Durante l'ultimo secolo di storia, nella definizione delle forme di vita associata, la parola-concetto “democrazia” è sempre stata affiancata da un'ulteriore specificazione. Liberale, neoliberale, rappresentativa sono stati gli attributi delle forme democratiche negli ultimi sessant'anni, almeno in quella fetta di mondo che ha goduto della maggior parte delle attenzioni analitiche e mediatiche. Diretta, reale, partecipata, sono state invece le forme futuribili auspicate da chi ha avvertito, in questi medesimi decenni, l'esigenza di una trasformazione del modo di esercizio del «potere del popolo».
Oggi in molti parlano di "democrazia dei beni comuni". Lo fa pure chi da dentro le istituzioni pubbliche ammette, sia in buona che in populistica fede, la fine nel regime democratico di quello che è stato fino agli anno Ottanta il potenziale coesivo e del baluardo dello spirito statuale e di quello dei feticci privatistici della proprietà individuale nonché dello scambio deregolamentato. Tuttavia, solo nei movimenti in difesa dei beni comuni compreso quello intorno al referendum sull’acqua, si possono riconoscere gli sforzi determinanti per l’affermazione dei commons come tema intorno a cui sviluppare una nuova idea di società. Una lunga stagione di mobilitazione (tra il 2005 ed il 2011) segnata da migliaia di attivisti, ricercatori sociali, semplici cittadini che hanno alimentato conflitti contro il modello di sviluppo vigente, dando luogo alla nascita di tante comunità resistenti in tutto il paese e trovando nell’esercizio del diritto alla disobbedienza un elemento fondativo.
Di qui si pone forte l'urgenza di stigmatizzare l'abuso odierno della categoria di beni comuni, prima di formulare qualsiasi prospettiva su nuove forme democratiche che possano partire dalla forza costituente di una sua maggiore valorizzazione nell'organizzazione dei rapporti sociali.
Di fatti assistiamo ad un'inflazione concettuale per cui tutto sembra diventato un bene comune. Lo ascoltiamo anche dalle dichiarazioni che giungono da parti diverse del mondo politico, associazionistico, sindacale, persino imprenditoriale: è diventato un leitmotiv che dalle parole del segretario del Partito democratico, lo stesso che sponsorizza poi la TAV (!), arriva fino a quelle degli amministratori degli enti locali più vicini alle istanze dei movimenti ma che – loro malgrado – stanno contribuendo comunque alla confusione sulla definizione di commons con un abuso di riferimenti agli stessi. Il discorso improprio sui beni comuni nel contempo non risparmia neppure i circuiti politici di movimento. Per questo è fondamentale aprire a vari livelli un dibattito foriero di critica ed autocritica. Bisogna discernere, specificare, chiarirsi.
Beni comuni e Bene Comune: il peso di una differenza
In primis, c'è da palesare una netta distanza tra il common,
singolare di una fascia più larga di commons, beni comuni, e il Bene
Comune inteso in una maniera assoluta e totalizzante che lo stacca dalla
concretezza materiale ed immateriale delle risorse. Un'idea cattolica e
precisamente tomistica (molto diffusa tra l'associazionismo cristiano
per esempio) di “bene” che prefigura una società dove, piuttosto che
alla forza costituente della difesa e della produzione perpetue –
talvolta anche conflittuali – dei commons, si fa allusione ad un Bene
Comune inteso come astrattamente riconciliante, bene di tutti
all’insegna di un’ideologia teologizzata della fraternità. In letture di
questo tipo, l'assenza di conflitti viene augurata come condizione
ottimale.
Il bene di tutti in casi come questo rischia però di diventare il bene di nessuno. I commons e
una democrazia che si costituisca a partire da essi, nulla c’entrano
con una concezione che cerca di semplificare le contraddizioni sociali
in un'utopica armonia di pacificazione.
