Dentro il #fiumeinpiena, verso il mare aperto

20 / 11 / 2013

Il fiumeinpiena travolge Napoli. Bagnato da quella pioggia che non ha saputo fermarlo, sferzato dal vento,  sconvolto dalla sua stessa grandezza.
Il fiume dei 150.000 davanti al quale ogni tentativo di normalizzazione diventa imbarazzante:  quello tentato dalla stampa, che gioca al ribasso anche sui numeri della questura, quello tentato dalle istituzioni (con Caldoro che dopo il corteo annuncia nientedimeno che essere parte del fiumeinpiena!).
Allo stesso modo, viene sbaragliato qualunque tentativo di posizionamento tattico.
Perché un fiume in piena non è una cosa che si governa, non è una cosa in cui si può confluire rimanendo ben distinti, è poco interessato alle istituzioni, agli equilibri, alle provenienze politiche.
Un fiume in piena ti lancia la sfida: quella della corrente, quella del divenire, quella del precipitare e del mescolarsi di ogni linguaggio, di ogni pratica, verso il mare aperto della sperimentazione politica.

Fiumeinpiena è eccedenza. È superamento di ogni percorso, è quel sovrappiù che scompagina ogni identità, la cui forza non è quella di coordinare in una piattaforma le diverse provenienze, ma invece quella di mandarle all’aria tutte. La cui forza non è “rispettare tutte le specificità”, ma anzi di non rispettarne proprio nessuna, di non riconoscere autorità e di far collidere tutto con tutto, irrispettosamente.
Perché i 150.000 non vengono fuori da nessuna addizione: non vengono fuori sommando gli attivisti dei comitati, delle parrocchie, delle scuole, dei centri sociali. Vengono fuori  perché il fiume in piena è quel nome comune che ha spossessato queste provenienze, le ha fatte traboccare da ogni lato, imponendogli una pratica d’ascolto e di relazione, complessa ed efficace. Un passo indietro delle strutture perché il movimento potesse farne uno avanti. Un passo indietro dei blocchi, perché avessero cittadinanza quelli che non si riconoscono in nessuno di essi. Les structures ne descendent pas dans la rue, si diceva. E cioè: dalla combinatoria di elementi invarianti non viene mai fuori niente d’interessante, ed invece il nuovo, la trasformazione dell’esistente, vengono fuori dalla variazione di quelle identità, dal loro vacillare.

Fiumeinpiena è moltitudine. Ossia quel soggetto sempre in atto, creatura meticcia che s’ingrossa dentro i processi di coalizione di tutte le forme di subalternità, muta che invade il centro a partire dai bordi, dalle periferie, dai ghetti di questo sud fatto di poveri e di sfruttati, dalle province avvelenate: l’unico soggetto adeguato ad abitare la congiuntura, a torcere la necessità dei casi nella virtù dei molti. Soggetto che parla la lingua della rivoluzione, poiché – e lo diceva bene il documento introduttivo dell’assemblea di piazza Plebiscito – “devastazione ambientale e deprivazione sociale sono un cane che si morde la coda”. E cioè: non esiste lotta ambientale che non si ponga il problema del modello di sviluppo e della difesa dei commons dall’esproprio capitalistico, così come non può esserci lotta di classe che non si interroghi sul cosa si produce, sulla sostenibilità di quella produzione per i territori in cui essa è situata e sulle alternative a quel modello di sviluppo.

Fiume in piena è desiderio. Capacità di interrogare la propria potenza nella pratica, lasciandosi stupire, lasciandosi sorprendere dall’intensità di quello che si può essere, dalla sua capacità di prendere forma, di prendersi spazio, di agitarsi su ogni territorio e di riversarsi nel cuore della metropoli  non in modo rappresentativo, non in delegazione, ma calando da ogni periferia con una forza che è maggiore della somma delle singole parti: forza evocativa, forza discorsiva, forza progettuale. Desiderio non come evento capriccioso che balena e scompare, ma invece come capacità di connessione che investe il reale, lo modella, lo riarticola, lo riempie di senso.

