Diario di un colpevole di essere sopravvissuto alle crisi (stralcio)

11 / 5 / 2020

Lo sfondo plumbeo delle giornate uggiose tra aprile e maggio mi hanno dato l’impressione di riavvolgere indietro il tempo, catapultandomi tra febbraio e marzo, nel periodo immediatamente precedente alle norme di contenimento del Covid-19. È una strana sensazione da vivere nel bel mezzo di un evento di portata epocale, che, nello scompigliare le dimensioni del “poi” e del “qui e ora”, opera una cesura netta con il “prima”. Com’è possibile essere trasportati all’ “ante-Covid” – a.C., seguendo la rinnovata calendarizzazione di una mia cara amica e coinquilina –, quando ciò che mi aspetta sta già drammaticamente mutando il mio orizzonte? Quando la capacità stessa di pianificare un futuro, a breve e medio termine, è stata ridimensionata, nella compressione di quelle opzioni prima percorribili? Sono i piani A, B, C a essere ripensati, aggiustati o, nel peggiore dei casi, a diventare carta straccia.

Non stupisce che la mente e il corpo riportino alla vita psichica del mio “io che fu” con il solo ausilio della rammemorazione delle percezioni passate stimolata dai colori del cielo, dal freddo e dall’umido degli scorsi giorni. A tratti, salgono alla mente i pensieri e la vita dei maggi passati: il passaggio tra aprile e maggio, almeno a queste latitudini, non è mai stato così autunnale come negli ultimi due anni, a monito dell’alterazione del clima causata dall’organizzazione della natura da parte delle società umane. Per quanto le condizioni di vita e la prospettiva di un cambiamento fossero pessime anche allora, potevano essere avvolte all’occorrenza da un manto di ottimismo dato in prestito – non troppo a lungo, mi raccomando! – da ipotetici colpi di fortuna o da un’eventuale trasformazione politica. Naturalmente, l’ottimismo non è una merce just in time che la massa può consumare indistintamente, ma è esso stesso un bene di lusso che, perlopiù, possono permettersi coloro i quali sanno di avere dei supporti materiali e affettivi non ancora del tutto crollati, sebbene già tentennanti e a rischio demolizione futura. Insomma, al netto della ruvidità del mondo a.C., il divenire non sembrava essere predestinato alla povertà simbolica e economica dell’oggi, lasciando intravvedere qualche spiraglio di miglioramento felice dell’esistenza.

Devo essere proprio messo male, se mi coglie una punta di nostalgia al pensiero dei mesi e degli anni precedenti. Non credo che sia ingenuità o rimozione strategica delle sofferenze e difficoltà del passato: più che un appiglio a un Eden mitico, l’associazione di idee e sensazioni di un’altra epoca, perché così va definito il “prima” della pandemia, con il presente disvela un desiderio di ritorno a quello stato in cui l’aspettativa non era così gravemente soffocata. Quale l’effetto di questo viaggio a ritroso? Oserei dire che è ambivalente.

Partiamo dal risvolto negativo. Contro i pronostici ottimisti, un groviglio di emozioni confonde malinconia, rassegnazione, ansia. L’avvio della famigerata “fase 2”, contornata da retoriche del ritorno al lavoro e del Paese che riparte, provoca una sorta di principio di depressione. Adesso che alcuni segmenti della società si rimetteranno in moto, ora che vediamo un parziale disgelo di questo tempo interrotto della quarantena, che posto mi ritaglio io? Come posso “ripartire”? Quali progetti rimangono validi, quali necessitano di una revisione? Quali hanno più probabilità di funzionare? La contemporaneità del passato ricordato, in cui i margini del possibile erano più larghi, e del futuro immediato, in cui si cambia di fase e si accenna una ripresa della cosiddetta normalità, crea un vuoto. Esso viene colmato dal malessere dovuto alla discrepanza tra l’orizzonte di aspettativa di prima e quello accartocciato di ora.

Questa riflessione esula dal dibattito sul come e quando della riapertura e sulla giustezza e opportunità delle misure di contenimento; non certo perché lo ritenga di minore importanza, ma perché vorrei dare risalto al sentire, mio e comune, di una generazione: quella delle e dei sopravvissuti alle crisi.