Beni comuni e diritti
In evidente continuità col
punto precedente, c'è da scongiurare un'ulteriore deleteria
identificazione, quest'altra legata a tutte le culture politiche che
siano cattoliche o di sinistra (anche movimentiste) ma che portano
comunque dentro le impronte di una logica politica rigorosamente
binaria. Una tale identificazione si dà quando non si riesce a
distinguere tra i beni comuni, materiali o immateriali che siano, e i
diritti sociali. Si tratta di una semplificante omogeneizzazione tra due
domini concettual-politici che si rivela dannosa per entrambi. Per
questo andrebbero distinti bene gli ambiti pur senza separarli e negare
il loro effettivo intreccio.
I beni comuni sono materiali ed immateriali, naturali ed artificiali. Essi riguardano l’ambiente, la salute, le risorse primarie, i suoli. Tuttavia essi comprendono anche la «produzione sociale di valori d'uso», quella che nasce dalla libera cooperazione, come nel caso del sapere o dell'arte, e non è mercificabile pena la modificazione coatta del suo statuto. Di fatti esistono mercati per le conoscenze, per la cultura e per l'arte ma ne modificano percezione e modalità d'uso rispetto ai saperi e alle forme espressive che restano sociali e socializzate. In un'ultima ma non meno importante analisi, i beni comuni non sono negoziabili. Se c'è un attentato al loro esserci come risorse collettive, bisogna difenderli senza compromesso. I beni comuni devono essere sottratti dalla normativa pubblica così come allo sciacallaggio privato. La produzione di norma in tal senso non può prescindere dalla natura stessa della difesa dei commons che diviene a sua volta processo costituente.
I diritti invece non possono che essere il frutto di un patto, peraltro storicamente negoziabile e combattuto, per quanto ineliminabile. I diritti nascono dalla dicotomia (seppur non irriducibile) tra il valore negativo della legge e quello pro-positivo della spinta istituente delle popolazioni (cfr: Deleuze 1955, ed. it. 2002).
Per concretizzare il discorso in esempi molto pratici: se risorse
primarie naturali, il sapere, l'arte, le altre produzioni sociali, i
suoli, sono riconoscibili come commons; l'abitare, il lavoro, il reddito
sono diritti sociali, essi sono "sacrosanti" ma restano diritti, non
hanno lo statuto per essere beni comuni e non ha senso politico che lo
acquisiscano.
Altra cosa è invece prospettare l'estensione del tipo
di lotte che si sono fatte per la difesa dei beni comuni e delle
modalità di governo che si stanno costruendo dal basso per essi, anche a
ciò che deve essere garantito dai diritti conquistati, sottraendone la
"competenza" sia alla sfera pubblica che alla privatizzazione
incalzante: così – per guardarla da una prospettiva molto concreta –
assume senso programmare la riscrittura nella forma di enti speciali
pure per quelle che oggi sono le aziende municipalizzate che
garantiscono servizi fondamentali come il trasporto locale e
l'assistenza alla persona.
Il comune
Peraltro, è fondamentale evitare abusi
concettuali e pratici rispetto ai commons, anche rivendicando proprio
la loro dimensione caratterizzante. I beni comuni, oltre ad essere
"beni", risorse materiali ed immateriali ma sempre tangibili
(contrariamente al Bene assoluto di cui sopra), sono per l'appunto
"comuni".
Il comune non può essere certo esemplificato come ciò che è condiviso. Non può neppure rimanere assolutamente imbrigliato nel pubblico come se fosse una sua rilettura postmoderna. Tuttavia non può neanche essere liquidato in chiave prettamente antagonistica come ciò che "non-è" pubblico o privato ed esiste in quanto vi si oppone, perché non può essere legato al momento della mera negazione, della contrapposizione. Nel campo dello Stato come entità omogenea staccata dalle singolarità reali, la dimensione del comune esprime sicuramente meno peso politico rispetto a quelle del pubblico e del privato. Tuttavia nei processi reali la dimensione del comune resta l'unico spazio del politico dove sbocciano quelle forme istituzionali informali che più rispecchiano la base sociale. Per questo il comune, oltre ad essere fondato sugli elementi della collettività e della condivisione, va definito per il suo radicamento e quindi per la sua territorialità, dove per territori non si intendono solo luoghi geografici ma tutti gli ambiti in cui si fa rete tra persone interagendo nel contempo con un ambiente. La ri-territorializzazione dei beni comuni risulta essere indispensabile per la loro definizione completa oltre il pubblico.
