Tratto da da Adlcobas.it

Dieci anni di decrescita infelice. Verso la giornata di sciopero sociale del 14 novembre 2014

31 / 10 / 2014

Tra il 1996 e il 2013 l’Italia, è il paese che ha registrato le più basse dinamiche di crescita del Pil pro capite con appena il +2,1%, ben lontano dai principali competitors europei, come Francia (+18%), Spagna (+24,5%), Germania (+25,4%) e Regno Unito (+31,9%), tra i 28 paesi dell’unione europea e le 10 principali economie Ocse, e a una distanza stellare rispetto ai Paesi dell’Est e del Nord Europa cresciuti a tassi dopati che vanno, tanto per capirci, dal +47,8% dell’Ungheria fino al +168% della Lituania.

Un gap che emerge sia nel periodo pre-crisi (1996-2007), con una crescita inferiore di 10 punti alla media europea, sia nel periodo successivo (2008-2013), nel quale la riduzione del Pil pro capite è stata superiore a quella degli altri Paesi; tutto questo conferma che la fragilità del nostro Paese è strutturale mentre le fasi economiche espansive sono precipuamente connotate come congiunturali.

Condizioni economiche e sociali che sono precedenti ed indipendenti dall’introduzione della moneta unica, l’euro, ma soprattutto che, sebbene la crescita [sviluppo?!] sia un problema che riguarda nel complesso tutta l’Europa, la maggiore difficoltà a riprendere il cammino della ripresa è una caratteristica tutta italiana, legata alle caratteristiche e peculiarità della nostra struttura produttiva, basata principalmente sull’intensificazione del lavoro vivo, il contenimento del suo costo, ottenuti attraverso decentramento, outsourcing, delocalizzazione e quant’altro necessario ed utile per ottenere una forza lavoro mobile, flessibile, duttile e doma; dove le tecnologie del lavoro e gli investimenti sono componenti assolutamente secondarie.

In questa ottica vanno lette le continue riforme pensionistiche, che hanno perseguitato i lavoratori più maturi, così come le ripetute riforme del mercato del lavoro con l’attuale groviglio di forme contrattuali e l’implosione del lavoro autonomo e artigiano. Una rincorsa contro il tempo della crisi e della decrescita che ha solo post posto la recessione economica annunciata, creando, per gli strati sociali più deboli, molti più danni che guadagni.

Nel periodo 2007-2013, lo ricorda il rapporto Svimez uscito in questi giorni, al Sud le famiglie assolutamente povere sono cresciute oltre due volte e mezzo: da 443mila (il 5,8% del totale) a 1 milione 14mila (il 12,5% del totale), il 40% in più solo nell'ultimo anno. Nel 2012 il 9,5% delle famiglie meridionali guadagna meno di 1.000 euro al mese: in particolare, il 9,2% delle famiglie lucane, il 9,3% delle calabresi, il 10,9% delle molisane, il 14,1% delle siciliane. A esporre alla povertà concorrono sia la disoccupazione che i familiari a carico. 

Nel 2012 il 57% delle famiglie meridionali è monoreddito, con punte del 59% in Campania e del 63,3% in Sicilia. Il 16,4% delle famiglie (con punte del 19,8% in Basilicata) ha un disoccupato in casa, il doppio del Centro-Nord (8,6%). Senza dimenticare gli indicatori ISTAT che segnalano una disoccupazione giovanile ben oltre il 40%, una sottoccupazione vastissima e il dilagare del lavoro nero, usato come panacea per il recupero di costi, produttività e concorrenzialità. 

Mentre Salvini ha convocato le sue truppe trinariciute a Milano per mostrare i muscoli del razzismo e della xenofobia nazional popolare e per stringere attorno ad una Lega nazionale tutto quanto puzza di egoismo proprietario e di paura del diverso, alla rincorsa di un modello politico preso a prestito dalla francese Marine Le Pen e dal britanico Nigel Farange, la rivista Migrantes ha pubblicato il suo rapporto annuale da cui emerge che in Italia, nel 2013, gli emigranti autoctoni hanno superato gli immigranti. 

Dal nostro Paese sono par­tite nel 2013 94 mila per­sone, cifra che risulta supe­riore ai flussi dei lavo­ra­tori stra­nieri immi­grati in Ita­lia: sono ogni anno circa la metà, e pre­ci­sa­mente sono stati 43 mila nel 2010. Il dato non tiene ovvia­mente conto degli arrivi di immi­grati irre­go­lari, che fareb­bero lie­vi­tare parec­chio lo stock di ingressi, alte­rando il rap­porto con le par­tenze, ma non tale da oscurare il signi­fi­ca­to politico sul piano simbolico. Secondo il rapporto i cit­ta­dini ita­liani resi­denti all’estero, sono, in tutto il mondo e cal­co­lati all’1 gen­naio 2014, 4.482.115 (i numeri ven­gono dall’Aire — Ana­grafe degli ita­liani resi­denti all’estero). L’aumento in valore asso­luto rispetto al 2013 è di quasi 141 mila iscri­zioni, il 3,1% nell’ultimo anno. La mag­gior parte delle iscri­zioni sono per espa­trio (2.379.977) e per nascita (1.747.409), va inoltre segnalato che solo una porzione molto ridotta, meno della metà, degli italiani che migrano si registrano ufficialmente all’anagrafe Aire, in specie coloro che non hanno fatto una scelta definitiva.