Noi delle false promesse dello “sviluppo”

La crisi economica è la nostra storia, almeno da quando le persone più o meno della mia età sono maggiorenni. Tra pochi anni, se gli stravolgimenti dell’attuale recessione dovessero protrarsi per molto, la nostra generazione avrà vissuto più in un periodo di crisi che non, a partire dall’ormai lontano 2007-8. La recessione, d’altronde, si trasforma presto in un’eterna stagnazione, con la denigrazione dei diritti del lavoro e l’abbassamento del suo costo, tra salario diretto e indiretto. Sappiamo bene che la crisi è sistema e che crea un circolo vizioso per cui il mantra del superamento del calo dei profitti giustifica una forsennata ristrutturazione a tutto tondo. Di qui la crisi del 2007-8 è diventata sociale, politica, ecologica: basta aggiungere allo smantellamento del welfare una manciata di Jobs Act, cuocere con la fiamma alta della devastazione ambientale e, con dosi diverse a seconda del gusto di chi cucina, mettere il tutto su una base di razzismo, sessismo, omofobia e classismo, giusto per far provare quel sapore di conservazione dei privilegi e delle gerarchie come ricetta alle crisi. A latere, ricordiamoci delle altre portate servite dall’inizio del nuovo millennio che hanno dato il via ad altrettante crisi: guerra al terrore, colonialismo e ritorno dei nazionalismi in Europa e non solo.

La nostra generazione ha vissuto per molto poco la stagione delle promesse del capitalismo, quelle per cui bastava lavorare molto per avere in cambio un salario decente, previdenza sociale e servizi pubblici; quelle per cui a una formazione di alto livello sarebbe corrisposto un posto – più probabilmente tra gli sfruttati – nella “società della conoscenza”, i cui perimetri erano stati abbozzati dall’espansione del terzo settore e dal salto di paradigma produttivo (il post-fordismo). I padroni, d’altronde, ci tenevano troppo al nostro capitale umano, la fonte del loro guadagno che, nell’accumulare esperienza e professionalità, diventava sempre più redditiva.

Come in molti e molte sapevano e avevano previsto, le promesse sono evaporate nei peggiori dei fumi senza arrosto. Abbiamo capito presto che avremmo dovuto pagarcelo noi questo capitale umano, a suon di tirocini, stage, master e gavette da apprendisti con contratti miserabili; e che avremmo sofferto precarietà e intermittenza in nome dello “sviluppo”. Il mercato del lavoro cambia, bisogna adattarsi a queste condizioni, altrimenti non ci sarà offerta di lavoro perché i datori non si sobbarcheranno i costi “aggiuntivi” della nostra manodopera: ecco le nuove regole del gioco. Stateci. La nostra generazione si è vista passare davanti agli occhi queste trasformazioni con una velocità impressionante, conservando solo un vago ricordo dell’immaginario con cui siamo cresciuti negli anni Novanta, ricco degli strascichi dell’entusiasmo “yuppie” e crescita a dismisura del benessere. Coloro che hanno fino a venti anni più di noi se lo sono visto sgretolare addosso dopo averlo interiorizzato per buona parte della loro giovinezza; coloro che hanno dieci o quindici anni meno di noi (la generazione della trap, per così dire) non lo hanno neanche conosciuto. Il loro immaginario musicale mainstream, non per niente, si colloca perfettamente in questo presente e obnubila il futuro, condensandosi attorno al primato e al successo personale nella società della prestazione. Ciononostante, chissà se per questi ultimi non sia più facile dotarsi di un immaginario futuro da zero, piuttosto che doverne sostituire uno vecchio malconcio lasciato in eredità a noi. L’attaccamento inconscio a ciò che è stato (o meglio, a ciò che non sarebbe mai stato) è infido per il cambiamento.