Necessità di autogoverno
A questo punto emerge
prepotente il tema della modalità di organizzazione dell'uso dei beni
comuni nelle trame complicate della società odierna.
Prima di tutto
c'è da ammettere che in una società complessa come quella attuale, è
quasi impossibile un accesso ai beni comuni senza un’organizzazione,
seppur sempre comune e conseguentemente ri-territorializzata, che
ammortizzi lo squilibrio dei rapporti di forza tra componenti sociali.
In
secondo luogo c'è poi da chiarirsi ulteriormente su una questione
terminologica ma che, come spesso accade sul piano politico, diventa
sostanziale. Come ci spiega in maniera chiara Ugo Mattei, è necessario
sicuramente chiamare questa organizzazione «governo dei beni comuni» ed
evitare di parlare di «gestione» (Mattei 2011). L’idea di gestione
infatti appartiene a quelle dimensioni di pubblico e privato, da
scalzare a favore di un nuovo commonwealth. Il pubblico,
fondato su una delega alle istituzioni governative tramite i meccanismi
più classici di una democrazia della rappresentanza, tende a
de-territorializzare e a centralizzare, oltre che a perdesi nella
macchina partito/buro-cratica con tutti i suoi "vizi" di forma
(corruzione, sprechi, clientelismi etc...). Il privato, fondato
sull’estrazione di valore per il profitto di pochi, si appropria anche
dei beni comuni come fa con la forza lavoro. E' evidente quindi che
l'unica prospettiva coerente con lo statuto dei commons è quella dell'autogoverno delle comunità nella loro tensione più lungimirante di “fare-società”.
Ovviamente non si può ridurre questo principio ad inapplicabili forme anarcoidi ma bisogna porsi il problema di animare la ricerca di alternative per nuove forme di istituzioni che prescindano dal duopolio pubblico-privato e da quelle della politica della rappresentanza istituzionale. Ricercare deve significare uno sforzo di elaborazione critica dal punto di vista cognitivo ma sapendo indagare direttamente la realtà sociale. Spesso nella vita quotidiana delle reti informali tra donne e uomini, vengono sperimentate spontaneamente economie altre rispetto a quella del grande mercato neocapitalistico, politiche virtuose rispetto a quelle pubbliche, relazioni solidali irraggiungibili per ogni pensiero della riconciliazione. Ed è lì che maturano le nuove istituzioni del comune per un'altra democrazia.
Istituzioni pubbliche/Istituzioni del “comune”: una dicotomia ?
Giunti
a quanto scritto fino a poco sopra, andrebbe problematizzato però anche
il rapporto tra i laboratori per istituzioni del “comune” che
proliferano nei tessuti territoriali e le espressioni politiche che si
stagliano su un terreno che resta “pubblico”. Pure se non è sufficiente è
sicuramente utile che da dentro le istituzioni pubbliche, soprattutto
sul livello amministrativo locale, si lavori per interpretare l'anelito a
nuove forme istituzionali diffuso nella società e per costruire
nell'immediato canali di apertura verso la spinta politica che viene da
quel 99% di donne ed uomini che compongono il paese reale a dispetto di
quell' 1% che coatta-mente lo domina. Tuttavia l'efficacia dipende pure
dal modo in cui questi canali si aprono. Se un'amministrazione o parte
di essa oppure un pezzo di rappresentanza, vogliono davvero lavorare
oggi dentro le istituzioni pubbliche per aprire spiragli di
trasformazione di queste stesse in nuove forme che si avvicinino a
quelle del comune, è necessario che il tutto non si limiti a forme
consultive ma sappia accogliere soprattutto la "presa di parola" che
avviene anche tramite forme tumultuarie. La sperimentazione di nuove
orizzonti per un “governo comune dei beni comuni” deve cominciare, pure
per chi la pensa da dentro le istituzioni pubbliche, dalla
valorizzazione delle iniziative in loro difesa intraprese dalle
soggettività costrette alla subalternità nei rapporti di forza sociali
ma che hanno palesato negli anni un protagonismo determinante nel
fronteggiare gli attacchi alle risorse collettive. L'istituzione
pubblica che vuole aprirsi alla società per la sua trasformazione, deve
necessariamente provocarsi una ferita nel suo corpo attuale per
determinare un'emorragia di sovranità, sovranità da cedere alle
moltitudini di donne ed uomini che vivendo i territori geografici e
sociali li animano fattivamente. Oggi più che mai il fallimento
definitivo della democrazia della rappresentanza ad ispirazione
neoliberale, giustifica politicamente una scelta di questo tipo pure
dentro l'istituzionalità pubblica.
