E la chiamano dignità!

10 / 9 / 2018

Il cosiddetto “Decreto dignità” – proposto da Luigi Di Maio e convertito in legge lo scorso 9 agosto - non è altro che il renziano Jobs Act furbescamente rivisitato, così come il fantomatico “reddito di cittadinanza” non è altro che il reddito di inclusione targato PD a cui viene rifatto il trucco, con qualche briciola in più. Trucchi linguistici, significanti vuoti, che non modificano il quadro strutturale del rapporto di dominio del capitale sul lavoro vivo e sulla riproduzione sociale della vita. Nulla di nuovo rispetto all’ideologia neoliberista, che cancella il Welfare.

I provvedimenti si inquadrano all’interno delle logiche di worfare, in cui le misure contro la disoccupazione strutturale, la precarizzazione del lavoro e della vita, connaturate alla trasformazione postfordista della produzione sociale e del mercato del lavoro, diventano dispositivi di disciplinamento e controllo della povertà, in maniera del tutto analoga alle poor laws nell’epoca dell’accumulazione originaria.

La lettura delle misure proposte conferma la sostanza neoliberista e neolaburista del MoVimento 5 Stelle. Sul lavoro, vengono spacciati come smantellamento del renzismo alcuni vincoli in più alle imprese rispetto al rinnovo dei contratti a tempo determinato. A parte l’ovvia considerazione che i padroni stanno già trovando la maniera per superare e aggirare questi ostacoli, ciò che viene rimosso è proprio l’essenza del problema, anche dal punto del welfare laburista, ossia il ripristino dell’articolo 18, magicamente scomparso dall’orizzonte dei 5 Stelle, dopo essere stato un cavallo di battaglia nel programma elettorale.  

Si tratta dell’ennesima dimostrazione che non esiste un populismo di sinistra con connotazioni di classe: l’unica cosa vera del governo sovranista e populista Salvini - Di Maio è il razzismo contro profughi e migranti, la sovranità esercitata contro i più deboli, la loro riduzione a nuda vita.

Anche il reddito di cittadinanza non è per nulla tale, bensì una mera applicazione della filosofia neo-liberista maturata nel tempo dai Chicago-boys in poi, attraverso Reagan, Tatcher, l’ordoliberismo germanico ed europeo e i tristi epigoni laburisti e post-socialdemocratici. Le misure di sostegno alla disoccupazione, in questo orizzonte, hanno la caratteristica di agganciare un reddito minimo di sussistenza all’obbligo, entro un certo tempo, di accettare le attività lavorative più dequalificate e sottopagate. Il vero obiettivo è quello di sottomettere il tempo di vita alla disciplina di un lavoro “virtuale”, in attesa della fatidica chiamata dei redivivi carrozzoni burocratici chiamati “agenzie del lavoro”. In questa forma di reddito vengono incorporati tutti gli altri ammortizzatori sociali e il finanziamento avviene mediante il solito taglio della spesa pubblica, nella direzione di un ulteriore smantellamento del welfare e spostamento della ricchezza sociale dal basso verso l’alto.

In questo senso, il simulacro di reddito di cittadinanza proposto dai 5stelle è solo apparentemente in contrasto con la flax-tax: ambedue obbediscono alla logica di fondo dell’ordine neoliberista e l’unica alternativa che può restituire maggior potere contrattuale al corpo vivo del lavoro sociale è un reddito di base incondizionato, indipendente dal lavoro.

La nuova “accumulazione originaria”: dignità e povertà come potenze in divenire contro la filosofia della miseria

Nella nuova accumulazione del capitale postfordista si ripetono molti aspetti di quella primitiva: l’accumulazione originaria non è solo una fase del passato storico del capitalismo, bensì un atto che si ripete a ogni nuovo ciclo, seppure in forme nuove: non una ripetizione del “sempre uguale”, semmai una ripetizione differenziale, in cui si intensificano e approfondiscono i processi di sussunzione reale dell’intera vita dentro i dispositivi capitalistici di dominio e sfruttamento.