Sebbene tutto questo ci sia piovuto sopra, non posso fare a meno di percepire, ieri come oggi, un accenno di senso di colpa; e, come me, moltissime altre persone vissute nel declino del capitalismo post-fordista. Prima ci sentivamo in colpa per non aver avuto l’inventiva imprenditoriale del secolo, oppure per aver chiuso il nostro bar o piccolo ristorante su cui tanto avevamo investito. Ci sentivamo in colpa dopo essere stati scartati a un colloquio, perché sapevamo di poter dare di più; ma ci sentivamo in colpa anche per non essere stati selezionati per il colloquio, perché, evidentemente, non avevamo infoltito abbastanza il nostro curriculum. La colpa ci stringeva come una tenaglia quando non facevamo un concorso pubblico per mancanza di tempo o quando non riuscivamo a stare in pari con gli esami universitari. E, se proprio dobbiamo sondarci a fondo, colpevole è stata la scelta di non iscriversi a una facoltà scientifica dallo sbocco lavorativo sicuro. Per non parlare, poi, di chi ha lasciato un lavoro dipendente per diventare autonomo, incontrando innumerevoli difficoltà economiche. Oppure chi non ha accettato quel lavoro dipendente con un salario sicuro, ma in cambio di disciplina e vessazioni del proprio responsabile. E coloro i quali prestano manodopera al nero o al grigio? Se non sono beneficiari degli ammortizzatori sociali e non versano per la pensione, sarà colpa loro. Inoltre, non ti sentiresti in colpa, se fossi ancora dipendente in parte o del tutto dalla tua famiglia a trent’anni suonati? Certo che sì, non hanno mancato di puntualizzarcelo a colpi di “choosy” e “bamboccioni”. Mi fermo all’ambito lavorativo per perimetrare la riflessione, ma potrei spaziare dalle relazioni – non hai ancora relazioni stabili? Soprattutto per le donne: e i figli/e? – alla politica – tutto questo accade perché la nostra generazione non si sveglia, è viziata, ecc.

Colpevoli di essere una generazione

Adesso, la fustigazione si fa perversa. Con la chiusura delle attività produttive “non essenziali”, il difetto che prendeva piede dentro di noi si è intensificato. Fallimenti di piccole imprese – in particolare bar, ristoranti e locali – e paralisi totale del comparto spettacolo; concorsi rimandati o goffamente raffazzonati, senza alcuna informazione o certezza dello svolgimento; graduatorie per le supplenze nelle scuole chiuse; laboratori per l’infanzia e l’adolescenza e corsi di formazione sospesi. L’inferno della povertà di reddito per le partite iva, per chi aveva un contratto a tempo determinato e non rinnovato durante la pandemia, ma anche per chi si è ritrovato/a con il telelavoro e la chiusura delle scuole a eseguire contemporaneamente più mansioni (penso alle donne e a chi si occupa sia dell’ufficio che della cura della famiglia, in particolare in presenza di persone dipendenti con disabilità e sofferenza psichica). Senza dimenticarsi dei lavoratori e delle lavoratrici che, considerati essenziali, hanno continuato a prestare servizio in assenza dei più basilari dispositivi di protezione (personale sanitario, fattorini/e, farmacisti/e, dipendenti dei supermercati, agricoltori, logistica, ecc.). Non voglio dire che ognuno di questi esempi sia uguale all’altro, neppure che ogni persona abbia vissuto un senso di colpa nei confronti di se stessa o di altre rispetto alla propria condizione lavorativa. Ciò che metto a disposizione della discussione collettiva è uno dei tanti filtri del monologo interiore vissuto da me e da altri/e. Dato che il senso di colpa è una disposizione comune della mente umana nell’organizzazione della società e del mercato prima dell’irruzione del Covid-19, viene da domandarsi se esso non sia stato amplificato dall’emergenza pandemica nel momento in cui le condizioni lavorative e di vita sono peggiorate ulteriormente. Una voce si apposta al nostro orecchio e inizia a sussurrarci che, in fondo, la caduta in picchiata del nostro reddito è frutto anche delle scelte che abbiamo compiuto. Non abbiamo calcolato bene i rischi d’impresa, l’intermittenza del lavoro autonomo, gli svantaggi dell’inseguimento delle passioni. La pandemia non si poteva prevedere con esattezza, ma l’insicurezza del nostro lavoro stava sempre là, appostata dietro l’angolo e ben visibile.

