Dopo il 23M...

Riflessioni intorno al nascente movimento climatico e al percorso dei comitati e dei movimenti contro le grandi opere e per la giustizia climatica.

26 / 3 / 2019

Il successo della scadenza del 23M segna l'apertura di un inedito campo di possibilità sul terreno della giustizia climatica, della lotta alle grandi opere e alle devastazioni ambientali. E' urgente, dunque, aprire una riflessione condivisa.

Prima di tutto vale la pena sottolineare quanto la marea riversatasi su Roma sia il frutto di una scommessa che, sulla carta, sembrava più facile perdere che vincere.

Tre erano le condizioni per il successo del 23M e per pensare che la scadenza non esaurisse, ma, al contrario, rilanciasse il percorso. Primo: c'era la necessità di mettere in campo un lavoro di aggregazione di decine di comitati e vertenze, lotte episodicamente unite nel nome della solidarietà, ma mai tenute assieme da forme d'organizzazione efficaci e da una comune cornice politica. Secondo: questa cornice doveva riconoscersi nella questione climatica che, a propria volta, necessitava di essere elaborata in relazione alla vita e alle politiche di sviluppo dei singoli territori. L'assunzione di un piano di mobilitazione che si posiziona su un livello d'astrazione inedito ("la sopravvivenza del pianeta", "la possibilità del futuro", "la riproduzione della sostanza storica stessa") doveva convivere con la sua contemporanea precipitazione nella materialità di relazioni sociali storicamente e geograficamente determinate. Bisognava cioè avere la capacità di indicare i responsabili, quelli sistemici (il capitalismo estrattivo), quelli politici (il governo giallo-verde, ma anche il PD pro grandi opere), quelli economici (le grandi multinazionali, compagnie del petrolio in testa, vd. il caso ENI). Terzo: le prime due condizioni non potevano che portare a un discorso contro tutte le maggiori formazioni politiche in campo in questo momento, contro gran parte delle forze economico-imprenditoriali e le loro ancelle sindacali (Cgil, Cisl e Uil). Insomma, un discorso radicale, ma anche completamente privo di sponde istituzionali.

Questi erano i tre elementi di un'idea alla cui origine stava l'individuazione della crisi climatica come possibile linea di macro-tendenza e la sua rottura dal basso come terreno di conflittualità in essere e in divenire. Ed in questo senso il 15 marzo è stato un segnale importante. Il grande sciopero globale climatico ha rappresentato l'irruzione sulla scena di una giovanissima generazione che, alla faccia della rassegnazione, ha rivelato tutta la propria urgenza di mobilitazione. In questo scenario il 23 marzo (seppure espressione tutta italiana) ci consegna un dato in più, certamente non risolutivo, ma confortante. La Marcia per il clima ha dimostrato che questa generazione ha in sé gli anticorpi contro i tentativi di cattura da parte di quelle forze che oggi compongono l'arco istituzionale e che si contraddistinguono, tutte, per la loro adesione al capitalismo estrattivista neoliberale. Lo ha dimostrato a partire dal fatto che il corteo ha potuto contare su migliaia di giovanissimi (parliamo di ragazze e ragazzi sotto i vent'anni), molte e molti al loro primo corteo nazionale, magari alla prima trasferta romana. In tante e tanti sventolavano le bandiere delle lotte "di casa propria". E non è una questione meramente di orgoglio, né una notazione coreografica, è un segnale di come questa generazione sia in grado di comprendere quanto la battaglia sul cambiamento climatico, per sortire qualche effetto reale, debba essere in grado di individuare e nominare i responsabili. Il tema è cruciale, ma se, certamente, la marcia del 23M ha dato segnali incoraggianti, il lavoro da fare è ancora lungo e per niente scontato. E' su questo crinale, infatti, che si gioca la partita tra la possibilità dell'affermazione di un movimento climatico anticapitalista/radicale e un movimento meramente d'opinione, ovvero ciò che auspicano i custodi dello status quo, dai negazionisti/sviluppisti fino ai socialdemocratici, sostenitori del capitalismo green. Entrambi, non a caso (sebbene i secondi siano mossi da un più sincero entusiasmo) continuano ad avere parole di stima per queste prime inaspettate manifestazioni. Sanno che il momento è adesso, il movimento deve essere "arruolato" il più presto possibile, deve essere spento sul nascere, non è possibile aspettare che chi ha oggi tredici anni veda le sue aspettative deluse quando ne avrà diciassette, avendo nel frattempo maturato un processo di nuova alfabetizzazione politica. Non a caso i residui di organizzazione giovanile socialdemocratica si stanno muovendo, anche se è chiaro che parliamo di una macchina imbarazzante, di goffi tentativi di arginare il movimento all'interno di una dimensione puramente virtuale, di opinione digitale, dotandolo di strumenti organizzativi assai deboli, manovrabili da lobbisti in erba, ansiosi di metterlo al riparo da ogni forma di reale aggregazione e confronto serrato.