Il commissario Barroso, accomiatandosi dalla Commissione europea, ha affermato che l’Italia è sull’orlo del baratro, facendo infuriare il nostrano Gianburrasca, tanto più nel momento in cui la diagnosi veniva parzialmente confermata con la successiva lettera UE di monito attorno alla consistenza, pertinenza ed efficacia della Legge di Stabilità: non molto diversa dalla lettera di licenziamento indirizzata a suo tempo al vecchio Berlusconi. Ora il ministro Padoan ha estratto il coniglio dal cilindro della contabilità generale, facendo, quasi, quadrare gli indicatori richiesti dall’Europa della finanza e dei mercati per cui il ‘baratro’ politico del commissariamento è momentaneamente accantonato, così l’Europa comunitaria tira un sospiro di sollievo: se cade l’Italia si sfarina la Ue.

Rimane una crisi economica e sociale strutturale che morde larghissimi strati di popolazione, come ci segnalano gli indicatori macroeconomici, ma, soprattutto, che vediamo attorno a noi nella realtà quotidiana: i pensionati/nonni hanno prosciugati i libretti di risparmio postale [a milioni sono sotto l’indice di povertà, lo scrive la Caritas], i lavorator*/madri e padri smadonnano per il lavoro [reddito] che non c’è, i giovani/figlie e figli tirano avanti senza prospettive, piluccando gli ultimi risparmi dei nonni e si arrabattano col lavoro in nero.

In verità il lavoro nero dilaga in ogni fascia di età e sociale, così come sottace il centro studi della CGA di Meste: dove pensate siano finite le diverse centinaia di migliaia di artigiani, di partite iva, di piccole imprese scomparse in questi ultimi anni?!!

Sabato 25 ottobre la CGIL ha messo in campo una prova di forza, portando in piazza un milione di persone, per dire al Governo che lo scalpo dei lavoratori [il simbolico art.18 L.300/70] deve avere una contropartita sociale vera, contrattata se non concordata tra le parti sociali, dove il sindacato CGIL avrebbe la parte del leone. La risposta di Giamburrasca all’incontro con i Sindacati è stata bruciante e significativa: "il sindacato non fa trattative con il governo, che non chiede permesso", perché "le leggi non si scrivono con i sindacati ma in Parlamento". Un ossimoro concreto di ‘democrazia autoritaria’; fine della dialettica politica interna, la parola ai rapporti di forza, come ci raccontano le immagini degli operai di Terni, a Roma.

In questo devastato contesto sociale ed economico si va verso la data del 14 novembre, giornata di sciopero sociale generalizzato, concordata tra movimenti di lotta di una larga parte dell’Europa, una giornata individuata come la convergenza ideale e fattiva delle tensioni sociali che hanno attraversato nell’autunno e nella primavera scorsa i vari paesi europei, una giornata come espressione politica di un percorso conflittuale capace di ridisegnare le scelte politiche finanziarie dell’Europa del capitale finanziario internazionale, capace di porre con determinazione al centro del agire politico dei movimenti le tematiche del reddito, dei diritti, della dignità e della cittadinanza, di tutti e per tutti

Lo ha ricordato con voce ferma anche Bergolio, l’ultimo dei ‘comunisti’. Desideriamo quindi [siamo macchine desideranti!], collettivamente, rappresentare una sfida politica e sociale e un obiettivo che sono, sicuramente, ambiziosi e difficili, tanto più se consideriamo il contesto generale della fase che stiamo attraversando, ma che, altrettanto sicuramente, vanno alla profondità  delle contraddizioni sociali che si rappresentano nelle metropoli e nei territori europei e all’altezza delle potenzialità intrinseche alle dinamiche dei movimenti europei

Per sostanziare la potenza del radicamento, della complessità, della multitudinarietà dei movimenti in Italia e in Europa, è importante che la fantasia, la creatività, la proliferazione, la forza ed anche il disincanto delle lotte siano dispiegati per riempire questa giornata di iniziative sociali che alludano e pongano le basi per delle relazioni e delle pratiche sociali che possano costituire e costruire la suggestione politica che un’altra Europa è possibile, praticabile e fattibile.

*ph Melissa Cecchini - Sciopero Logistica #160 Cesena