Sarà difficile sbarazzarsi di questo senso di colpa. Chiariamoci: non penso che una persona non possa fare errori e che non vi siano responsabilità individuali. È però giusto dare a Cesare quel che è di Cesare: soppesare bene i piatti della bilancia, per capire da che lato il piattello si fa più pesante perché sovraccarico di ingiustizia. Qualsivoglia decisione abbiamo preso, dal momento che abbiamo pensato di farci del bene e di non danneggiare nessun altro, è stata giusta. Ingiusto, semmai, è il contesto che grava sopra di noi e che non dipende da noi. Quel contesto che genera crisi e acuisce le diseguaglianze, dopo averle coltivate per decenni; quel contesto in cui ti dicono che sei in debito e che non hai lavorato abbastanza a fronte del tempo di sfruttamento e di espropriazione delle risorse materiali e simboliche; quel contesto, chiamato capitalismo, che continua a discriminare tra chi ha diritti (previdenza sociale, accesso al welfare, case dignitose dove vivere e dispositivi tecnologici) e salario dignitoso, e chi non ne ha. Il fatto che ci sentiamo in difetto smaschera le storture del sistema, che, secondo il più classico dei meccanismi, scarica sul singolo individuo la colpa del suo fallimento strutturale.

Dalla colpa si esce a fatica perché, fin quando qualcuno/a dall’esterno non ci dirà che siamo perdonati/e, in potenza dovremo espiarla all’infinito, senza possibilità di modificare il nostro presente. Non è un caso che, in via implicita e esplicita, governi e mercati siano così attenti a ricordarci che tutto dipende da noi, dalla ripartenza al contenimento del contagio, passando per l’istituzione di fondi per il trasferimento di denaro a livello europeo. Non si mettono in discussione le infrastrutture, la carenza di personale e presidi territoriali ospedalieri, l’assenza di sussidi degni di questo nome che potrebbero posticipare le riaperture degli indotti produttivi “non essenziali” (per davvero), abbassando ulteriormente la curva del contagio; non si toccano le possibilità di speculazione sui debiti sovrani, perché se non abbiamo denaro per gli investimenti, alla fine, è dovuto alle nostre spese immorali e non lungimiranti. Così facendo, vengono oscurati i rapporti di potere (espropriazioni, neomercantilismo interno all’Europa, tutela dei grandi capitali) che hanno determinato nel tempo l’indebitamento per ingrassare le tasche dell’alta finanza. Allo stesso modo, il Governo italiano e alcune Regioni del nord, nella loro palese sudditanza a Confindustria (Lombardia) rispetto alla ripartenza, nascondono sotto al tappeto le loro insufficienze sul controllo del contagio, additando corridori, aperitivi sui Navigli e visite ai “non congiunti” come principali cause del rallentamento della diffusione del virus.

Nell’incubo del regresso, fare e farsi giustizia

Vivremo in una fase regressiva del capitalismo, a meno che conflitti sociali capillari non impongano misure espansive e non sovvertano gli attuali rapporti di produzione e riproduzione. L’acuirsi del sottosviluppo che ci portiamo dietro da anni, un qualcosa che soprattutto le donne e le persone razzializzate conoscono da quando andava di moda lo “sviluppo”, aggraverà la realtà del lavoro, approfondendo le diseguaglianze in base allo stato di (in)occupazione del/della singolo/a. Al contrario di un’altra illusione del capitalismo post-fordista, secondo la quale la centralità della produzione di conoscenza e informazione avrebbe reso omogenea la forza-lavoro sfruttata, le gerarchie tra tipologie di lavoro si faranno sempre più intense. C’è poco da sperare che il lavoro di riproduzione, mai essenziale come adesso, venga riconosciuto e rivalutato, dai servizi di pulizia e sanificazione fino alla cura delle persone dipendenti. Credo che altre occupazioni avranno più fortuna: l’innovazione tecnologica e il lavoro da remoto saranno la scusa per abbattere il salario (meno spese per i trasporti, ecc.) e aumentare il numero di ore gratuite di esecuzione delle mansioni (reperibilità costante, lavoro nei finesettimana). Se seguiremo lo stesso tragitto della fase successiva alla crisi del 2007-8, è molto probabile che i posti di lavoro saranno precari, poco qualificati, dunque poco remunerati, schiavi degli algoritmi portati dall’automazione e dall’industria 4.0 in tutta la loro dittatura dei tempi e dell’organizzazione delle mansioni – altro che accelerazione! Il lavoro delle e dei migranti, in tutto questo, resterà svalutato, lasciando i prestatori di manodopera alla mercé dei datori di lavoro, come purtroppo spesso accade in quelle piantagioni simil-schiavistiche che ancora ci premuriamo di chiamare campi. Gli autonomi e le autonome, in particolare chi lavora nel comparto spettacolo e cultura, verranno lasciati a loro stessi nella speranza che i vari “contributi” temporanei di Gualtieri reggano. I e le precarie della conoscenza si ritroveranno a accumulare formazione e esperienze professionali a basso salario, spesso svolgendo più occupazioni contemporaneamente, per conquistare quel margine in più necessario per un’assunzione temporanea o per la vincita di uno dei pochi concorsi banditi. Da ultimo, la disoccupazione: nella fase 3 dobbiamo aspettarci licenziamenti e mancati rinnovi dei contratti (che peraltro stanno già accadendo), per una stima di mezzo milione di disoccupati/e in più e un crollo del PIL tra il 9 e il 10% per tutto il 2020. Il lavoro nero continuerà a espandersi, condannando ad una ancora più efferata precarietà uomini e donne (come i/le sex workers).

