociale, economica, civile in un programma politico che agisca nel contesto istituzionale? È ancora credibile un riformismo, inteso come miglioramento lento e progressivo delle condizioni materiali, in una fase in cui la crisi climatica sta rendendo il disastro qualcosa di cronico, il capitalismo post-pandemico porta il divario tra ricchi e poveri a livelli finora sconosciuti e la guerra nucleare è un’opzione non più fantascientifica?

Si tratta di quesiti che sarebbe errato affrontare in modo tranchant, anche perché immaginarsi come unica soluzione l’antagonismo tout court o il “non votare, lotta!” rischia di essere una lettura altrettanto banale della realtà che stiamo vivendo. È, però, proprio dal tentativo di rispondere a queste domande che va riformulato un nuovo programma autonomo che non può assolutamente arroccarsi sulla difesa dell’esistente, ma deve ambire a confederare le lotte, i legami sociali, ma soprattutto chiunque sia mosso dalla necessità e dal desiderio di cambiare l’intero paradigma di sfruttamento e subordinazione a cui sono soggette – ora come non mai – la vita e la natura.

Queste considerazioni vanno certo collocate all’interno del nuovo scenario politico nazionale post-elettorale, e in generale dentro quello europeo che si è aperto da un lato con il varo del Next Generation EU dall’altro con la guerra in Ucraina. Ma sono dettate anche dalla necessità storica di portare a un livello più ampio quell’alleanza tra lotte operaie e lotte ambientali che nei mesi scorsi ha lasciato intravedere enormi possibilità. Esiste una disponibilità, soprattutto nella composizione giovanile che non a caso per oltre il 50% si astiene dal voto, a immaginare e sognare un mondo che sia realmente altro rispetto a quello che sta andando in frantumi. E i sogni non vanno mai banalizzati, perché quando si sogna in maniera organizzata qualcosa di importante accade sempre.

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1Mario Pezzella,, Critica della ragione populista, “Il Ponte”, n. 8-9 (2016) ripreso su Globalproject.info il 15.01.2018