Noi, al contrario, abbiamo il compito di dotare il movimento di strumenti organizzativi forti, partecipativi, assembleari. Del resto il percorso che ha condotto al 23M vede i comitati come forza di trazione e ha già adottato l'assemblea come strumento organizzativo principale. Non dimentichiamo che dopo l'appuntamento nazionale inaugurale di Venezia del settembre 2018, ne sono seguiti altri tre, Venaus, Roma e Napoli. Anche oltralpe, laddove l'azione dei Gilet Gialli si protrae da mesi, pur con intensità e caratteristiche diversissime, la cosiddetta "assemblea delle assemblee" sembra, per ora, lo strumento più efficace per frenare le fughe in avanti (o a destra) di leader e "leadirini", per fare emergere da quella grande disposizione alla radicalità (e dalla sua consustanziale ambiguità) i contenuti più condivisibili per chi lotta contro la deriva reazionaria in tutte le sue declinazioni (anche quella ecologica).

Chiariamoci, non siamo qui a tessere le lodi dell'orizzontalità in quanto tale, in quanto metodo monopolisitico. L'orizzontalità si dà, in ogni caso, quando una mobilitazione è in grado di esprimere potenza ed eccedenza, quando (ed è il momento migliore) non c'è bisogno di avanguardie, ma solo della capacità di "stare dentro", di seguire, di costruire occasioni di dialettica e di iniziativa. Per noi la macchina assembleare (che deve certamente comprendere sia la dimensione analogica che quella digitale) risponde all'esigenza di costruire organizzazione, di potenziare l'azione, di rafforzare la relazione reciproca, di dare continuità agli spazi pubblici e politici che si aprono, laddove i custodi dello status quo si agitano per limitare il tutto a una grande rappresentazione, all'irriducibile individualità testimoniale che è una delle cifre dei tecnopoteri, egemoni in questa congiuntura storica reazionaria, dopo il riflusso delle tecnopolitiche radicali che avevano caratterizzato la stagione dei vari Occupy.

E' dunque questa la battaglia politica cui siamo chiamati nell'immediato, ma ancora molto va riflettuto sui tempi, modi ed intensità della sua messa in pratica. Alcuni termini della contesa sono chiari: “assemblea VS chat” (che, lo ripetiamo, non sta per off line VS on line, ma sta per organizzazione "profonda" contro adeguamento della stessa ai tempi-modi dell'infosfera del capitalismo digitale) e conflitto VS testimonianza, molta strada va fatta dal punto di vista dell'inchiesta. Va capito, innanzitutto, chi davvero sia sceso in piazza il 15 marzo, se questa composizione giovanile sia omogenea in termini di provenienza sociale oppure no. Va approfondito qualcosa che è emerso sui social network in queste ultime settimane, ovvero in che modo essa declini quella ormai annosa repulsione per la politica, tratto che può assumere forme diverse: dal disinteresse al rifiuto della rappresentanza, fino al paradossale non riconoscimento della mobilitazione climatica (cioè del proprio attivismo) come questione immediatamente politica, con la conseguente omologazione di tutte le posizioni in campo. In questo modo un ecologista radicale non viene percepito come differente rispetto a un parlamentare leghista in doppiopetto, poiché entrambi sono accomunati dal peccato originale della politica. Naturalmente è ovvio che qualora il movimento dovesse prendere questa piega, quella del rifiuto aprioristico della politica, ormai percepita come attività irrimediabilmente alienata, la cosa andrebbe a tutto vantaggio del parlamentare e a discapito dell'ecologista radicale.

Questi sono, senza dubbio, alcuni dei quesiti che il nascente movimento climatico ci pone. Su questi e su altri sarà necessario applicarsi collettivamente, da subito, riflettendo nelle assemblee territoriali e nei prossimi appuntamenti nazionali.

Anche se estremamente felici dell'esito del 23M, non possiamo, ovviamente, dare per scontato che la richiesta di giustizia climatica assumerà "naturalmente" i tratti di un’azione radicale che, sola, porterebbe al risultato di una reale transizione ecologica, né che si collochi immediatamente in una dimensione di non congiunturalità. Ciò che è importante, però, è la consapevolezza di un inizio, la constatazione che pur dentro una fase complessivamente non semplice, sul versante della giustizia climatica, dell'ambiente e delle grandi opere, ci stiamo interrogando intorno all'apparizione di una grande possibilità.