Gli elementi fondamentali permangono: esempi contemporanei sono le nuove “recinzioni” di beni comuni; la finanza e la sua progressiva intromissione nei bisogni della vita quotidiana; la speculazione immobiliare e la conseguente gentifricazione di specifiche aree urbane, nonché la mercificazione delle forme culturali e della creatività intellettuale che da esse emergono; lo sviluppismo “estrattivista”, il capitalismo di spoliazione e di predazione, che marca «con il ferro e con il fuoco» la propria accumulazione.

L’essenza di questo processo è l’atto di separazione/espropriazione dei mezzi di produzione, di riduzione (o di assoggettamento) del lavoro vivo in forza lavoro. Il capitale deve ripetere questa «separazione originaria» ogni giorno e attraverso ogni mezzo necessario. Questa violenza – l’addomesticamento o imbrigliamento della forza lavoro – è stato da sempre il motore stesso della sua espansione e riproduzione. Ma oggi questa separazione/appropriazione privata avviene ancora di più sul terreno della produzione biopolitica, sulle condizioni stesse di riproduzione della vita nel suo complesso.

Il nuovo processo di produzione attraversa esso stesso un’accumulazione primitiva. Un’accumulazione del tutto originale, perché non espropria semplicemente i commons naturali, ma il comune e tutto ciò che costituisce la potenza dell’individuo sociale. L’appropriazione privata di questa potenza, la necessità per il capitale di contenerla entro l’orizzonte della legge del valore e spezzare ogni possibilità che essa possa eccedere i confini del comando, è la vera origine della moderna povertà. Essa non è solo scarsità di mezzi o miseria, ma è soprattutto potenzialità di trasformazione su molteplici piani dell’essere sociale.

Ancora il legame - antico ed estremamente attuale - della lotta del comune contro la proprietà privata delle condizioni di riproduzione della vita, aspetto paradossale della dialettica tra dominio ed asservimento. Nei Grundrisse, Marx presenta la povertà a partire dalla nozione di «lavoro vivo». La nozione è ambivalente: da una parte il lavoro è «totale esclusione dalla ricchezza materiale»; dall'altra è «fonte viva del valore e possibilità generale della ricchezza». Una dialettica paradossale, certo, ma che distrugge qualsiasi riduzione della povertà a concetto “naturalistico”, a destino ineluttabile e ideologia pauperistica. In questa ambivalenza la povertà per un verso indica i processi di assoggettamento, per l’altro qualifica traiettorie di soggettivazione irriducibili allo statuto della proprietà e ai rapporti di sfruttamento, alternative all'ordine sociale e simbolico dominante. 

Nel vasto orizzonte della “povertà” – il precariato sociale autoctono e migrante, le seconde e terze generazioni, i profughi - si trova non solo nuda vita, ma soprattutto qualità affettive, relazionali, e cognitive che si affermano come potenza latente, così come nell’accumulazione originaria la moltitudine di poveri che si affollavano nei primi distretti e città industriali, composti principalmente da contadini espulsi dalle terre e artigiani privati dei propri mezzi di produzione. La nozione marxiana di forza–lavoro non si comprende se la si considera in maniera oggettivistica o puramente economica, bensì va colta nella sua soggettività, come corpo vivente di uomini e donne, con le loro attitudini, capacità, conoscenze, la loro dimensione vitale e creativa. La vita, nel suo incessante divenire e trasformazione, non può mai essere completamente catturata dagli apparati di comando, è sempre eccedente all’ordine economico, politico, giuridico esistente. A maggior ragione oggi, in cui le reti della cooperazione sociale sono messe al centro del processo produttivo, la dialettica paradossale tra povertà e ricchezza, tra libertà e dominio, tra “comune” e “proprietà privata”, costituisce il nucleo di un antagonismo irriducibile e una tendenza alla rottura e separazione sempre attuale.

Le legislazioni sulla povertà come dispositivi di comando sociale 

Sul filo degli spunti di ragionamento fin qui sviluppati, va evidenziata l’importanza che assume il diritto, inteso come sovranità politico-giuridico-normativa nella genealogia delle forme di dominio, controllo, disciplinamento del capitale nei confronti del corpo vivo del lavoro sociale. L’obiettivo di fondo delle politiche contro il pauperismo non è mai stato l’eliminazione delle diseguaglianze sociali, bensì il disciplinamento e il controllo di quel potenziale sovversivo presente nella povertà di massa.