E' così che si rinnova il senso di un discorso movimentistico che prevede un confronto/scontro con la politica che vive dentro il pubblico e che si allarga persino a concepire l'attraversamento del nesso amministrativo da parte di rappresentanze espresse dai movimenti, a condizione che questi animino davvero la singola/il singolo o i/le più che vengono eletti e soprattutto che non si consideri lo strumento elettivo come esaustivo.
Il tumulto costituente
La decisiva spinta
costituente non può che venire dalla capacità delle medesime moltitudini
di farsi movimento permanente, muovendosi continuamente tra il campo
della micropolitica (quello delle riappropriazioni, delle
ri-costituzioni, degli esodi e delle sottrazioni in genere) e quello
delle grandi mobilitazioni, ma imponendo protagonismo senza ridursi mai a
mero antagonismo, facendosi costituente nel conflitto e nella proposta
di alternative. La responsabilità di chi si mette in movimento per il
cambiamento è appunto quella di essere costituente sempre. Questo non
significa solo evitare l'anti-istituzionalismo a favore di un
alter-istituzionalismo (premessa comunque necessaria), ma di stare
dentro il tempo e gli spazi, assumendosi le contraddizioni come
materiale fondante e fondamentale pure dell'avvenire che si vuole
determinare autonomamente dal basso. Si tratta banalmente di sporcarsi
le mani per costruire. Servono architetti che sappiano essere nel
contempo anche muratori disposti ad imbrattarsi mentre si progetta, non
servono più architetti laccati del pensiero rivoluzionario (!).
Se
guardiamo alla lotta per l’acqua di Cochabamba, se guardiamo a quello
che è avvenuto in Argentina a seguito della crisi del 2001 tra le
fabbriche a bajo control obrero fino agli esempi di mercati
paralleli, se guardiamo alle lotte territoriali italiane – dalla Val di
Susa a Chiaiano e Terzigno, passando per il Dal Molin, lotte che hanno
tutte sperimentato la modalità del presidio permanente praticando i
primi occupy in tempi poco sospetti – guardiamo ad una fenomenologia
che, dalla sua dimensione alternativa rispetto al pubblico, trae proprio
la matrice essenziale, così come nell’esercizio di costruzione di
comunità resistenti dentro il conflitto sociale, il suo modo principale
di manifestarsi. In queste esperienze di difesa e proposta rispetto al
dominio dei beni comuni, si ritrovano gli esperimenti più interessanti
di modelli per nuove istituzioni. I meccanismi mutualistici e
cooperativi che caratterizzano i comitati territoriali e le nuove forme
reticolari di ricomposizione tra le figure contemporanee di lavoratori,
sono sicuramente i primi elementi da valorizzare come costitutivi di
nuove maglie istituzionali del comune.
Alla luce di una stagione
oramai decennale di movimenti per i beni comuni, esiste ora la necessità
di forzare l’orizzonte. Una necessità che nasce innanzitutto
dall'evidente impossibilità di poter racchiudere nell'attuale diritto
costituzionale il portato di una fase ri-costituente che, ancora oggi, è
estremamente viva come ci racconta la Valle di Susa.
* Centro Studi Alternativa Comune
Pubblicato in Micromega 30 marzo 2012 all'interno di uno spazio dedicato alla discussione sul concetto di difesa dei beni comuni.