Quando  abbiamo deciso di non lavorare all’organizzazione di uno spezzone per il 16 novembre, di non avere momenti di costruzione separati, una piattaforma autonoma da quella di #fiumeinpiena, una comunicazione differente da quella del comitato organizzatore, lo abbiamo fatto perché pensavamo fosse l’unico modo sensato di raccogliere questa sfida.
Stare dentro il fiume in piena, seguirne il corso per provare a capire dove andava, di che forza disponeva, quanto era veloce. Ingrossarlo senza timbri, senza bandierine, perché nel suo fluire si potessero – insieme – rompere gli argini e straripare. Argini che erano prima di tutto le forme di controllo che avevamo assorbito a forza in ogni territorio: la sfiducia, lo scoramento, il lutto come unica risorsa collettiva, la diffidenza, l’idea che tutto fosse già perduto, che fosse troppo tardi. E anche l’idea che – ossessivamente – si dovesse preferire la purezza delle proprie posizioni allo sporco lavoro d’incontro, di discussione, di approfondimento, di paziente analisi, che è l’unico in grado di produrre quella contaminazione capace di avere una vocazione maggioritaria.
Non è stata, quindi, la scelta di annacquare una storia lunga ormai dieci anni all’inseguimento delle scadenze.
È invece l’idea che a forza di marcare un territorio e di muoversi solo e soltanto dentro di esso, si finisce per perdere qualunque contatto con quel fuori selvaggio e diverso (e anche lunatico, e difficile, e problematico, e cocciuto e aggressivo) che non fa parte dello schema.
Perché la verità è che l’identità è un congegno tremendamente consolante: si attiva come un interruttore e ti dice che stai andando bene anche solo rimanendo fermo, perché il punto è un gioco a somma zero, è contarsi  (“ognuno riconosce i suoi”) e sapere già prima cosa fare, cosa dire, come collocarsi rispetto agli altri senza mai lasciargli la parola, immaginandoli come segnaposto vuoti da riempire con quello che si crede di conoscere. L’identità è la presunzione che la realtà non possa mai sorprenderti, è l’idea di aver già visto tutto, di aver già scritto l’analisi migliore, l’ultima parola.
Noi abbiamo voluto rischiare che la realtà ci sorprendesse. Perché la verità è che il 16 mattina abbiamo visto la pioggia e abbiamo tremato, perché fino ad un minuto prima del corteo ci siamo riempiti di caffè per non pensare a tutti i “se”, perché 150.000 persone non se le aspettava nessuno. Siamo scesi in piazza senza striscioni, sfilando vicini ai compagni e alle compagne di sempre, ma correndo insieme ad altri, cantando con loro, riparandoci sotto i loro ombrelli, imparando i loro cori. Alcuni di noi avevano addosso la paliacata zapatista o dei fazzolettini rossi che la ricordavano, tagliati in piazza da un grosso rotolo di stoffa: a dire che siamo figli della stessa rabbia, a dire che proprio non abbiamo la storia e le condizioni di vita per essere avanguardia, perché la verità è che da quelle periferie di merda veniamo anche noi, quei fumi aspri e densi ce li abbiamo sotto casa e quella dignità ribelle non dobbiamo mimarla in corteo perché ci accompagna da sempre, ci ha fatti incontrare, ci ha reso meno soli e quindi più forti. Questi foulard li abbiamo regalati a chi capitava, li abbiamo legati ai polsi, messi al collo, spiegando cos’erano a tutti perché ci interessava solo e soltanto essere lì: in mezzo a tutti, nel fiume in piena, singolarità immerse nella moltitudine.
E se questo ha voluto dire rinunciare ad ambizioni egemoniche, rinunciare a valutare un percorso in base alle chance (importantissime – sia chiaro – per ogni organizzazione) di accumulazione soggettiva, se questo ha voluto dire rinunciare ad intervenire come centri sociali e lasciar posto ad altri, ebbene ci pare un prezzo miserabile di fronte alla potenza di quello che il percorso del 16 ci ha regalato.
In termini di persone conosciute, di prospettive di analisi, di condivisione, d’incontro con le comunità e le esperienze più lontane e singolari.
Di questa complessità ci nutriamo e lasceremo sempre delusi quanti – sia detto giusto di passaggio – si aspettavano un consigliere comunale a difesa dei simulacri istituzionali, così come deluderemo chi non comprende la profonda gentilezza del gesto di decretare la subalternità delle istituzioni alla potenza costituente dei movimenti, accompagnando il gonfalone nelle retrovie di una moltitudine che si autorappresenta.