L’insieme delle misure adottate dai vari paesi europei nel corso del XIX secolo, ma anche fin dai tempi della regina Elisabetta in Inghilterra, rispondevano a una esigenza prioritaria per il potere: sterilizzare il potenziale sovversivo contenuto nel fenomeno povertà. D’altra parte, la stessa Speenhamland Law del 1795 – la legge che riconosceva il diritto al minimo vitale – può essere letta come una sorta di “assicurazione contro la rivoluzione”, essendo stata fortemente condizionata dalla paura della rivoluzione francese del 1789. Solo quando questo timore venne meno si poté passare in Inghilterra alla gestione della povertà – con la Legge dei poveri del 1834 ed il conseguente ritorno delle workhouses– più corrispondente ai bisogni di accumulazione del capitale e alle leggi del mercato capitalistico.

La storia degli ultimi due secoli ci insegna che tutte le conquiste sociali, dalle otto ore di lavoro fino al più avanzato Welfare State, sono state ottenute nei momenti di maggior forza del movimento dei lavoratori, quando il potere aveva paura della “rivoluzione”.  Da questi pochi esempi si può ricavare una semplice legge generale: solo il conflitto di classe contro classe può trasformare il potenziale in potenza di agire. Altro che decreto dignità: la dignità è nella tensione tra bisogno e desiderio di libertà, come nei profughi e migranti, come nella moltitudine di poveri e impoveriti che sognano e immaginano forme di vita diverse. Certo, il potere agisce sui corpi e sui cervelli, stratifica, divide e comanda, ma deve sempre fare i conti con l’irriducibile potenza della vita e il suo divenire.

Usus pauper e abdicatio juris: l’uso comune dei beni comuni al di fuori del diritto costituito

Quando parliamo di povertà e dignità è necessario trovare tracce storiche nel dibattito che si è sviluppato nei secoli, per cogliere le possibilità alternative che si sono determinate rispetto al diritto fondato sulla proprietà privata, in nome del “comune”. Ad esempio, all’interno del monachesimo eretico medievale, nel suo conflitto contro il potere della Chiesa ufficiale, particolare importanza assume la figura di Francesco d’Assisi, il suo rifiuto del diritto basato sulla proprietà e imposto come normativa trascendente. Questa visione ha favorito la pratica dell’usus pauper, l’uso comune dei beni in un rapporto equilibrato con la natura. Al posto del normativismo giuridico imposto da una sovranità trascendente, la “regola” francescana è totalmente immanente e aderente alla forma di vita comune.

Tralasciamo l’aspetto di recupero e stravolgimento da parte della Chiesa ufficiale di questa tendenza critico eretica del francescanesimo, trasformata in ideologia pauperistica di esaltazione della virtù e dignità del povero. Non sono tanto gli aspetti religiosi, teologici, mistici che ci interessano: il potere costituito cerca sempre di bloccare, trasfigurare, stravolgere la potenza della povertà. È più interessante cogliere la forza del messaggio francescano, le tematiche dell’autovalorizzazione e autodeterminazione al di fuori dell’ordinamento giuridico dato. Un rapporto materialistico e storico concreto tra potere destituente (abidcatio juris) e potere costituente (usus pauper), per la fondazione di un nuovo diritto del comune.

Non c’è dignità a prescindere dalla libertà e dall’autodeterminazione, dalla possibilità da parte di ogni singolo di sviluppare in pieno le proprie potenzialità in concatenazione con altre singolarità. Non c’è dignità senza potenza di esistere al di fuori della schiavitù del lavoro salariato, del bisogno, della necessità. «Considerare l’uomo sempre come fine, mai come mezzo» così Immanuel Kant, ma ancor più Spinoza, ci dicono che l’essere umano è un animale sociale e può trovare la sua piena realizzazione solo nella pacifica convivenza in una comunità. L'uomo deve rispondere sia al diritto naturale (il diritto alla libertà di pensiero e di parola, bisogni spirituali primari che danno dignità all'essere umano) che a quello civile (le leggi della comunità). Queste ultime devono necessariamente adeguarsi al diritto naturale, poiché una società che non garantisca la dignità dell'essere umano non è accettabile.