La linea di tendenza del capitale, in sintesi, potrebbe andare nella direzione del consumo fino all’osso della forza-lavoro, riducendone i costi per i padroni e per lo Stato. Sarebbe una sorta di rinuncia, nei confronti della maggioranza della forza-lavoro, alla rigenerazione e al continuo investimento per mezzo del welfare sul capitale umano del singolo, al quale si richiederanno meno competenze e sarà più facile farne a meno (“far vivere e lasciar morire”).

Ecco, questo incubo che si prospetta davanti a noi non è un destino. Ma per fare in modo che non lo sia, abbiamo bisogno di scartavetrare dalla nostra coscienza qualsiasi rimasuglio della colpa nel momento in cui ci ritroveremo in un rapporto di lavoro descritto sopra. Per riuscirci, dovremo accettare che nulla sarà come prima: più che sentirci in colpa per non aver raggiunto una determinata posizione in questo ordine del mondo opprimente, dovremo stravolgere la nostra aspettativa sul futuro. Finché limiteremo il nostro orizzonte alla gamma di possibilità offerte dal presente del capitalismo, la colpa farà capolino dentro di noi, pronta ad attaccare di fronte a un nostro “fallimento”. Non è semplice, non esistono soluzioni tirate fuori dal cappello e, sicuramente, per restare a galla saremo costretti a scendere a compressi. Mi permetto di dire, tuttavia, che possiamo iniziare da due linee guida: rivendicare reddito di base incondizionato e welfare universale, per avere un supporto materiale stabile, e nuovi diritti sul lavoro; istituire comunità di cura reciproca nelle quali elaborare i pensieri e le sensazioni che ci soffocano, opprimono, fanno sentire sbagliati/e e soli/e, per rigenerarci e dotarci di strumenti con cui leggere noi stessi/e e gli/le altri/e.

Qui sta il lato positivo della rammemorazione: riconoscere, attraverso il ricordo, che la nostalgia per l’orizzonte di aspettativa che avevamo nel passato ci impedisce di guardare oltre tenendo in considerazione il salto di epoca avvenuto nelle ultime settimane con il Covid-19. Contrariamente al discorso politico inscenato da governi e mercati, che parlano di un ritorno alla normalità, abbiamo bisogno di lasciarci alle spalle il ventaglio del possibile a cui eravamo e siamo ancora affezionati. Esso non va restaurato, bensì rinnovato completamente, arricchendolo di possibilità che, sebbene non esistano ancora, ci consentano di mobilitarci per renderle concrete. Perché sappiamo che in questo mondo pandemico non saremo mai felici. Per non sentirsi più in colpa, è necessario smettere di aderire internamente all’ordine delle cose in cui ci è dato vivere. Questa è la prima forma di giustizia verso sé e gli/le altri/e da cui partire per iniziare a costruire il nostro avvenire.