Dal 16 novembre usciamo fuori cambiati: e come non potremmo? E quanto poco invidiamo chi pensa che tutto resti uguale!
Ne usciamo cambiati: in termini di entusiasmo, di ipotesi di lavoro.
Ne usciamo convinti che la piattaforma di #fiumeinpiena sia una base eccellente per ogni opzione progettuale: dieci punti contro il biocidio che articolano davvero in modo complesso la quantità di contributi eccellenti che sono venute dai comitati. Quei comitati che – oggi – hanno tutto l’aspetto delle istituzioni del comune, proponendosi come presidi di democrazia reale ed espansiva in territori in cui lo Stato ha le sembianze della Mafia, e forse fa ancora più paura.
Dieci punti contro il biocidio che nascono da un lavoro serio di analisi, confronto, sintesi, tra le diverse posizioni e che individua alcuni punti imprescindibili: la richiesta di ritiro immediato del bando per l’inceneritore di Giugliano, che è la condizione minima perché chiunque voglia parlare di piano alternativo di gestione dei rifiuti in Campania possa essere interlocutore credibile. Perché chi pensa che inceneritori e discarica possano essere ancora sul tavolo delle trattative non ha capito la lingua dei 150.000, non ha capito il mondo che hanno in testa e la capacità che hanno sviluppato di solidarietà conflittuale tra tutti i territori. E poi, ancora, l’istituzione immediata del registro tumori e la previsione di interventi medici straordinari per i territori più colpiti dal biocidio. E ancora – evidentemente – le bonifiche, che non possono diventare la nuova torta da spartire tra soliti noti: gli stessi che hanno fatto una fortuna con le discariche e poi con gli inceneritori. Bonifiche che debbono passare per un controllo popolare reale, a partire dal presupposto che la partecipazione a volte diventa un feticcio e che, va senza dire, le comunità territoriali non chiedono di essere consultate, ma invece di erodere potere DECISIONALE rispetto allo sviluppo del proprio ambiente (inteso come ambito complesso, fatto di risorse e di relazioni, scritto e riscritto dalle soggettività che lo abitano, innervato dalle forme di vita che ne dicono il senso).

