Pubblichiamo, tratto da Melting Pot, un nuovo report di Tommaso Gandini, attivista di Overthefortress imbarcatosi sulla nave Iuventa, impegnata in operazioni SAR nel Mar Mediterraneo.
E’ pomeriggio inoltrato, il sole alto sopra le nostre teste senza nuvole a coprirlo. Solamente un forte vento verso Sud impedisce ai barconi di lasciare la Libia, ma questo non impedisce a noi di fare esercitazioni in mare. Gli scorsi giorni delle forti onde ci avevano bloccato, mentre oggi il mare è piatto e calmo. Scambiamo delle comunicazioni radio con la Golfo Azzurro, la nave di Proactiva Open Arms, e ci accordiamo per eseguire delle esercitazioni insieme. La nave è poche miglia più a sud di noi, e ci diamo appuntamento alla nostra posizione. Ma questo incontro non avverrà mai.
Incontri ravvicinati
Poco dopo scorgiamo un minuscolo punto all’orizzonte. Si rivela una motovedetta della Guardia Costiera libica, o meglio di una delle guardie costiere libiche, che si dirige verso di noi a tutta velocità. Abbiamo appena il tempo di avvertire l’equipaggio e di riunirci tutti sul ponte, come da procedura, che l’imbarcazione ci appare a qualche decina di metri di distanza. Una nave grigia e palesemente equipaggiata a scopo militare. Due armi di grosso calibro son ben visibili a prua e a poppa, la maggior parte del personale indossa delle mimetiche e per lo più impugna dei fucili. Ci girano intorno una prima volta con le armi puntate verso di noi, ma presto si accorgono che non siamo per nulla pericolosi e decidono di abbassarle. Notiamo quindi che due di loro non indossano mimetiche ma una semplice t-shirt blu e che ci stanno filmando con quella che appare una videocamera professionale. Difficile dire se sono giornalisti libici, agenti di Frontex o di chissà quale altra organizzazione.
A questo punto si mettono in contatto radio con noi, cominciando a fare domande ritenute dai nostri comandanti abbastanza assurde. Ci chiedono la nostra posizione, nonostante fossimo a pochi metri da loro. Vogliono sapere se abbiamo dei migranti a bordo, nonostante dovrebbero sapere meglio di noi che sono giorni che nessuno lascia le coste libiche per via delle condizioni meteorologiche.
«L’impressione è che stiano seguendo un protocollo con delle domande prestabilite. E’ difficile immaginare cosa sarebbe successo se avessimo avuto migranti a bordo. Eseguono ancora un paio di giri intorno alla nostra nave e poi si allontanano in direzione della Golfo Azzurro, per eseguire la stessa manovra».
Mentre se ne
vanno ci ordinano di allontanarci dalla costa, e noi decidiamo di obbedire. «Non hanno nessuna giurisdizione qui, fra le
12 e le 24 miglia marine dalla costa» - spiega Pia, il capitano della nave
- «ma hanno delle armi, e questo per il
momento basta a convincerci».
«E’ stato un incontro abbastanza
particolare», commenta Katherine, il comandante della missione, che
aggiunge: "non solo hanno comunicato
via radio, cosa che non mi era mai capitata prima, ma lo hanno fatto anche con
un buon inglese e con tanto di thank you alla fine di ogni comunicazione».
Nuove esercitazioni
Decidiamo di lasciare le 24
miglia marine, la zona dove è possibile eseguire le Search and
Rescue Operation (SAR zone),
prima di cominciare le esercitazioni ed evitare altri incontri spiacevoli
mentre alcuni di noi sono in mare. Poco dopo una decina dei membri della
Iuventa salgono su un gommone gonfiabile e vengono spinti lontano dalla nave.
Solitamente questo gommone viene utilizzato per soccorrere le imbarcazioni in
difficoltà e che stanno affondando troppo in fretta per essere raggiunti dalla
nave principale. Per portare il primissimo soccorso il gommone è un mezzo
rapido e così si guadagna un po’ di tempo. Oggi, invece, è servito per simulare
un eventuale salvataggio.
In questi casi non solo la tecnica e l’esperienza fanno la differenza, ma anche
una notevole dose di sangue freddo. E’ successo, infatti, che quando il RIB,
l’avanguardia della Iuventa, si è avvicinato ad un gommone per distribuire i
giubbotti salvagente alle persone, qualcuno salti in acqua per tentare di
mettersi subito in salvo cercando di salire sopra di esso.
In situazioni di questo genere, l’istinto primario indurrebbe a portare il
naufrago al sicuro, a bordo della scialuppa e fuori dall’acqua. Ma questo
sarebbe un grossissimo errore. Questa "buona" azione spingerebbe
altre persone in preda al panico a saltare in acqua, causando persino il
ribaltamento del gommone.
La procedura in questo caso prevede di allontanarsi molto velocemente
dall’imbarcazione e di lanciare un giubbotto di salvataggio a chi è caduto in
acqua, ordinandogli di tornare sul barcone. Solamente dopo si può continuare la
distribuzione degli altri giubbotti, e solo terminata questa operazione si
getta una corda ai migranti, che saranno trascinati fino alla Iuventa per
essere presi a bordo. Le manovre sono difficili e molto delicate, la situazione
non è mai uguale e l’imprevedibilità è messa in conto. Per questo i lati della
Iuventa sono letteralmente pieni di vari tipi di galleggianti. Nel caso di
operazioni difficili o di salvataggi multipli è persino possibile che si debba
chiedere alle persone di restare in acqua attaccati ad uno di questi salvagenti
finché qualcuno non sia di nuovo disponibile a soccorrerli.