Ne usciamo, certo, con delle proposte.
Quella di aprire un ambito di discussione vera tra tutti i 16n che hanno scosso l’Italia, perché si possa definire sempre meglio il comune politico che le tiene assieme in uno stesso sfondo. Quando da Napoli abbiamo iniziato a capire la forza che potevano avere diverse esperienze di lotta reali, radicate sui territori, se intercettate da parole d’ordine chiare e generalizzabili (e puntare tutto sulla categoria di biocidio è servito a questo), ci è sembrato sensato azzardare quella stessa scommessa su un piano che alludesse, se non altro, ad uno scenario nazionale.
Ora ci pare che anche questa scommessa abbia pagato: entusiasti nel leggere del blitz di Parma che rilanciava spontaneamente lo slogan #stopbiocidio, entusiasti nel vedere le compagne ed i compagni di Pisa in strada a migliaia per costruire un #fiumeinpiena contro gli sgomberi, per l’autorecupero degli spazi dismessi, per il diritto alla città, entusiasti nel vedere Susa ancora invasa da migliaia di persone ancora una volta. Ancora una volta dopo il 19 ottobre, ancora una volta con la profonda convinzione che bisogna riterritorializzare ogni mobilitazione, ogni presa di parola pubblica e che la sollevazione – se ha senso – è quanto viene riarticolata, in modo singolare ed inedito, dalle comunità ribelli che vivono nella crisi, nell’impoverimento diffuso, nel disastro ambientale. Entusiasti nel vedere il tetto del CIE di Gradisca in fiamme, perché non c’è diritto alla città che non si ponga il problema della libertà di accesso e di movimento su tutto il territorio, perché i dispositivi di razzializzazione e d’inclusione differenziale impongono il marchio di clandestinità così come sanno imporre quella di inciviltà ai meridionali che vanno avvelenati perché l’industria settentrionale - a braccetto con l’imprenditoria armata (leggi: camorra) delle nostre regioni – possa fare profitto.
Quella di rigiocare la partita del biocidio in una prospettiva europea: poiché la svendita delle risorse dei sud, il saccheggio dei paesi a mezzo del debito e con l’artiglieria governamentale apparecchiata dallo stato di emergenza e dalla sospensione dello stato di diritto è ESATTAMENTE quella ricetta che l’austerity propone alla Grecia, all’Irlanda, al Portogallo, alla Spagna.
Ne parleremo a Francoforte, in un workshop settato sul tema del biocidio che guardi alla mobilitazione europea di maggio come ad un’occasione per avviare un lavoro di intreccio tra diverse esperienze di lotta territoriale. Vediamo infatti nella nuova fase di accumulazione e di recinzione dei beni comuni una delle caratteristiche decisive della ristrutturazione del capitalismo. E crediamo di aver imparato – a Napoli – che l’unica strategia d’attacco delle lotte ambientali sia quella di sperimentare forme di federazione complessiva, che facciano saltare le temporalità imposte dall’emergenza e individuino nel modo di produzione generale la matrice complessiva di tutte le questioni che poi si rideclinano sui territori: è quel modello di sviluppo, nella sua coazione alla crescita composta come unica condizione, costruisce grandi opere, privatizza il patrimonio artistico, sventra le valli per lasciar posto a treni inutili, decide a tavolino di sacrificare una regione per farne la discarica d’Italia. Ed è solo fuori da quel modello – ripensando la produzione, immaginando forme di cooperazione non sfruttata e di sviluppo inteso come miglioramento delle qualità della vita di tutti e condivisione della ricchezza socialmente prodotta – che quei territori possono avere riscatto.
Ma sono evidentemente idee che immaginiamo di costruire con i comitati – che per noi restano la vera ricchezza, la vera iniezione di energia di cui vivono i movimenti – nelle strade, confrontandoci con i tanti e diversi che sono disponibili ad un confronto reale, vero, non arroccato nelle astrazioni da risiko di cui siamo tutti un po’ artefici: un confronto che abbia come unico perimetro la condivisione delle pratiche e la democrazia di piazza, non per feticcio, ma perché abbiamo un disperato bisogno di parlare a tutti, di valorizzare ogni sfumatura.
Idee che immaginiamo di costruire dentro il #fiumeinpiena come corpo immerso nel suo scorrere, non come rigagnoli paralleli, affluenti con un nome proprio, stagni in cui proteggere la nostra microstoria dalle collisioni, dagli impatti, dalle trasformazioni inevitabili, nel dubbio permanente che ha sempre chi preferisce per intuito il movimento irregolare del torrente al rassicurante posizionamento statico dello stagno,  rinunciamo felicemente alla nostra identità nel tentativo di costruirne, insieme a tanti e tante, una diversa, più intensa, costruita a partire da tutte le differenze, senza negarne nessuna.

Dentro il fiume in piena e verso il mare aperto, che è quello incognito, spaventoso, ma capace di produrre quegli tsunami che poi lo stato di cose presenti lo cambiano sul serio.

La comunità ribelle del Lab.Occ.Insurgencia e di Mezzocannone Occupato