«Potremmo essere costretti ad allontanarci dalla zona SAR con delle persone ancora in acqua», ci tiene a precisare Katherine. Mentre lo dice gli occhi le diventano lucidi e la voce leggermente spezzata, almeno non energica e sicura come al solito. "La Iuventa ha una capacità limitata, e qualora dovessimo temere per noi stessi, oppure a causa dell’arrivo del maltempo, potremmo non essere più in grado di continuare le operazioni. Ma vogliamo che sappiate che né io né Pia prenderemo mai una decisione del genere a cuor leggero, e che prima di questa avremo valutato ogni altra opzione".
Una ciurma cosmopolita
Questi giorni sono stati utili
non solo per esercitazioni pratiche, ma anche per conoscersi meglio. Quando
cominceranno le operazioni ognuno di noi dovrà potersi fidare ciecamente
dell’altro.
Io stesso ad un certo punto, poco dopo aver lasciato Malta, mi sono fatto
coraggio e mi sono rivolto al responsabile del ponte, colui che coordina le
operazioni a bordo della nave.
Gli dissi che nel caso avesse bisogno mi rendevo disponibile nell’aiutarlo a
calmare e confortare i migranti a bordo, se necessario. Non mi sentivo
particolarmente preparato, ma era l’unica cosa in cui mi immaginavo di poter
essere utile. Naturalmente mi sbagliavo. «Ah,
grazie Tommaso», mi rispose lui un po’ sorpreso, «ma in realtà
io ti considero un membro dell’equipaggio a tutti gli effetti, e ti chiederò di
parlare con i migranti tanto quanto di reggere una fune o di portare le persone
a bordo se necessario».
Nonostante i miei sforzi credo
abbia notato quanto fossi rimasto spiazzato, ma questo non gli ha fatto
minimamente cambiare idea. «Devi sapere che nelle condizioni ottimali
saremo 9 persone sul ponte, di cui 3 medici e 2 ingegneri. Qualora gli altri
fossero impegnati altrove, saremmo solo io, te e Mike (il responsabile in
seconda del ponte) a doverci occupare di tutto quello che accade qui».
Per fortuna sono il solo sulla nave a sentirsi così poco preparato, tutti gli
altri hanno il loro ruolo e si sono esercitati a fondo. Stare sulla Iuventa provoca una sensazione
che unisce in modo particolare e profondo, nonostante le provenienze siano
le più disparate. Ci sono, ad esempio, Mike e Teun, entrambi olandesi che per un pomeriggio
intero hanno discusso della storia delle occupazioni e dei movimenti di squatters ad
Amsterdam con continui paragoni con il resto dell’Europa. Ma anche Niklas, un ragazzo tedesco di appena 22 anni che
lavora sulle navi mercantili e che qui ha il ruolo di ufficiale in seconda, che
non ha paura di ammettere di non essere mai stato davvero politicamente
coinvolto. "Sai io sono un po’ di sinistra, ma in realtà ho un lavoro
davvero capitalista, un mio appartamento e un’automobile. Sono qui perché credo
nelle leggi del mare e perché se mi trovassi in difficoltà vorrei essere
soccorso". Così come c’è Jannis da Atene, con un brevetto da bagnino e una
lunga esperienza a Lesbo nel soccorrere i migranti nell’Egeo, che fa sempre
sorridere tutti con il suo linguaggio decisamente scurrile. E c’è anche Bill, un ragazzo originario del
Texas molto abile nel raccontare storie e che arriva dall’India dove ha
condotto una ricerca sugli estremisti indù.
Questi sono solo alcuni membri di una ciurma che in questo momento si riposa,
sapendo che in qualsiasi momento potrebbe essere svegliata da un allarme e
pronta ad agire.
Il tempo
dell’attesa si può interrompere bruscamente. Sono diversi giorni che non ci sono partenze
dalle coste libiche, ma se il vento dovesse soffiare nella direzione opposta,
come segnalato dalle previsioni meteo, saremmo tutti stupiti se non trovassimo
migranti in difficoltà. Durante la notte ci teniamo fuori dalla zona SAR per
non incappare nella Guardia Costiera libica e non rischiare collisioni con
delle imbarcazioni di migranti, passate inosservate per la mancanza di
luci.
Ma ogni giorno alle 4 di mattina, e così sarà domani, ritorneremo nella zona
dei salvataggi pronti ad avvistare navi oppure a ricevere chiamate dal MRCC di
Roma (Comando Generale del Corpo delle Capitanerie di Porto) che ha il dovere
di segnalare i barconi in difficoltà. Saremo pronti? Saremo efficienti?
Probabilmente in questo momento della missione tutti se lo stanno chiedendo. La
realtà è che faremo del nostro meglio e non possiamo fare altro che sperare che
questo sia abbastanza.
Sappiamo che
l’Unione Europea e l’Italia hanno già espresso un verdetto sui migranti,
condannandoli a morte nella speranza che fungano da deterrente per altri che
vogliono partire. I cadaveri
raccolti negli ultimi giorni dalla ONG spagnola ci dicono chiaramente che
la strage
continua e che il codice
di condotta imposto alle navi umanitarie non farà altro che peggiorare la
situazione, dopo che si sono costruite le condizioni politiche con mesi di
fango ed infamia.
Oggi, come
non mai, salvare vite in mare, oltre ad essere un dovere etico ed umanitario, è
un chiaro atto politico.